Nicola Calipari, italiano esemplare

Nicola CalipariLa Croce quotidiano 4 marzo 2016

Undici anni fa moriva in Iraq l’agente dei servizi segreti militari (SISMI) che stava riportando a casa Giuliana Sgrena, la cronista del Manifesto rapita dagli jihadisti. Giovanni Paolo II ne additò l’«eroico gesto suscitato da senso del dovere e da sentimenti di cristiana virtù». Ciampi gli conferì la medaglia d’oro al Valore Militare, premiando l’eroismo della fedeltà quotidiana al proprio dovere.

di Giuseppe Brienza

Ricorrono undici anni dalla morte di Nicola Calipari, l’agente dei servizi segreti militari italiani, allora SISMI (oggi AISE), ucciso mentre riportava a casa Giuliana Sgrena, la cronista del “Manifesto” rapita dagli jihadisti in Iraq. Era nato a Reggio Calabria il 23 giugno 1953 e da ragazzo ha ricevuto una formazione profondamente cattolica entrando anche negli scout

Giovanissimo, nel settembre 1979, si era arruolato nella Polizia di Stato iniziando la sua carriera professionale in una città non facile come Genova, che allora si apprestava ad essere la “casa-madre” del terrorismo rosso ed uno dei principali scenari degli Anni di Piombo. Lì prestò il suo primo servizio nella locale Squadra Mobile. Dopo alcuni anni passò a Cosenza e, nel 1999, fu assunto alla direzione centrale della Polizia Criminale. Dal 2002 Calipari aveva assunto la direzione della divisione Operazioni Internazionali del Servizio Segreto militare (SISMI).

In Iraq aveva avuto un ruolo di primo piano nella liberazione di diversi italiani rapiti dagli islamisti e, in quel maledetto 4 marzo 2005, stava viaggiando con la giornalista Giuliana Sgrena su un’auto che avrebbe dovuto ricondurli all’aeroporto di Baghdad, per tornare in Italia. A pochi metri da un posto di blocco statunitense la loro automobile veniva crivellata di colpi dal cosiddetto “fuoco amico” statunitense. Il poliziotto, dimostrando il proprio eroismo, fece scudo col proprio corpo alla Sgrena, che rimase ferita benché non mortalmente, e perse la vita raggiunto da un colpo d’arma da fuoco alla testa.

Gli americani stavano presidiando quella strada perché, recitano le fonti ufficiali, doveva passarvi l’ambasciatore degli Stati Uniti. Il soldato che sparò con la sua mitragliatrice alla macchina che portava la Sgrena e Calipari, dopo la richiesta di rinvio a giudizio, è stato prosciolto dalla nostra Corte d’Assise per difetto di giurisdizione. Infatti, la competenza a giudicare sul penale gli appartenenti alle forze multinazionali presenti in Iraq ricade sotto l’esclusiva competenza dei rispettivi paesi d’invio. Di conseguenza, solo gli Stati Uniti potevano processare il soldato che ha ucciso Calipari.

Dalla sua stanza al Policlinico Gemelli dove era per l’ultima volta ricoverato, Giovanni Paolo II rese il suo pubblico dolore per la morte di Calipari, della cui uccisione era stato informato in tempo reale. Il giorno successivo alla sua morte, Papa Wojtyla inviò un messaggio di condoglianze al fratello dell’agente rimasto ucciso, cioè il sacerdote Maurizio Calipari, membro della Pontificia Accademia per la Vita e professore presso la Facoltà di Bioetica dell’“Ateneo Regina Apostolorum” di Roma.

Nel testo, che fu recapitato attraverso l’allora Segretario di Stato cardinal Angelo Sodano, San Giovanni Paolo II espresse la sua «profonda vicinanza spirituale» ai familiari di Calipari, del quale manifestò ammirazione per l’«eroico gesto suscitato da senso del dovere e da sentimenti di cristiana virtù» (cit. in Giovanni Paolo II ricorda l’eroismo di Nicola Calipari, agenzia “Zenit”, 6 marzo 2005).

Il fratello del poliziotto, padre Maurizio, ha benedetto la salma di Nicola Calipari non appena il feretro è stato calato dall’aereo che lo ha riportato in patria. Il corpo dell’agente, dopo essere stato sottoposto ad autopsia, è stato trasportato all’altare della Patria a Roma dove, nella Sala delle Bandiere, è stata allestita la camera ardente e la salma è stata omaggiata da centinaia di romani accorsi a dare l’ultimo saluto a colui che ha sacrificato la propria vita per compiere il suo dovere. I funerali di Stato dell’agente sono stati celebrati a Roma nella Basilica di Santa Maria degli Angeli.

L’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito alla memoria di Calipari nel 2005 una Medaglia d’Oro al Valor Militare. In tempi di crisi dell’etica pubblica e, talvolta, di vera e propria demonizzazione dello Stato e dei suoi funzionari, ci pare sacrosanto l’invito che ci ha recentemente rivolto un giovane giornalista e scrittore, a «guardare alle Medaglie d’Oro al Valor Militare in luce diversa da quella tradizionale: non abbiamo a che fare, grazie a Dio, con altrettanti supermen, ma con gente qualsiasi, con creature verosimilmente desiderose non di gesta leggendarie, bensì di una passeggiata, della pace domestica, del calore degli affetti. Voglio dire che la condizione di partenza dei veri, autentici eroi è la più assoluta normalità. Come normale dovrebbe essere la divulgazione di tale cultura soprattutto nei giovani» (Giampaolo Rugarli, Una carriera difficile. Da uomo per bene a eroe, in “Gnosis. Rivista italiana di intelligence, n. 3/2013, p. 137).

Sono del parere che, nonostante la corruzione e gli scandali, le persone per bene nelle Forze dell’ordine e nella pubblica amministrazione sono ancora la stragrande maggioranza. Non condivido, quindi, la frase spesso citata di Bertolt Brecht, per cui sarebbero felici tutti i Paesi che non hanno bisogno di eroi. L’eroismo è quello della fedeltà quotidiana ai propri doveri e, quindi, «[…] l’umanità ha bisogno di persone perbene, di eroi che con la loro eterea presenza danno speranza al mondo. Venendo meno questo requisito apparentemente semplice, a portata di mano, l’aggregato sociale si sfalda. Le Medaglie d’Oro non portano scritto sulla carta d’identità, alla voce professione, “eroe”. Sono uomini, con tutti i loro pregi e tulle le loro debolezze che, chiamati a terribili prove, hanno saputo esaltare le proprie virtù. Lo stesso Nicola Calipari non inseguiva certamente sogni eroici: era un funzionario dello Stato, con la sua famiglia, i suoi amici, forse con una squadra di calcio del cuore. Gli fu detto di andare a riprendere una connazionale rapita in Iraq e di riportarla a casa. Lui lo fece, perché era il suo dovere e pagò con la vita la sua rettitudine e la sua generosità. Calipari è un eroe? Sì, ma lo è in quanto persona perbene, di quelle che antepongono l’interesse altrui al proprio tornaconto» (G. Rugarli, art. cit., p. 143).

Insomma, Italiani di cui essere fieri, non semidei, padri e madri di famiglia che vanno fatti di più e meglio fatti conoscere, soprattutto alle nuove generazioni. Il nostro Paese ha bisogno di riparlare di eroismo, quello ordinario. Se ne ha un grande bisogno, anche per toglierci da questa crisi economica che è ancora lungi dal passare.