Nella liturgia il senso della cattolicità e dell’unità

Darío Castrillón Hoyos

Darío Castrillón Hoyos

L’Osservatore Romano – 28 marzo 2008

A colloquio con il cardinale Darío Castrillón Hoyos sulla “Summorum Pontificum”

di Gianluca Biccini

La lettera apostolica di Benedetto XVI Summorum Pontificum sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata nel 1970 sta facendo tornare anche alcuni non cattolici alla piena comunione con Roma.

Giungono richieste in tal senso dopo che il Papa ha rinnovato la possibilità di celebrare secondo l’antico rito”. Ad affermarlo è il cardinale Darío Castrillón Hoyos, presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, che in quest’intervista al nostro giornale, dopo la pubblicazione del documento pontificio sugli Acta Apostolicae Sedis, ne chiarisce i contenuti e ne evidenzia l’importanza come strumento per conservare il tesoro della liturgia che risale a san Gregorio Magno e per un rinnovato dialogo con quanti, in ragione della riforma liturgica, si sono allontanati dalla Chiesa di Roma. La pubblicazione sugli Acta ha preceduto di qualche giorno le nomine di Benedetto XVI a vice presidente dell’Ecclesia Dei, del precedente segretario monsignor Camille Perl, e a segretario di monsignor Mario Marini, che era segretario aggiunto.

La Lettera, sotto forma di motu proprio, non si riferisce all’attuale forma normale – la forma ordinaria – della liturgia eucaristica, che è quella del Messale  Romano pubblicato  da  Paolo VI e poi riedito in due occasioni da Giovanni Paolo II; ma si riferisce all’uso della forma straordinaria, che è quella del missale romanum anteriore al Concilio, pubblicato nel 1962 con l’autorità di Giovanni XXIII.

Non si tratta di due riti differenti, ma di un uso duplice dell’unico rito romano. È la forma celebrativa – spiega il porporato colombiano – “che è stata usata per più di 1.400 anni. Questo rito, che potremmo chiamare gregoriano, ha ispirato le messe di Palestrina, Mozart, Bach e Beethoven, grandi cattedrali e meravigliose opere di pittura e di scultura”.

“Grazie al motu proprio non pochi hanno chiesto il ritorno alla piena comunione  e  alcuni  sono  già  tornati – aggiunge il presidente dell’Ecclesia Dei -.

In Spagna, l'”Oasi di Gesù Sacerdote”, un intero monastero di clausura con trenta suore guidate dal loro fondatore, è già stato riconosciuto e regolarizzato dalla Pontificia Commissione; poi ci sono casi di gruppi americani, tedeschi e francesi in via di regolarizzazione. Infine ci sono singoli sacerdoti e parecchi laici che ci contattano, ci scrivono e ci chiamano per una riconciliazione e d’altra parte ci sono tanti altri fedeli che manifestano la loro gratitudine al Papa e il compiacimento per il motu proprio“.

Alcuni hanno accusato il Papa di voler imporre un modello liturgico in cui il linguaggio e i gesti del rito sembrano monopolio esclusivo del sacerdote, mentre i fedeli risulterebbero estranei e quindi esclusi da un rapporto diretto con Dio.

In occasione del Battesimo del Signore, per esempio, Benedetto XVI ha effettivamente celebrato nella Cappella Sistina con il volto verso il crocifisso. Il Papa ha celebrato in italiano secondo la forma ordinaria, che non esclude, però, la possibilità di celebrare verso l’altare e non versus populum e che prevede anche la celebrazione in latino. Ricordiamo che la forma ordinaria è la messa che normalmente dicono tutti  i  sacerdoti, secondo  la  riforma post-conciliare; mentre la forma straordinaria è la messa anteriore alla riforma liturgica che a tenore del motu proprio oggi possono celebrare tutti e che non è stata mai proibita.

Eppure alcune critiche sembrano venire anche da vescovi?

Qualcuno trova difficoltà, ma si tratta di poche eccezioni, perché la maggior parte è d’accordo con il Papa. Piuttosto vengono manifestate difficoltà pratiche. Bisogna fare chiarezza:  non si tratta di un ritorno al passato, ma di un progresso, perché si hanno così due ricchezze, invece di una sola. Si offre pertanto questa ricchezza, rispettando il diritto di quelli che sono particolarmente legati all’antica liturgia. Qui possono subentrare alcuni problemi di buon senso. Per esempio può accadere che un sacerdote non abbia la preparazione e la sensibilità culturale adeguate. Basti pensare ai sacerdoti che sono originari di aree linguistiche molto diverse da quella latina. Ma non si tratta sempre di un rifiuto:  è la presentazione di una difficoltà vera, che va superata.

La nostra stessa Pontificia Commissione sta pensando di organizzare una forma di aiuto ai seminari, alle diocesi e alle conferenze episcopali. Altra prospettiva allo studio è quella di promuovere sussidi multimediali per la conoscenza e l’apprendimento della forma straordinaria con tutta la ricchezza teologica, spirituale, artistica legata anche all’antica liturgia. Inoltre pare importante che vengano coinvolti gruppi di sacerdoti che già usano la forma straordinaria, i quali si offrono sia per celebrare che per illustrare e insegnare la celebrazione secondo il messale del 1962.

Quindi il problema non esiste?

È piuttosto una controversia nata da una certa non conoscenza. Alcuni per esempio chiedono permessi, come se si trattasse di una concessione o di un caso eccezionale, ma non ce n’è bisogno:  il Papa è stato chiaro. È un errore di alcune persone e di alcuni giornalisti, quello di ritenere che l’uso della lingua latina riguardi solo l’antico rito, mentre invece è anche previsto nel messale di Paolo VI.

Attraverso il motu proprio “Summorum Pontificum” il Papa offre a tutti i sacerdoti la possibilità di celebrare la messa anche nella forma tradizionale e ai fedeli di esercitare il diritto di avere questo rito quando ci sono le condizioni specificate nel motu proprio.

Come hanno reagito gruppi come la Fraternità San Pio X, che rifiuta di celebrare la messa del novus ordo stabilito dopo il Concilio Vaticano II?

I lefebvriani fin dall’inizio hanno affermato che la forma antica non era mai stata abolita. È chiaro che non è stata mai abrogata, anche se prima del motu proprio non pochi l’hanno ritenuta proibita. Ora, invece, essa può essere offerta a tutti i fedeli che lo vogliono, a seconda delle possibilità. Ma è anche chiaro che se non c’è un sacerdote adeguatamente preparato, non la si può offrire, perché non si tratta solo della lingua latina, ma anche di conoscere l’uso antico come tale. Bisogna cogliere alcune differenze:  il maggior spazio di silenzio per i fedeli che favorisce la contemplazione del mistero e la preghiera personale.

Ritrovare spazi di silenzio è, oggi, per la nostra cultura un bisogno non solo religioso. Ricordo di aver partecipato da vescovo a un corso per gestione d’impresa di alto livello, dove si parlava della necessità che il manager avesse a disposizione una stanza semibuia in cui sedersi a pensare prima di decidere. Silenzio e contemplazione sono atteggiamenti necessari anche oggi, soprattutto quando si tratta del mistero di Dio.

Sono trascorsi otto mesi dalla promulgazione del documento. È vero che esso ha suscitato molti consensi anche in altre realtà ecclesiali?

Il Papa offre alla Chiesa una ricchezza che è spirituale, culturale, religiosa e cattolica. Abbiamo ricevuto lettere di consenso anche da prelati delle chiese ortodosse, da fedeli anglicani e protestanti. Infine ci sono alcuni sacerdoti della Fraternità San Pio X che, singolarmente, stanno cercando di regolarizzare la loro posizione. Alcuni di loro hanno già sottoscritto la formula di adesione. Siamo informati che ci sono fedeli laici tradizionalisti, vicini alla Fraternità, che hanno cominciato a frequentare le messe nel rito antico offerte nelle chiese delle diocesi.

Com’è possibile un ritorno alla “piena comunione” per persone scomunicate?

La scomunica riguarda solo i quattro vescovi, perché ordinati senza il mandato del Papa e contro la sua volontà, mentre i sacerdoti sono solamente sospesi. La messa che celebrano è senza dubbio valida, ma non lecita e, quindi, la partecipazione non è consigliata, a meno che nella domenica non ci siano altre possibilità. Certamente né i sacerdoti, né i fedeli sono scomunicati. Vorrei in proposito ribadire l’importanza di una conoscenza chiara delle cose per poterle giudicare correttamente.

Non teme che il tentativo di voler riportare nella Chiesa uomini e donne che non riconoscono il Concilio Vaticano II, possa provocare un allontanamento in quei fedeli che invece vedono nel Vaticano II una bussola per la navigazione della barca di Pietro, soprattutto in questi tempi di continui cambiamenti?

Innanzitutto il problema di fronte al Concilio non è, a mio avviso, così grave come sembrerebbe. Infatti, i vescovi della Fraternità San Pio X, con a capo monsignor Bernard Fellay, hanno riconosciuto espressamente il Vaticano II come Concilio Ecumenico e monsignor Fellay lo ha ribadito in un incontro con Giovanni Paolo II, e più esplicitamente nell’udienza del 29 agosto 2005 con Benedetto XVI. Né si può dimenticare che monsignor Marcel Lefebvre ha firmato tutti i documenti del Concilio.

Penso che la loro critica al Concilio riguardi piuttosto la chiarezza di alcuni testi, in mancanza della quale si apre la strada a interpretazioni non concordi con la dottrina tradizionale. Le difficoltà più grandi sono di carattere interpretativo o hanno a che fare anche con alcuni gesti sul piano ecumenico, ma non con la dottrina del Vaticano II. Si tratta di discussioni teologiche, che possono aver luogo dentro la Chiesa, dove infatti esistono diverse discussioni interpretative dei testi conciliari, discussioni che potranno continuare anche con i gruppi che ritornano alla piena comunione.

Quindi la Chiesa tende loro la mano, anche attraverso questo nuovo motu proprio sulla liturgia antica?

Sì, senz’altro, perché proprio nella liturgia si esprime tutto il senso della cattolicità ed essa è fonte di unità. Mi piace molto il novus ordo che celebro quotidianamente. Non avevo più celebrato secondo il messale del 1962, dopo la riforma liturgica post-conciliare. Oggi nel riprendere alcune volte il rito straordinario, anch’io ho riscoperto la ricchezza dell’antica liturgia che il Papa vuole mantenere viva, conservando quella forma secolare della tradizione romana.

Non dobbiamo mai dimenticare che il punto supremo di riferimento nella liturgia, come nella vita, è sempre Cristo. Non abbiamo perciò paura, anche nel rito liturgico, di rivolgerci verso di Lui, verso il crocifisso, insieme ai fedeli, per celebrare il santo sacrificio, in modo incruento, come il Concilio di Trento ebbe a definire la messa.

(A.C. Valdera)