«L’utero in affitto ruba l’identità ai bambini»

adozioni_lesboAvvenire venerdì 19 febbraio 2016

Lo psichiatra Paolo Crepet: nessuna eccezione, pratica aberrante e inaccettabile «Rispondere alla domanda tipica di ogni essere umano, ‘chi sono io?’, è un dovere assoluto, è addirittura fondativo della nostra vita. Ma la maternità surrogata lo rende impossibile»

Lucia Bellaspiga

«Chi sono io? Di chi sono figlio? Chi sono mia madre e mio padre? Questa è la discriminante: ogni volta che diventa impossibile rispondere a queste domande, che sono il diritto assoluto di ogni essere umano, si è compiuto qualcosa di sbagliato». È la bussola con cui Paolo Crepet, psichiatra, si orienta in quella che definisce «una galassia di situazioni diverse tra le quali occorre distinguere», eufemisticamente chiamata ‘gestazione per altri’, o più realisticamente utero in affitto.

Mai prima d’oggi nella storia dell’umanità si è rischiato di venire al mondo senza sapere da chi. L’utero in affitto e altre pratiche manipolatrici della nascita, invece, oggi rubano alla persona che nasce la sua stessa identità…

Vorrei rispondere partendo da un assunto, e cioè che questo argomento è molto complesso e le cose complesse non si possono semplificare. Ritengo che gli omosessuali debbano avere tutti i diritti civili e patrimoniali. E il problema non è nemmeno l’adozione, laddove un figlio sia nato da una relazione eterosessuale precedente e poi ad esempio il padre abbia cambiato orientamento sessuale: è chiaro che il bambino resta suo figlio e, qualora la madre per sventura venisse a mancare, andrà a vivere con suo padre, ovvero con la nuova coppia omosessuale.

Dove inizia il problema più grave?

In tutto ciò che ruba l’identità al bambino. Rispondere alla domanda tipica di ogni essere umano, “chi sono io?”, è un dovere assoluto, è addirittura fondativo della nostra vita. Pensiamo al caso, seppure diverso, dei figli che sono adottati dalle famiglie: presto o tardi ci chiedono sempre da dove vengono, vogliono andare a vedere il loro Paese, ove possibile anche incontrare i genitori naturali, cercare quella famosa risposta. Ma con l’utero in affitto questa risposta non è possibile darla, ed è un’aberrazione inaccettabile. Come ho detto, esistono però situazioni diverse, che vanno distinte. Inizio dalla più grave.

Qual è, e perché?

Vale la pena ricordare che cosa avviene quando un uomo gay vuole fare il padre, gli preme questo desiderio e decide di recarsi all’estero, ad esempio in America, dove si può fare tutto. Lì si cerca una donna che gli aggrada e già questo è un primo grosso problema, perché siamo in piena eugenetica: si sceglie una razza, il colore della pelle. Elton John mica ha voluto una donna nera di Haiti… L’eugenetica, anche etimologicamente parlando, è già razzismo ed è una pratica ben nota ai nazisti. Celebrare davvero la Giornata della Memoria significa non dimenticarlo.

Poi questa donna per nove mesi cresce nel grembo il bambino, e tra madre e figlio durante la gestazione si instaurano relazioni. È provato ad esempio che se la madre si accarezza spesso la pancia nasce un forte rapporto affettivo… Al parto il ricco gay occidentale stabilisce che quindi quella donna non deve allattare, e qui nasce il grande trauma sia per la madre che per il figlio: a entrambi viene negata la meraviglia dell’allattamento, il primo atto che il neonato cerca, e che non è solo una nutrizione. Anni fa si studiava la “teoria dell’attaccamento”: così a un neonato di scimpanzé si offrirono una tetta di plastica piena del latte di sua madre e più lontano un ciuffo dei suoi peli con dentro una tetta vuota. Il cucciolo andava a cercare quest’ultima.

Oggi la teoria dell’attaccamento è cosa nota e riguarda il calore, l’odore, non certo il nutrimento. E noi cancelliamo tutto questo perché decidiamo che va bene così? È mostruoso. Ancora più grave è quando i due gay dicono “ma noi teniamo un rapporto con la donna che lo ha fatto nascere”: peggio! È accanimento. Se non soffre di autismo, soffrirà in maniera inimmaginabile. È già successo che alcune madri surrogate poi rivendichino la maternità. Particolarmente odioso, poi, è il fatto che tutto ciò sia accettato perché costa cifre altissime, dunque vi accedono solo i milionari. Per coerenza, però, dobbiamo parlare ora degli altri casi sbagliati.

Seconda casistica, dunque?

Una signora single, o lesbica, decide di diventare madre, va ad esempio in Spagna alla banca del seme, sceglie dai cataloghi e compie l’atto con la fialetta. La cosa diversa è che lei stessa se lo cresce in grembo, dunque non interrompe la relazione tra madre e feto, ma l’operazione è comunque eugenetica e soprattutto resta la voragine della risposta mancata: chi è mio padre? Non lo saprà mai e questa è una violenza spaventosa. Non vorrei che la diatriba sull’utero in affitto facesse “dimenticare” questa altra pratica solo femminile, come se non fosse ontologicamente grave per il bambino privato della sua identità.

Terzo caso?

C’è anche una declinazione leggermente diversa che è, ad esempio, quella di Nicole Kidman: l’attrice non voleva restare incinta, per motivi suoi professionali, così ha preso questo connubio tra lei e suo marito e lo ha impiantato in una donna, usata come macchina fattrice. Qui padre e madre geneticamente sono noti, la risposta al “chi sono io?” c’è, dunque il problema non riguarda l’identità, ma certamente l’attaccamento sì, come pure lo sfruttamento di una donna povera, l’affitto di un utero e la speculazione economica. Dei tre casi è il “meno grave” e largamente il più diffuso, ma resta inaccettabile. Come vede, la galassia è complessa. Io non sono in Parlamento e non faccio le leggi, ma da psichiatra dico no in assoluto a tutti e tre i casi.

Molti studi provano che per una crescita equilibrata e serena ogni bambino ha bisogno di un padre e una madre, naturalmente di due sessi diversi. Ma occorre davvero dimostrare una cosa così ovvia?

La questione è recente, fino a vent’anni fa non esistevano tecnologie procreative quindi non era discutibile. Ma siccome nel figlio i problemi possono nascere in qualsiasi momento nei primi 25 anni di vita, non nei primi tre, manca ancora l’esperienza. L’unica che abbiamo risale alla guerra, quando gli uomini erano a combattere e i bambini crescevano in un mondo tutto al femminile, con madre, nonna, zie e sorelle, e tutto in effetti è andato bene, ma lì la famosa risposta c’era: ”tuo padre è al fronte”, e questo fa un’enorme differenza. Non c’è alcun dubbio che avere accanto la figura maschile e quella femminile è l’ideale, ma oggi spesso prevale un pregiudizio positivo, e cioè che “basta l’amore”, da chiunque ti arrivi. È una grande sciocchezza, dietro la quale ci sono soldi e belle parole che ti rubano l’identità. Non scordiamo mai che questo pregiudizio positivo giova a coppie eterosessuali o omosessuali molto ricche, illuse di poter poi colmare qualsiasi vulnus del figlio con i soldi.

Nel momento in cui si paga per un figlio, sfruttando una condizione di povertà, non si ravvisa un fondo di razzismo o di colonialismo?

Non troverà mai un omosessuale indiano o filippino che farà una cosa simile, sia per censo sia perché nella sua storia antica non c’è un passato di colonialismo.