Charette. L’eroe proibito

Francois_Athanase_Charette

Francois Athanase Charette

Il Giornale

(articoli pubblicati il 4 – 11 e 19 agosto 1996)

Dalla Vandea alla Bretagna: viaggio revisionista attraverso due secoli di memorie. Tra spiagge, isole e fortezze la ricerca del filo rosso che grazie al passato ci fa capire il nostro presente

di Piero Buscaroli

La Place d’Armes, che cercavamo, adesso si chiama Viarmes, precisa la signorina al Castello. Saliamo, a piedi, in un quartiere ricostruito a casaccio dopo i bombardamenti inglesi e americani, che non furono sull’amica Francia, in attesa di «liberazione», più pietosi che sulla Germania e l’Italia. Curiosa inoppugnabile sorpresa. Place Viarmes è un’immensa baraonda bordata d’orribili edifici d’ogni moderna specie. Su un lato un orrendo albergo, su quello opposto cartelloni pubblicitari nascondono la nascita di qualche altra orrenda cosa. Quando si danno al brutto, i francesi, non li passa nessuno. Il vento veloce solleva un polverone che fa turbinare migliaia di foglietti, pianetine Bianche ai qualche gelato a poco prezzo. Banchetti, trespoli, avanzi, dicono d’un mercato appena smontato.

Della fucilazione, di cui cerchiamo il posto, solo il nome di un ristorante, «Le Charette», chiuso. Al bar vicino domandiamo se non vi sia un ricordo di quell’avvenimento di due secoli fa. Senza gentilezza mostrano col dito un angolo in fondo, nell’ombra dei platani. C’è, infatti, insolentemente circondata di paracarri e stupidi segni bianchi in terra, una vecchia grande croce di pietra giallastra, il sacro cuore vandeano al centro. Nel basamento, la targa di ghisa, ossidata, corrosa, quattro piccoli gigli agli angoli: «lci a eté fusillé / pour son Dieu et son Roi / le général vendéen Charette de la Contrie. 29 mars 1796».

I «blu» del generale Travot l’avevano catturato sei giorni prima nei boschi della Chabotterie, il castello d’un seguace, nel cuore della Vandea. Di tre anni di battaglie e di agguati, delle migliaia di contadini soldati, che al suo richiamo si addensavano filtrando tra paludi e foreste, per poi tornare a dissolversi verso le loro case, gli rimaneva una trentina di fedeli comprese le donne, le ragazze che sempre lo seguirono nelle sue imprese. Il clero si era piegato al nuovo regime, preti e abati lo denunciavano. Il conte d’Artois, il futuro Carlo X, atteso fino allo spasimo sulle spiagge dell’Atlantico, era l’ultima speranza. Ma non venne, e la speranza si spense.

Gli ultimi passi della sua guerra, Charette li mosse a piedi. Affidò il cavallo a un contadino, che si affrettò a consegnarlo ai soldati del generale Hoche. Riunì i suoi ultimi volontari e dichiarò, «con una dolcezza che non era più nelle sue abitudini. Siamo traditi, venduti, a voi resta la speranza di confondervi nella folla. Legato al giuramento al mio Re, io non posso lasciare il mio posto senza il suo ordine, la mia fede mi prescrive di aspettare il destino. Rassegnato ai decreti della Provvidenza, mi difenderò da soldato, e morirò da cristiano». Non disse che aveva scritto a Luigi XVIII: «Sire, la viltà di Vostro fratello ha rovinato tutto. Egli poteva sbarcare su queste coste, e tutto perdere, o tutto salvare. Il suo ritorno in Inghilterra ha segnato la nostra sorte. Non ci resta che morire, inutilmente, al Vostro servizio». Il Re e la Provvidenza di Charette erano rimasti nei cieli sublimi che risplendono sugli eroi. Fortunati i popoli che hanno i loro eroi, per quando ne hanno bisogno.

La mattina del 23 marzo 1796 i centomila uomini dell’armata di Hoche, su quattro potenti colonne, mossero per farla finita con quei trenta che fecero tremare la Repubblica. Una, che veniva da Chauché, al comando del generale Travot, s’imbattè nel piccolo gruppo del generate vandeano, già ferito. Charette spara sull’aiutante generale Valentin, manca il colpo, e i «blu» lo incalzano con fuoco serrato. Lo salva, ancora una volta, Pfeiffer, l’attendente tedesco che, come in un travestimento da «Don Giovanni», si mette in testa il cappello col pennacchio bianco che Charette si ostina a portare, e così attira su di sé la fucileria repubblica­na, cadendo subito ucciso.

Charette sfugge per l’ultima volta, incappa in un’altra colonna, i suoi cadono, è di nuovo ferito. Tenta di passare un torrente che lo separa dalla foresta, si difende come un diavolo, un colpo di spada gli tronca due dita. La sua resistenza sovrumana cede, è a terra, stremato. Il domestico, Bossard, e due compagni lo prendono a braccia, Bossard è ucciso, e subito dopo il giovane La Roche-Davo, il terzo si carica il suo generale sulle spalle, ma presto crolla, taglia un gran ramo di frassino, ce To nasconde sotto, ma il generale nemico che accorre in persona con tre dei suoi «blu», lo scorge: «C’est lui, c’est Charette!», e si getta sul corpo disteso.

Accecato dal sangue d’una ferita, che gli riempie gli occhi, il vinto tace. Uno dei cacciatori «blu» lo riconosce: «Tenez ferme, c’est notre homme!», e Travot, che non crede alla sua fortuna, domanda: «Dov’è Charette?». Eccolo qua, risponde il ferito.

La cattura di Charette, riferiscono abbondanti cronache, «mise la Repubblica in delirio». «Fatichiamo, oggi», scrive Michel de Saint Pierre, «a figurarci che cosa rappresentasse quella cattura. La personalità, e poi il mito, del Cavaliere, del capo inafferrabile di immense legioni fantasma, avevano incantato e sconcertato l’Europa. Suvarov, il capo degli eserciti russi, gli scriveva come a collega e maestro. Napoleone, a Sant’Elena, ripenserà alle sue gesta. Rifiutò di andare in Vandea a dare man forte ai colleghi Haxo, Turreau, Hoche, i macellai in uniforme. Restò all’Armata d’Italia e, una volta console, potè dedicarsi a risanare le ferite orrende che i suoi colleghi avevano inferto a questo popolo.

Il Concordato del 1802 fu salutato in Vandea come «la vittoria dei vinti». Il giorno di Pasqua, le chiese della «patrie vendéenne» gridarono insieme, con la voce di bronzo delle campane, che il popolo sterminato viveva ancora. Era stato sul punto di soccombere alle «colonne infernali», come le battezzò Turreau, che ne fu l’inventore e il capo, mandate ad applicare un programma di sterminio sistematico: ancora si legge nel libro scritto da Gracchus Babeuf per incarico di Fouché, che tentò di far dimenticare, coi crimini del «boia di Nantes» e dei suoi compari in uniforme, i crimini suoi propri, nel momento che la reazione termidoriana incalzava verso la ghigliottina gli artefici del Terrore. Riuscendoci, purtroppo, come la successiva carriera testimonia.

Al padre del comunismo utopistico dobbiamo perciò, per un curioso paradosso, quella descrizione della strage indiscriminata del popolo vandeano, repubblicani compresi, che s’intitolò: Du système de Depopulation, ou la vie et les crimes de Carrier». Il «genocide vendéen», così lo definì Raynal Secher, riaprendo la questione nel bicentenario della «rivoluzione diabolica», è il modello delle stragi comuniste nel ventesimo secolo, fino alla «pulizia etnica» perpetrata dai banditi di Tito contro gl’Italiani, a partire dal 1943.

Gli storici controrivoluzionari dei nostri tempi, giovani e giovanissimi, come Jean-Joél Brégeon, hanno trovato in Babeuf la conferma di quanto avevano scoperto: che fu realmente intrapresa, in Vandea, a partire dal 1793, la distruzione «scientifica» di una popolazione, giudicata non assimilabile, per conformazione razziale, al regime ateo e repubblicano. Gli storici radicali massoni e comunisti avevano intenzionalmente lasciato in ombra il libro di Babeuf, perché smentiva, fin dai suoi giorni, l’immagine redentrice della Rivoluzione.

Ne denunciava il meccanismo intimo, di cui il Terrore era il solo esito possibile, con caratteri che si mantennero nel passaggio dal giacobinismo liberale e democratico al bolscevismo: «Col sistema di spopolamento e la conseguente diversa ripartizione delle ricchezze tra i destinati a sopravvivere, tutto si spiega, le guerre della Vandea, la guerra esterna, e proscrizioni, le guillottinades, le foudroyades (folgorazioni, ossia fucilazioni, in massa), le noyades (gli annegamenti in massa), le confische, le requisizioni, le appropria­zioni, le elargizioni a determinate categorie d’individui (…) il pensiero di Rousseau, spiegava Babeuf, in interpretazione perversa».

La massima, «che tutti abbiamo abbastanza, e nessuno troppo», fu trasformata in incitamento a liquidare gli «oziosi», gli «inutili», i «parassiti». I robespierriani, che inventarono a Parigi il «popolicidio», e Carrier, che l’applicava a Nantes, si erano persuasi che, «a conti fatti, la popolazione francese eccedeva le risorse del suolo», e poiché si era deciso di ridurre il numero, conveniva cominciare con questi cristiani recidivi e realisti incorreggibili.

Fu tra i primi, Babeuf, che portassero nella politica moderna il ricordo di come i Conqidstadores spagnoli imposero il Vangelo agl’Indiani d’America. La républicanisation della Vandea seguì il modello anche nella scelta delle vittime, «uomini agresti, semplici, buoni, umani, vicini alla natura, e per conseguenza adattissimi a cadere nel tranello della libertà». In America, «pugnale in una mano e crocefisso nell’altra, s’intimava a poveri diavoli, che mai avevano sentito parlare di una tale chiamato Gesù il Galileo: riconosci il tuo Dio, o ti uccido… Qui, coccarda “nazionale” in una mano, e il ferro nell’altra, gente che mai s’era fatta un’idea della libertà, era convertita con la breve formula: credi nei tre colori, o ti pugnalo. Solo gli scenari sono cambiati, il fondo dei due quadri è identico».

L’avo patriarcale dei nostri comunisti poteva ben farci la figura del santone, perché i manovratori del Terrore erano allora i «patrioti» liberali. Ma i clienti di quegl’istituti di rieducazione democratica che si chiamarono ufficialmente Glanvoe Upravlenie Lagerej, e familiarmente Gulag, non faticarono a riconoscere il profumo delle lontane origini, quando il glorioso bicentenario si mise in moto. Lo disse Aleksander Solgenitsin, chiamato a inaugurare, due anni or sono, il «Mémorial de Vandée», eretto su due ettari di campagna, con al centro, alta su una collina, la chiesetta dei Lucs de Boulogne, la città martire della Vandea, nelle cui mura tutta una popolazione fu sterminata, parroco in testa, dal fanatismo dei «blu» repubblicani.

Ma, ecco l’imprevista sorpresa, la Storia ufficiale, venerata e truccata in due secoli di tirannide ideologica, rimetteva in moto la sua sorella disprezzata; l’antistoria irrazionale, ribelle alla crudele equazione hegeliana del «razionale uguale al reale». L’antistoria, irrisa e demonizzata dai nipotini di Hegel, diventava reale e operante controstoria. Contemplata nel suo culmine delinquenziale, spoglia dei suoi panni solenni, la Rivoluzione apparve in tutta la sua miseranda decrepitezza.

Non più la difendevano i dogmatici falsi, non più riluceva «en bloc» secondo una pretesa idiota e famosa. Ripassati al bucato dell’antistoria, gli «eroi della Rivoluzione» rivelavano la stupidità scientifica dell’astronomo Bailly, la malafede volpina dell’abate Sieyès, la vanità incosciente di Mirabeau, la corruzione di Danton, il sadismo criminale di Robespierre. L’immagine dipinta dalla storiografia massonica e repubblicana si dissolve nel liquame dei sofismi, delle vergogne, nell’orrore dei fiumi di sangue inutilmente dissipato.

Risplende la verità che Alessandro Manzoni vecchio aveva inciso nella pagine stupende del Saggio sulla Rivoluzione, il grande libro stampato nel 1889 a cura di Ruggero Bonghi, che la cultura massonica e progressista riuscì a cancellare per un secolo: la Rivoluzione fu criminale e illegale dal primo giorno, dal 10 giugno 1789, e non lo divenne poi, come si è preteso, per gradi successivi.

Chi sono più i Robespierre e i Carrier, i loro complici militari, grondanti palmette dorate, cordoni e galloni? Non più che ruote sdentate, pulegge rugginose di un potere perverso, che pervertì la Francia, e poi l’Europa. E, invece, risorge Charette, risorgono il carrettiere Cathelineau, il guardiacaccia Stofflet, i nobili ufficiali dell’armata reale, d’Elbée, Lescure, Bonchamp, i due fratelli de la Rochejaquelein, il più giovane dei quali, Henri, faceva appena vent’anni quando agl’insorti che lo eleggevano loro capo, rispose con una frase che doveva fare lunga carriera: «Io sono un ragazzo, ma col coraggio mi mostrerò degno di comandarvi. Se avanzo seguitemi. Se indietreggio uccidetemi, Se muoio vendicatemi».

Mantennero la parola. Lui, e loro. Risuonano i gridi dei martiri sconosciuti, diffamati, cancellati. Dalle brume dell’offesa partigiana, che li aveva ridotti avanzi irresponsabili e folcloristici di arretratezza barbarica e provinciale incapacità a comprendere il nuovo, riemergono la buona fede, il coraggio, l’intelligenza: «Charette mi dà l’idea di un grande carattere… Lascia trasparire il genio», rifletteva Napoleone a Sant’E’ena. E Las Cases stenografava.

Il genio. Atterrato dalla sua sventura, il capo di nazioni e di eserciti si chinava sulla sventura del capo d’una piccola nazione, e dei suoi improvvisati eserciti, fucilato a trentatré anni. Napoleone sapeva quel che gli storici negarono e nascosero. Che quella morte, mettendo fine alla rivolta di Vandea, aveva privato del suo ultimo baluardo il più antico dei troni di un’Europa cristiana, che non sarebbe stata cristiana come prima.

Bonaparte sapeva, come Carnot, come Hoche, che mai la Repubblica era stata messa in pericolo dall’invasione esterna, come nel 1795 in Vandea, di dove l’invincibilità e l’inafferrabilità di Charette si erano propagate fino a Parigi come un presagio di catastrofe. Se soltanto il Re, il suo fratello fellone, avessero osato sbarcare. Quando gli annunciarono la cattura di Charette, il generale Grigny mandò a Hoche un messaggio che soltanto gl’ignari trovarono stupefacente: «Charette è in nostre mani… Complimenti, mio caro generale! In verità dopo questa notizia siamo come ammattiti!».

Tutto resta, ogni parola è testimoniata. La Repubblica fu logorroica e grafomane, le sue carte imbottiscono gli archivi. Alla tribuna del Direttorio, celebrano Hoche e Travot: «Eccoci infine liberati del più crudele nemico della Repubblica!». In tutti i teatri di Parigi il governo fa annunciare l’evento come «une des ces victoires qui sauventles nations». Vittoria- ch’era costata alla Vandea la morte di trecentocinquantamila uomini, donne, bambini. Quattrocentomila, secondo altri.

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Vandea«Charette, mai sentito», mente il verduraio sulla piazzetta di Oudon. Seguiamo la strada statale lungo la Loira, a oriente di Nantes, tra il fiume e l’autostrada per Parigi. Guida mia moglie. «Tu pensa e scrivi, e lascia guidare la mamma», hanno ingiunto i figli, da sempre dubbiosi delle mie virtù al volante. Il verduraio torna alle sue ceste, una ragazza ridacchia nell’angolo. Giriamo attorno a una brutta torre, superiamo un rigagnolo chiamato Havre: davanti a una piccola ferme, due uomini e una donna parlano animatamente: «Charette? Certo signori, non è nato a Oudon, devono prendere quella strada, a La Mabonnière, a sinistra, fino a Couffé, là è na­to Charette… La casa c’è ancora. È jolie, ci vivono dei discenden­ti… No, la moglie è una Charet­te, il marito si chiama, si chia­ma…».

Sei mani ci salutano mentre ripartiamo. «Quelli sono dei no­stri», dice mia moglie. Figlia di Franz Pagliani, nata in mezzo alla guerra civile, i nostri e i loro li distingue d’istinto. E in realtà, perché questi agricoltori siano dei nostri e il verduraio dei loro, l’istinto lo scopre a volo, la logi­ca tarda. E poi il bello delle guer­re civili è che non finiscono mai, vedi qua. Dopo duecent’anni. Ha ragione Montherlant, che la Guerre civile la chiama al prosce­nio in apertura del dramma: «Io sono la guerra civile, sono la buona guerra…».

Due o tre miglia di quiete cam­pagne, una piega del terreno, il ponte, un ciuffo di querce, il campanile, Couffé. La ricerca è svelta, un furgone di fornaio esce dal cancello, entriamo. Ma­dame Guérard des Lauriers, na­ta Charette, cura le sue rose nel giardino. La casa di Charette? «È quella che vede, la piccola, il chàteau fu aggiunto nell’Ottocento». Continua ad accudire le sue rose, possiamo andare, guardare. La casa originaria, di nobili forme seicentesche, è minuscola, si chiama gentilhommière: in queste contrade l’architettura è scandita in gerarchie precise. Il palazzotto che le si appoggia sarebbe, più che chàteau, un manoir, frutto dei benefici della Restaurazione, quando il ricordo di Charette fu onorato, e Luigi XVIII, che non era sbarcato come lui sperava, gli fece dipingere un bel ritratto postumo. Gratitudine di re.

Madame des Lauriers ci raggiunge con un pacchetto di pieghevoli, fotografie, l’invito permanente alla Chabotterie per lei e il marito: «No, questi non glieli posso dare. Le dò una fotografia della casa, ma vada ai Lucs, troverà tante cose… Là, sì che hanno i mezzi». Un vecchio amico dei tempi dell’Algerie française e dell’Oas, amico mio e di Pierre Andreu, l’allievo di Sorel, che mi raggiunge a Noirmoutier, mi spiega questo «là, sì», dove geme l’invidia per la regione attigua. Nella geografia amministrativa ed elettorale, Nantes, Couffé sono fuori della Vandea, che comincia poco più in basso. In Vandea il sentimento controrivoluzionario, risvegliato dal 1989, ha trovato un politico, il visconte e deputato Philippe de Villiers, che gli ha aperto le chiavi della finanza pubblica…

«Non era mai accaduto. La Vandea era arrivata a vergognarsi del suo nome. Vendéon era un insulto, come, da voi, fascista. I giovani che andavano a Parigi per i concorsi delle carriere pubbliche erano sfavoriti. Nei casi migliori passavano per ottusi testardi, tetragoni al progresso. Fu una persecuzione che, aperta o strisciante, dura dal ritorno della Repubblica, più di cent’anni. Lei lo sa come vanno queste cose, prima si fucila, poi si epura, poi si diffama, poi si demonizza, e infine si scrive storia.

Qua, dura da tre volte tanto che da voi. È vero, la droite ebbe momenti di splendore, giornali potenti, l’Action Française, ma furono fenomeni letterari, Maurras si esaltava ai suoi articoli, produceva soltanto carta: di vera azione, nulla, mai nulla…».

«La sola destra che si risvegliò fu con Pétain, che tolse questo odioso nome, Répubblique, e lo cambiò in État français… Un bel taglio, certamente, purtroppo fatto nell’ombra dell’occupazione tedesca. E, due volte purtroppo, di una Germania che non capiva niente dell’enorme attesa, simpatia, volontà che c’era dietro la collaboration. Tutti hanno collaborato, naturalmente, erano convinti… Sa che cosa scrisse Pierre Drieu la Rochelle, prima di uccidersi? Mi condanneranno per intelligenza col nemico. Peccato, solo, che il nemico non fosse intelligente. Neanche Ernst Jünger, che faceva l’ambasciatore della Wehrmacht presso l’intelligenza francese, e recitava con grande convinzione la commedia dei buoni costumi d’antan… solo ricevimenti, discorsi, contava niente…».

«Ecco, con la nuova politica regionale, e grazie all’imprudenza con cui loro si sono buttati nel bicentenario, la Vandea torna in onore. I ragazzi non si vergognano più di essere vandeani… Qui funziona ancora il telegrafo di duecento anni fa, basta far circolare l’ordine. Il 18 giugno hanno commemorato, come tutti gli anni, l’Appel di De Gaulle, l’incitamento alla ribellione che diffuse da Radio Londra. Nessuno c’è andato, nei paesi, solo i soldati, la polizia municipale, qui a Noirmoutier ci scappò una rissa…».

Gli domando come mai nulla si veda qua, e come mai la croce di Nantes sia in quelle condizioni. «Ma perché è fuori della Vandea, là hanno ancora paura, il risveglio, là, è più lento, il paradosso è che Charette, le Roi de Vendée come lo chiamarono tra esaltazione e dileggio, venne al mondo e ne partì fuori del suo regno».

I tre anni del Roi de Vendée, tre proprio precisi, descrivono una vicenda umana straordinaria. Sia per la singolarità degli eventi che fecero di Charette un capo di eserciti, sia per la trasformazione della sua personalità. Tutto comincia il 14 marzo 1793, quando un’orda di contadini in rivolta, armati di falci, di forche, di mazze ferrate, occupa il borgo di Garna che, nel Pays de Retz, tra la Bretagne mantaise e il Bas-Poitou, ai confini della Vandea vera e propria; massacra e disperde la guarnigione repubblicana e dilaga nel paese. Cercano i soldati blu per ucciderli (si diceva i blu dalle uniformi; oggi, diremmo i rossi), e un capo che li comandi.

«Nessun altro popolo della Francia si era mostrato, fino allora, più docile, più sottomesso alle leggi, più attaccato alla sua terra, generalmente ingrata. La natura e la scarsità di comunicazioni lo isolavano dal resto del Regno. Povero, contento di poco, sopportava allegramente la sua miseria», scrive Lenotre, sbugiardando gli storici di mestiere che, ricopiandosi l’un l’altro, continuano a dire che furono i preti e i nobili a istigare i Vandeani alla ribellione; naturalmente (altre ragioni non dimorano in quei cranii) per salvare pri­vilegi e prebende.

All’assassinio del Re la Vandea fremette, ma non si mosse. Fu col baccanale organizzato dai caporioni repubblicani nella cittadina di Machecoul per festeggiare la morte del Re, che si sparse una voce nelle campagne: al district fabbricavano manette in gran quantità per legare a due a due quei contadini refrattari al nuovo e al bene, e trascinarli nelle caserme. Per completare la sua azione criminale, la Convenzione regicida aveva ordinato una levée di 300mila soldati.

All’idea che i loro figli dovessero offrire le loro forze a questa rivoluzione, i Vandeani si ribellarono. Loro unità sociale fondamentale era la parrocchia. Senza intese, senza parole d’ordine. Seicento parrocchie insorsero in un solo giorno. Ma il capo, dove trovare un capo? Conquistati Machecoul e i paesi intorno, che cosa fare? Per dare un ordine a quel tumulto si formò nella cittadina un «Comité de pacification», presieduto da un avvocato intelligente, René-François Souchu. Senza farsi illusioni, ispirò tuttavia una dichiarazione solenne: «In faccia al cielo e alla terra, il Popolo del Pays de Retz, adunato nella città di Machecoul, non riconosce, né mai riconoscerà, per suo sovrano, altri che il Re di Francia».

Ma, intanto, dove trovare un capo? I contadini di Chauvé, un villaggio a mezza strada tra Machecoul e la costa di Pornic, davanti a Noirmoutier, tirarono fuori dalla sua gentilhommière un signor Danguy, già capitano e cavaliere di San Luigi più che sessantenne e quasi cieco. Invano cercò di convincerli che si teneva in piedi a fatica, lo issarono su un cavallo e lo spinsero avanti a loro, che li comandasse, sordi alle sue preghiere di lasciarlo tornare a casa al tramonto. Non ci tornò. Costretto a combattere, combatté, come seppe e potè, fin che lo presero e ghigliottinarono, a Nantes, «chef de bande».

Un marchese de la Roche-Saint-André fu visto cavalcare in veste da camera per mostrare ch’era costretto a marciare dai contadini che l’avevano sequestrato nel suo castello. Nessuno si faceva illusioni. Queste sorsero e salirono alte per merito delle vittorie di Charette e degli altri capi, e presto precipitarono per la doppiezza inglese e la viltà dei Borboni.

Souchu cercò disperatamente di ottenere alla sua gente il perdono della Repubblica, facendo appello ai suoi stessi principi: «Quand le gouvernement viole les droits du peuple...». La risposta della Convenzione fu che ognuno degl’insorti sarebbe stato punito con la morte.

La Vendée militaire era nata, la rivolta diventava controrivoluzione, ma ancora non aveva un capo.

Fu Souchu che indicò ai rivoltosi un certo Cavalier François Athanase Charette de la Contile, che nel 1790 si era dimesso da tenente di vascello della Marina, e aveva sposato una vedova quattordici anni più vecchia di lui. Ora faceva il signore di campagna in una tenuta a Fonteclose, due leghe da Machecoul. La tradizione locale vuole che i Charette discendessero da una famiglia Carretto, o del Carretto, italiana, immigrata nel Medioevo. La stessa tradizione racconta che quando i contadini bussarono alla porta della dimora, più fattoria che castello, pur di non prendere il comando di una ribellione che credeva senza speranze, il Cavaliere si nascose sotto il letto. Lo tirarono fuori.

Era stato con gli emigrati a Coblenza, aveva misurato la loro vanitosa, vociferante inconcludenza. Tornò a Parigi, di nascosto, e fu coi «pochi fedeli all’antica divisa» e gl’indomiti svizzeri, alla difesa delle Tuileries dall’attacco della teppa, il 10 agosto 1792. Qui perse la fede nel suo Re. Se a Luigi XVI non fosse mancato il coraggio; se fosse montato a cavallo, alla testa delle truppe fedeli, la plebaglia sarebbe stata sterminata. Charette apprese dal vivo quel che i mestieranti della Storia non riescono a capire. Che il tempo non ha direzioni fissate in anticipo e le fatalità storiciste son fabbricate da un determinismo retrospettivo.

La più gran parte delle rivoluzioni vincono soltanto perché, al momento di fucilare un centinaio di abati e avvocati, la mano trema. Charette vide tremare la mano del suo Re, prima ancora che gli tagliassero la testa, seppe che la Monarchia era ormai una fede senza speranza. E tuttavia, si arrese. Va bene, disse. Se proprio mi volete, verrò. Ma pretendo obbedienza assoluta, altrimenti vi punirò severamente. Gliela diedero.

E qui comincia la metamorfosi di un elegantone, dedito ai piaceri di Venere, e decisamente snob, che aveva sposato la donna anziana sol per scommessa elegante. Le aveva chiesto la mano di sua figlia, diciannove anni. Ma quando la madre rispose: ci sono prima io, che sono vedova, la sposò. Per eleganza, controvoglia, come ora accettava di mettersi nella guerriglia, e diventò in pochi mesi un tattico consumatissimo, maestro della logistica e della sorpresa, capace di vibrare un colpo con una piccola banda qua e, pochi giorni dopo, adunare migliaia di guerrieri a molte leghe di distanza.

Non e propriamente la guerra partigiana che si è detta. È guerra in campo aperto, con assalti alle città condotti in una serie di mobilitazioni fulminee, migliaia di contadini lasciavano le loro casupole e si adunavano dove il telegrafo dei boschi e delle paludi li convocava. Poi tornavano a scomparire.

«Bisogna insistere su questo punto», scrive Lenotre: «Un capo vandeano non sapeva mai in anticipo su quanti uomini poteva contare; finita una spedizione, i contadini rientravano ai villaggi, per ritornare al quartier generale quando il tocsin (le campane a martello) li avvertiva che c’era bisogno di loro. Chi voleva restava a casa, ma di solito ubbidivano con zelo, e ciascuno si portava pane per tre o quattro giorni.

Il 10 agosto Charette passò in rivista a Legé, la sua capitale provvisoria, da 3 a 4.000 uomini venuti d’ogni parte del Marais e del Pays de Retz. La sua truppa cresceva per via, perché i «capricciosi volontari, per risparmiarsi le lunghe marce fino al quartier generale, aspettavano il grosso dell’armata agl’incroci delle strade nei boschi. Se, nell’attesa, passavano i blu, li massacravano e facevan man bassa di grano, cibarie, dei fucili che non avevano, della polvere, che fu la loro tortura. All’assalto di Nantes, in giugno, andarono in diecimila. Fu la prima grande sconfitta di Charette, la città maligna resistè all’assalto, Cathelineau morì.

Per quel tipo di guerra, «Vandea e Bretagna paiono fatte a posta. Il suolo disuguale offre infiniti rifugi; le strade, sepolte tra ciglioni assiepati, diventano fosse, trincee le muriccie che contornano i campi e celano l’agguato: un labirinto di cammini trasversali e sentieri fuorvia le truppe, qua boschi, là paludi e canali, occulti nella macchia; altrove immense lande coperte di ginestre alte quanto un uomo.

La loro disfatta non vantaggia di nulla il nemico, perché non hanno che bastoni, di rado un fucile; mentre ogni vittoria fornisce gl’insorgenti di munizioni e armi. Rotti in più punti sguizzano e si raggomitolano alle bande dei Bretoni, detti Sciuani, dal nome del taglialegna Jean Cottereau, detto Chuan». Si fatica oggi a riconoscere in questo territorio il labirinto che fu, di paludi e foreste. L’agricoltura ottocentesca lo stravolse con le bonifiche e i tagli dei boschi. Allo stesso modo stenti a riconoscere, tra Ferrara e Bologna, la selva ariostesca che Guerrino e Domenichino dipinsero, e i briganti signoreggiarono per secoli.

Sorsero, tra quelle foreste, capi coraggiosi, il guardacaccia Stofflet, il carrettiere Cathelineau, i nobili ufficiali del Re, i d’Elbée, Lescure, Bonchamp: i giovani La Rochejaquelein. Su tutti, Charette subito emerse, anche se nessuna autorità, e men che mai i fratelli di Luigi XVI, per cui quella gente combatteva e moriva, si preoccupò di stabilire ferme gerarchie e così dare un ordine alla massa, che poteva sbandarsi, e lasciarsi trascinare fuori della sua terra, dove le «colonne infernali» del boia Turreau ne fecero strage, come a Le Mans, a Savenav, a Cholet.

La più impressionante delle metamorfosi fu quella che si operò in Charette. Non lasciò il suo gineceo di giovani e men giovani nobili castellane, spose di emigrati, fresche vedove di ghigliottinati e fucilati, ragazze del popolo, contadinelle, fornaie. Le trasformò in un’orda di amazzoni fanatiche, che cavalcavano accanto a lui negli assalti, lo seguivano correndo a piedi. Non sdegnò l’eleganza, la adattò al suo vestire militare, sempre fantasioso, vistoso, ignaro della mimetizzazione, i pennacchi bianchi sul cappello che parevan fatti per attirare la fucileria re­pubblicana.

I generali blu smisero presto di ridere di questo predecessore di Mao, di Giap, nella strategia della mobilità integrale. «Non è cosa facile trovare Charette», spiegava Haxo alla Convenzione: «Oggi è alla testa di diecimila uomini e domani vaga con una ventina di soldati. Lo credete davanti a voi, e invece è alle spalle delle vostre colonne. Ora minaccia quel posto, e presto è a dieci leghe di distanza, abile a eludere un combattimento, sorprende le pattuglie e le massacra, cattura gli esploratori, fa manbassa dei convogli…».

E un mese più tardi, il più feroce dei generali repubblicani cade ucciso ai Couzeaux. Eppure non tutti i realisti lo accettano per capo. Si scavano solchi d’invidie, gelosie. Marigny rompe le intese tattiche, altri lo condannano a morte, perfino il prode Stofflet rifiuta di collaborare. I Borboni lodano da lontano, mandano sciarpe e spade onorarie, lettere e diplomi. E non vengono.

Un giorno, più di ventanni dopo, a Sant’Elena, la conversazione si fermò su questa metamorfosi. Las Cases raccontò a Napoleone di aver conosciuto bene Charette nell’adolescenza: «Eravamo stati entrambi guardiamarina a Brest, abitavamo la stessa camera, mangiavamo alla stessa mensa. Le sue gesta di poi, la folgorante carriera, stupirono tutti noi, suoi amici, che l’avevamo giudicato di mediocre ingegno, con poca istruzione, facile all’ira, e soprattutto insolente; presagimmo che non sarebbe mai uscito dal gregge…».

Ma poi ricordò un suo soprassalto di coraggio ed energia; una volta che, nel naufragio di un «cutter» disalberato, arrivò a uccidere un marinaio per costringere gli altri a seguire i suoi ordini, salvando la nave.

La prudentia hominum accumulata nel comando suggerì all’Imperatore una di quelle spiegazioni che mai folgorano gli scribi, di cattedra o di partito: «Eccola, la scintilla che rivela il futuro eroe della Vandea. Non bisogna credere alle apparenze; un vero carattere sboccia all’improvviso, all’occasione giusta. Vi sono spiriti che, apatici e dormiglioni, quando si destano sono terribili… Ricordò che il governo della Repubblica lo aveva richiamato dall’armata delle Alpi per mandarlo a quella della Vandea, ma si sarebbe dimesso, piuttosto che assumere un comando con cui poteva soltanto aggravare i mali, senza speranza di alcun personale vantaggio. Aggiunse che, appena Console, suo primo pensiero fu pacificare quell’infelice paese, cercando di fargli dimenticare le passate sventure e sanare le sue piaghe…».

Era un capo, infatti, non un macellaio. Sono queste le verità che i contemporanei conoscono, e gli storici come Michelet, e i politici faziosi, nascondono. Mentre il centenario del 1889 corrispose all’incontrastata vittoria della Repubblica, appena minacciata dall’agitazione boulangista, il secondo centenario si è messo a scavare, ha cercato i dissensi, le crepe, talmente larghe, ormai, che è bastato infilarci dentro le mani, per far cadere polverone e calcinacci dall’intonaco ideologico corroso. Nessuno osa più intimare di «accettare la Rivoluzione in blocco» come voleva Clemenceau, alfiere della storiografia radicale massonica e marxista, oltre che primo artefice del mezzo secolo di guerre civili che costarono all’Europa la distruzione.

Nessuno più scusa il Terrore come un inevitabile eccesso, nessuno tenta di giustificare la barbarie scatenata sugl’insorti dell’Ovest. «Gli anni Settanta segnarono la rottura nella storiografia rivoluzionaria. Penser la Révolution di François Furet riabilitava le analisi, dimenticate o proscritte, dei Tocqueville, Taine, Augustin Cochin. Furet aveva dapprima flirtato con il comunismo e l’esperienza glielo rese nemico. La riflessione tornava al Terrore nel momento in cui l’intelligenza di sinistra, a lungo accecata dai miraggi che si conoscono, scopriva, tutti insieme, i Gulag, l’inferno cambogiano, e i “boat people”, i disperati che fuggivano dal Vietnam liberato», scrive Philippe Conrad.

Al duecentesimo compleanno, la «rivoluzione diabolica» riceveva in dono i suoi ultimi frutti. La Vandea tornava a dorare il blasone annerito, di eroi risplendevano di una gloria negata, eppure intatta.”

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vandeaFino a mezzo Settecento, Noirmoutier fu un’isola senza riserve e senza sospetti. Posta in quell’ascella della costa atlantica dove la Vandea diventa Bretagna, poco popolata, il nome rievocava il ricordo di un convento di monaci neri; una piccola linda città, un piccolo porto. Fu verso il 1770 che una striscia di terra larga pochi metri, ma continua, cominciò a sollevarsi sotto le acque che la separano dalle spiagge di Beauvoir. L’episodio di bradisismo si è accentuato e oggi, a tener d’occhio le maree, si può andare e tornare con la propria automobile percorrendo il guado, chiamato Goìs. Come capita a noi che, senza saper nulla delle tabelle orarie del mare, attraversiamo la laguna madida e puzzolente, dove i turisti scaricati dai torpedoni zampettano alla ricerca di ostriche e altri molluschi.

L’estate 1793, seguita all’insurrezione del marzo, la «grande armata cattolica» degl’insorti di Vandea, da 25mila a 30mila uomini, di cui 5 o 6mila armati di fucile, conquista in due mesi la riva sinistra della Loira, da Nantes ad Ansers, issa la bandiera bianca coi gigli d’oro sul castello di Saumur; i generali discutono se invadere la Bretagna, la Normandia, oppure osare la marcia su Parigi. Charette non è chiamato a consulto, «l’homme de toilette et de plaisirs» non piace a Stoffiet, il duro e incolto caporale alsaziano, e poco anche a d’Élbée, l’ufficiale dell’armata reale, devoto fino al misticismo.

Signore di un vasto territorio, alloggia in una casetta di Legé, la sua capitale. Sull’arco di pietra una piccola lapide scolpita invoca «Deus spes nostra», con la data, 1663. Congedati i contadini, attorniato da un presidio di duecento uomini e dai suoi ufficiali, Charette si concede una vacanza di suo gusto. L’ultima bella estate, alla corte di Vandea, si balla ogni sera all’aperto, nella piazza della chiesa, nei prati. Il generale apre le danze con le favorite della società guerrigliera, la bruna Madame de la Rochefoucauld, la bionda Madame de Bulkeley; le ragazze del paese danzano coi soldati.

Quell’estate il «Conseil supérieur de l’armée royale» decreta a Charette il comando sul territorio tra la strada di Nantes e Luon, la cittadina di cui Richelieu era stato vescovo, sopra La Rochelle. Non gli regalano se non quello che si è già preso. Non erano mutate le gelosie e le diffidenze che cagioneranno il disastro dell’armata realista. Mentre in questo campo continuano i dissensi e le gelosie, senza che i Prìncipi emigrati si preoccupino di dirimerli, a Parigi il comité de Salut public si trova sottomano, disoccupati, i difensori di Magonza, che la fame aveva costretto a capitolare. Per non prendersi l’incomodo carico di ventimila prigionieri, i generali prussiani e austriaci li rimandano a casa, dopo averli impegnati, sulla parola d’onore, a non combattere per un anno sulle frontiere. In quella guerra salottiera, ancora barocca (Monsieurs les Anglais, tirez les premiers), poco importa ai signori austriaci e prussiani che cosa i macellai di Parigi faranno di ventimila soldati terribili, ansiosi di vendicare lo smacco.

Mentre i reduci di Magonza, riorganizzati sotto generali intrepidi, quali i Kléber, Beaupuy, Vimeux, partivano per la Vandea, “il loro comandante supremo marciava verso il patibolo. Era il maresciallo Adam-Philippe de Custine-Sarreck, nonno di quell’Astolphe de Custine di cui ho pubblicato poco fa un’antologia dalle Lettere russe. Veterano della guerra d’Indipendenza americana e comandante di una divisione dell’Armata del Reno, Custine nella seconda metà del 1792 aveva scompaginato con un colpo d’audacia la coalizione austroprussiana conquistando Spira, Worms e Francoforte. Mentre a Parigi tremavano di veder comparire «les allemands», il maresciallo portava la guerra nel territorio nemico cogliendo una popolarità improvvisa, simile a quella che sarebbe toccata a Bonaparte.

Ma le conquiste ottenute con spregiudicata imprudenza tattica furono altrettanto velocemente perdute, le audaci irruzioni esposero l’armata all’accerchiamento. Eppure, la primavera del 1793, mentre il suo Re saliva al cielo, il maresciallo saliva di grado e diveniva comandante dell’Armata del Reno.

Le prime sconfitte scagliarono i sospetti, e poi il boia, sugli ufficiali «nobili, soprattutto d’artiglieria e del genio» che, scrive Ippolito Taine, «erano rimasti al loro posto, o per principi liberali, o per attaccamento al dovere, all’ombra incessante della ghigliottina che veniva a prelevarli alle soglie dei carnai di battaglia e perfino negli uffici di Carnot».

Il maresciallo fu una delle ultime vittime delle denunce di Marat, che fece in tempo a veder cadere sotto le pugnalate di Carlotta Corday, prima di lasciare l’altera testa nel cesto del boia, dopo un processo d’inusitata lunghezza, di ben tredici giorni. «Custine apparve davanti al tribunale scortato dai ricordi dei suoi trionfi, e sostenuto dalla presenza di sua nuora», la madre di Astolphe, di cui Lamartine, nella Histoire des Girondins, cesellò il ritratto: «La sua bellezza, la sua grazia, l’intelligenza, la seduzione e le lagrime intenerirono gli spiriti più severi». La giovane donna aveva sposato il figlio unico di Custine, anch’egli già in prigione. Lasciava la cella del marito soltanto per consolare il suocero nella sua, e accompagnarlo al tribunale… Aveva assediato di suppliche i giurati, i membri dei Comitati.

Quando il suocero fu condannato, la portarono via svenuta. «Le lagrime del vecchio generale che scendevano sui baffi grigi, la sua devozione commossa, l’abbraccio del confessore, la seducente nuora» descrisse l’approssimativo Michelet. Non proprio tanto vecchio, il maresciallo salì il patibolo a cinquantatré anni, seguito sei mesi dopo dal figlio Armand, marito di Delphine e padre di Astolphe, condannato col pretesto d’una missione presso il comandante prussiano, duca di Brunswick, di cui aveva fatto per conto della Convenzione.

Tali i costumi militari. E tale il clima in cui gli affrancati di Magonza arrivarono a Nantes, passarono la Loira e avanzarono sul Pays de Retz. I presidii repubblicani ripresero fiato, Pornic, Machecoul, Vertu, Aizenay tornarono ai «blu».

Ogni giorno il cerchio si stringeva e a Legé, fuggendo davanti agl’incendiari, come furon battezzati i soldati di Kléber, si rifugiavano castellani, borghesi e contadini. I blu avanzavano su tutte le strade in un crepitare di agguati e massacri. Il 19 settembre, che la Vandea celebra come giorno di grande vittoria, le forze di Charette, d’Elbée, Bonchamp, Lescure e Stoffiet fecero a pezzi i maguntini in una battaglia feroce, cui si mescolarono le donne.

Una Penine Loiseau abbatte a sciabolate tre repubblicani, fino a che, alla sua volta, perde la testa. I maguntini ripiegano sotto la frenesia dell’assalto di Charette che, sciabola nel pugno, coperto di polvere, gli abiti trapassati da cinque palle, esorta i seguaci con appelli incessanti. L’amante di un alto ufficiale blu, «femme superbe», che segue la battaglia seduta in carrozza, si uccide con un colpo di pistola sul punto di essere catturata. Il pianoro è coperto di morti e bottino, «un bagage immense»; ventitré cannoni, 19 casse, una piena di banconote, sei carri e otto ambulanze sono stipati di oggetti preziosi rubati alle chiese, ai castelli, alle dimore. «Niente prigionieri», ha comandato Charette, e i suoi, che hanno imparato dai nemici, sterminano i repubblicani fino all’ultimo. Il loro generale, Beyssier, espierà la sconfitta sulla ghigliottina, come Custine.

Fu forse l’eco di questa vittoria, forse l’istinto che spingeva le donne a invocare, tra gl’insorti, proprio lui, che guidò un’invocazione da Noirmoutier. Ne fu strumento una di quelle piccole grandi figure che la storia dimentica. Si chiamava Marie Lourdais, trentadue anni, bretone, proprietaria di una drogheria di villaggio. Da quando scoppiò l’insurrezione, Marie si trasformò in messaggera dei capi vandeani, camminò senza sosta fin che durò la guerra, attraverso le paludi presso la costa, le oscure foreste dell’interno, i grovigli impenetrabili del Haut Bocage.

Tenne Souvenirs, di cui resta l’originale, un documento eccezionale della storia militare. Fu Marie Lourdais che, verso l’8 ottobre 1793, portò a Charette la lettera di una signora, Mourain de l’Herbaudière, vedova del sindaco monarchico eletto dagl’insorti il 16 marzo. Il 29 aprile, i blu di Beyssier ripresero l’isola e uccisero il sindaco coi realisti suoi seguaci. Per vendicarlo, la vedova chiamò Charette che, coi suoi luogotenenti, Pageot, Desnaurois, i tre fratelli de la Robrie, e il curato «refrattario» Remaud, divenuto suo «intendente», decise di tentare. In tre giorni raccoglie 2.000 uomini, il 28 settembre, attraverso Machecoul, la piccola armata giunge presso Bouin, sul mare, all’imbocco del Gois. Con la marea più bassa, il guado appare oggi più di mezzo metro sopra la superficie dell’acqua, allora restava un piede sotto, solchi e forre erano nascosti; la traversata, facile per un esperto, diventava un’impresa a dover traghettare duemila armati nei quaranta minuti prima che l’acqua ritornasse.

La signora de l’Herbaudière aveva assicurato che gli artiglieri repubblicani non avrebbero tirato, e che molti erano disposti a collaborare, ma l’impresa risultò più complessa, e dovette essere ripetuta pochi giorni più tardi. Quando gli uomini ai Charette, tremila stavolta, l’11 ottobre passarono il Gois e dilagarono nelle praterie della lunghissima isola, la guarnigione si disperse e fuggì. Quelle orde tumultuose di contadini che cantavano e urlavano, le vesti lorde di fango, gli aspetti di banditi, le barbe, le falci, i forconi, la nomea di assaltatori invincibili, istigarono i difensori, asserragliati nello stupendo castello, a capitolare.

Wieland, il comandante repubblicano, offre la sua spada a Cnarette, che la tocca e gliela restituisce, invitandolo a passare al servizio di Luigi XVII. L’altro rifiuta, ma la cortesia militare che dimostra gli costerà la testa. Charette detta la capitolazione; l’isola appartiene al Re come l’artiglieria del castello, le navi nel porto, il comandante e i suoi soldati sono «prigionieri di guerra», e il vincitore si compiace di vederli sfilare dal balcone di una leggiadra casa che, dal nome di un sindaco della Restaurazione, si chiama oggi hotel Jacobsen. Deposte le armi, i vinti si lasciano disciplinatamente rinchiudere nel castello, divenuto prigione.

A sera, nell’elegante quartier generale, fu gran festa, con tutto il bel mondo a invitati. Charette, a tavola coi suoi ufficiali e i notabili, chiese che gli presentassero le mogli e le figlie dei repubblicani che se l’erano svignata. Le esortò a unirsi alla sua causa, che rappresentava «la vera Francia»; i principi stavano per raggiungerlo, ora che la via del mare era aperta. E intanto, aprì le danze. E tuttavia, non si sentiva sicuro. Si accorgeva che incuteva soltanto paura, la ferocia della guerra lo trasformava, il suo luogotenente Pageot mise a morte duecento sospetti. L’isola, che Madame de l’Herbaudière gli aveva assicurato minutissima e piena di seguaci, gli parve una trappola: «Temo che mi abbiate messo nei guai, le risorse che avevo sperato non ci sono, la massa della popolazione non è con noi». Riunì un presidio di 1.500 uomini, lo affidò all’amico Alexandre Pineau, di Legé, a un ufficiale di marina e altri tra i quali il più giovane dei Robrie, e il 15 ottobre ripartì per Legé.

Là fu informato, il 23 ottobre, della catastrofe toccata alla «grande armée» realista dell’Angiò, a Cholet. Spinta sulle rive della Loira, l’aveva passata portandosi appresso, fatale codazzo degl’insorti, 50mila donne, vecchi e bambini, che, affranti di paura e di stenti, trascinavano in miserabili carrette ciò che avevano salvato. Dei tre capi, Bonchamp era caduto, Lescure agonizzava e d’Elbée, il generalissimo, in fin di vita con quattordici ferite, si era rifugiato nel castello di un amico con la moglie e il cognato, in attesa di andare a chiedergli asilo.

Nonostante i continui dissensi, Charette non negò a d’Elbée lo scudo della sua piccola armata. Ricevette con deferenza il ferito, che gli fu portato su una poltrona trasformata, con due bastoni, in portantina. Gli offrì l’ultima sua conquista, Noirmoutier, che i d’Elbée accettarono con gratitudine. Lo portarono nel Gois più di mille angioini, che dopo pochi giorni tornarono ai loro paesi. Noirmoutier era divenuto asilo di famiglie scacciate, di perseguitati, dispersi, preti refrattari, malati. S’illudevano d’aver scampato la bufera. Il 21 ottobre, il Comite di Parigi impartì ai generali l’ordine perentorio di «prendere l’isola, o sprofondarla nel mare».