Il motu proprio Summorum Pontificum e la fine del postconcilio

summorum_pontificumper Alleanza Cattolica – Valdera 30 settembre 2007

Il senso del documento, tra accoglienza e critiche

Stefano Chiappalone

Trascorsi poco più di tre anni dalla promulgazione del motuproprio Summorum Pontificum, tracciamo un piccolo bilancio, in attesa dei bilanci più autorevoli che eventualmente si faranno “colà dove si puote ciò che si vuole”. Grazie alla “liberalizzazione” di Papa Benedetto XVI, in questi tre anni è aumentato considerevolmente il numero di messe in forma straordinaria (c.d. tridentine) celebrate più o meno regolarmente. Celebrazioni pre-esistenti si sono stabilizzate, sempre nuovi parroci si avvicinano a questa liturgia che non avevano mai conosciuto (un dato di non poco rilievo è la giovane età dei preti e soprattutto dei fedeli “tridentini”).

A dispetto dell’accusa di nostalgismo che sembra invece da attribuire ad un certo clero ormai anziano, sorpreso o perplesso, se non ostile di fronte a giovani non proprio in linea con le idee rivoluzionarie della “gioventù” di quarant’anni fa.

Al di là di poche eccezioni lodevoli, la ricezione del motu proprio nel mondo cattolico è stata caratterizzata da una immediata damnatio memoriae (quanti sacerdoti conoscono questo motuproprio? E in generale, quanti sacerdoti, catechisti, ecc. leggono i documenti del magistero pontificio?) o da un susseguirsi di dichiarazioni o notificazioni i il cui senso (neanche troppo)  recondito è: “usare con cautela”. Il tutto, a loro dire, per scongiurare il pericolo di “affossare” il Concilio Ecumenico Vaticano II (cioè l’evento ecclesiale più citato e meno letto dai progressisti)

Il Summorum Pontificum sicuramente contiene esplosivo, altrimenti le diffuse preoccupazioni non si spiegherebbero. Ma altrettanto sicuramente non sempre è chiaro quale sia l’esplosivo in questione, anche per la diffusa tendenza a tenere gli occhi ben fissi sul dettaglio – o sull’altare, in tal caso – dimenticandone il quadro generale.

Si teme forse l’innegabile spirito di apertura ai membri della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata nel 1970 dall’arcivescovo Marcel Lefebvre? Può anche essere, ma è risaputo che i problemi sono dottrinali prima che liturgici. E poi in un contesto ecclesiale fondato sul dialogo con i fratelli separati, che fastidio darebbero dei “fratelli separati” in più da riammettere nel seno di Sancta Romana Ecclesia?

Non si è scatenato tanto trambusto per la riammissione dell’Amministrazione Apostolica “San Giovanni Maria Vianney”  di Campos, in Brasile, né, a maggior ragione, dell’ancor più piccolo Istituto del Buon Pastore a Bordeaux, in Francia. Del resto questo è l’unico aspetto condiviso pienamente persino dal card. Martini, icona del progressismo. Casomai, ridurre la portata del motuproprio alla sola questione lefebvriana costituirebbe per il clero un’ottima scusa per aggirarlo e dimenticarlo: riguarda solo pochi scismatici, a noi non interessa.

Né basta a rendere ragione delle corali lamentazioni la nota aspirazione ratzingeriana ad una liturgia più sacrale: sarebbe ingiusto credere che tutti i critici della “forma straordinaria del rito romano” siano fautori degli abusi liturgici, che del resto non sono previsti nel messale di Paolo VI (come dimostrano ampiamente le celebrazioni officiate dal Papa). Altrimenti lo stesso clamore si sarebbe sollevato già di fronte ai precedenti richiami di Giovanni Paolo II sulla solennità e la correttezza della celebrazione liturgica, che invece hanno avuto la “normale” ricezione da parte del clero: cioè ascoltati da chi già non ne aveva bisogno e tranquillamente ignorati dagli altri.

Non sempre gli “avversari” della liturgia romana antica sono anche fautori della sciatteria e qualcuno addirittura  improvvisamente ricorda che anche col rito attuale si può celebrare “in latino” e “di spalle” (o meglio, “rivolti al Signore” come precisava padre Uwe M. Lang nell’omonimo libro, con l’autorevole prefazione dell’allora cardinal Ratzinger). E se anche l’unico risultato pratico del motuproprio fosse una celebrazione della forma ordinaria più simile alla liturgia celeste che alle paraliturgie televisive, pur di evitare l’aborrita “messa tridentina”, sarebbe già un gran risultato.

Si potrebbe continuare, ma i due elementi principali su cui fanno leva più di frequente le analisi del provvedimento benedettino, cioè la fine dello scisma lefebvriano e una liturgia più aperta al mistero e all’adorazione, sono palesemente insufficienti: potrebbero far esplodere sì qualcuno sì e qualcuno no, ma non tutti insieme.

Probabilmente anche qualcuno dei “sì”, che pur avendo fatto il ’68 ecclesiale, in fondo si commuoverebbe se per una volta (una sola) tornasse ad iniziare la messa con le antiche parole del salmo 42: “Introibo ad altare Dei – Ad Deum qui laetificat iuventutem meam”, “Salirò all’altare di Dio – A Dio che allieta la mia giovinezza”. Ma solo come puro amarcord  della prima messa, poi basta giocare con un rito che esprime una teologia superata.

E invece no, il papa dice che il rito antico non è superato, che tra la messa di Paolo VI e la messa di san Pio V (e di Giovanni XXIII) non c’è rottura, entrambe possono coesistere, l’una come forma ordinaria l’altra straordinaria, perché “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”.

E oltre a non essere dannoso, è persino positivo: “Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto”. Il papa dice “a tutti”, non solo a quei pochi (ma meno “pochi” di quanto credono molti vescovi) che ne faranno concretamente uso. E se entrambe le forme possono coesistere, e se questa coesistenza fa bene a tutti, allora anche le diverse spiritualità, ecclesiologia, teologia (chiamatele pure come vi pare) che esprimono possono coesistere e fanno bene a tutti.

Perché nella Chiesa non vale il detto “chiodo scaccia chiodo”, né tantomeno “messale scaccia messale” e “concilio scaccia concilio”. Il cuore del problema è proprio qui: tutti coloro che vedono un’opposizione insanabile tra la messa “vecchia” e quella “nuova”, vedono anche un’opposizione insanabile tra la Chiesa “pre” e “post” conciliare.

Tanto in alcuni ambienti anticonciliari quanto tra i difensori a spada tratta del Concilio – con giudizi opposti, gli uni con tristezza, gli altri con gioia –, il Concilio Vaticano II è considerato in modo più o meno velato come il punto di partenza di una nuova religione. Benedetto XVI però ci ammonisce che “Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive” (Lettera ai Vescovi del 10 marzo 2009).

Questi fraintendimenti non trovano appiglio nei testi conciliari in sé, interpretati secondo Pietro e non secondo i media, ma la propaganda grida più della verità e lo “spirito del Concilio” invece di incarnarsi nella “lettera del Concilio” ha preferito incartarsi negli slogan giornalistici.

Paolo VI passò gran parte del suo pontificato a constatare che la “primavera” tanto attesa era durata poco, presto sostituita dalla corsa all’eresia e all’ideologia spacciate per libertà; e fu il primo a cercare di rimettere in rotta la barca di Pietro – pensiamo all’enciclica Humanae Vitae, alla Mysterium Fidei, al Credo del Popolo di Dio – agitata dai ratzingeriani “venti di dottrina” (cfr. l’omelia pre-conclave del 18 aprile 2005).

Giovanni Paolo II ha impiegato 27 anni per somministrare al popolo di Dio, e soprattutto ai suoi pastori, invasive dosi di ortodossia – il rilancio della Dottrina Sociale e della Nuova Evangelizzazione, di  fronte all’illusione di colmare le lacune materiali e spirituali col veleno delle ideologie; il Catechismo della Chiesa Cattolica; il magistero sulla vita e sulla famiglia e quello (spesso frainteso) sulla pace – che permettessero di applicare il vero Concilio.

Papa Benedetto ha continuato l’opera dei predecessori, condensata nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 in cui ha affermato che “La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue ‘il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio’, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga” e ha criticato invece l’ “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, in base alla quale diversi teologi hanno creduto, magari in buona fede, che il Concilio richiedesse di dover predicare una nuova religione, come se l’anticristo – quello pacifista, ecumenico ed ecologico di Solovev –  fosse tutto sommato più buono di Cristo.

Qui sta il vero esplosivo del motuproprio Summorum Pontificum – che non è “contro il Concilio”, semmai è un passo avanti nella sua corretta e piena applicazione – il quale non ponendo in antitesi nova et vetera, anzi, affermandone la tranquilla possibilità di coesistenza e addirittura di arricchimento reciproco, ha toccato i nervi scoperti di chi invece portava avanti l’ermeneutica della discontinuità. Nel discorso del 22 dicembre 2005 c’è dunque la più completa chiave di lettura del motuproprio. E forse anche di tutto questo straordinario pontificato.

(A.C. Valdera)