Guernica, cinquantanni di menzogne

Guernica

Guernica dopo il “bombardamento”

Il Giornale 9 aprile 1995

I crimini dei vincitori: un falso storico sulla guerra di Spagna, sintesi di un massacro inventato e di una perversione estetica

 La verità sulla città basca che nel 1937 non fu distrutta dai nazionalisti ma dai «rossi» in fuga

 Piero Buscaroli

Il dottor Giorgio Bronzini, primario della Divisione di Ortopedia e Traumatologia dell’Ospedale di Macerata, invia una lunga lettera, la cui seconda parte mi costringe a riprendere i risultati di una ricerca compiuta più di vent’anni fa: «C’è un altro fatto che mi sta sullo stomaco», scrive Bronzini «È la distruzione di Guernica. Ho letto, non ricordo più dove, che si trattò di un falso storico, e dal chiasso che si è scatenato per attribuirlo ai tedeschi mi sono persuaso che si trattasse proprio di un falso. Lei è sicuramente molto impegnato, ma vorrei avere proprio da Lei la conferma su questo celebre caso spagnolo…».

Accetto, perché anche la menzogna è un crimine. E tra le menzogne dei vincitori, la menzogna capitale, la regina delle menzogne fu proprio Guernica. Nella galleria di falsi sul «terrore fascista», Guernica occupa ancora il salone centrale che le fu assicurato dalla doppia faccia di «storia vera» e di «grande opera d’arte». Per lunghi anni, una saletta del Metropolitan Museum di New York fu interamente dedicata al preteso capolavoro di Picasso. In religioso silenzio, folle innumerevoli strisciarono i piedi, in un grottesco rito di esorcismo politico, anatema storico e protesta artistica, davanti a un cavallo pazzo che nitrisce contro una lampadina tra repugnanti pupazzi che smanacciano e scalciano.

Nessun prodotto dell’arte contemporanea ebbe lo smercio insolente, la divinizzazione pubblicitaria dell’osceno cartellone che Picasso aveva dipinto a Parigi, su commissione dell’ancor non scomparsa Repubblica spagnola che, mentre prendeva botte da orbi sui campi di battaglia, si vendicava con la propaganda. Non senza astuta presidenza. Guernica le offrì una esecrabile postuma vittoria di menzogne, grazie a una combinazione di fattori pubblicitari difficilmente ripetibile.

Sintesi di un massacro inventato e di una perversione estetica, nacque una coriacea e durevole truffa in cui l’inventiva comunista fu moltiplicata dalla commercializzazione americana. La sintesi cominciò a disgregarsi quando il secondo fattore si raffreddò, e il mondo raggirato finì con l’apprendere, dalle ricerche di un conservatore americano, che Guernica è «un non-avvenimento che ha fatto storia nella realtà emotiva». Il primo, in ordine d’importanza e durata, dei tanti non-avvenimenti, falsificati esagerati e distorti, su cui si fonda la conoscenza «storica» delle moltitudini.

La città basca infatti non fu mai distrutta dalla Legione Condor tedesca; né dall’aviazione legionaria italiana, né dall’aviazione nazionale spagnola. Non fu mai colpita dall’aria, se non in qualche occasionale e periferica incursione. Fu distrutta dai «rossi» in fuga, con una combinazione di petrolio e dinamite che bruciò tutte le case in un vastissimo incendio, ma non lasciò le tipiche tracce del bombardamento aereo, i crateri, e i fori delle schegge

La verità era conosciuta agli specialisti militari attraverso i documentati dinieghi delle tre forze aeree che formavano l’Aviazione legionaria. Fu subito divulgata dai dispacci dell’agenzia francese Havas e dal corrispondente di Time, Douglas Jerrold, che riferirono sulla vera sorte toccata alla città. E tuttavia, la verità da essi diffusa non riuscì a prevalere, perché sprovvista di carica emozionale e di fascino ideologico sulla verità confezionata dai comunisti e impo­sta al mondo dalla petulanza moralistica del radicalismo americano.

Non per nulla nata nella capitale mondiale della sovversione, la leggenda trovò il suo tempio nella saletta del Metropolitan, al centro di New York, la pattumiera mondiale del radicalismo isterico.

Da Parigi partì anche la nuova menzogna che persuase un altro americano, trentacinque anni più tardi, a impugnare il piccone che avrebbe messo a nudo l’intera perversa storia. Alla fine del 1972, «Le Monde», sotto il titolo Guernica, Guernica, Guernica, prese a inveire contro i bombardamenti di Natale su Hanoi, e Maurice Duverger lanciò contro . Nixon il folgorante anatema del «fascisme extérieur»: gli Stati Uniti applicano i principi della dichiarazione d’indipendenza all’interno, ma impiegano, all’estero, ricette «fasciste».

«Quando il Primo Ministro di Svezia elenca Guernica con Oradour, Treblinka e Lidice a proposito dei bombardamenti di Hanoi, non esagera», sentenziava Duverger, e poi, rincarando: «La distruzione sistematica della capitale del Vietnam è più grave del massacro di Guernica, perché gli oppressi delle dittature fasciste non potevano protestare, mentre la protesta agli americani non è proibita»; e tanto fecero che riuscirono a procurarsi una bella sconfitta, tutta fatta in casa.

In una piccola università del New England, una di quelle meno gravemente spazzate dall’ indignano masochista, un professor Jeffrey Hart del Dortmouth College, si chiese che cosa i delitti denunciati dalla stampa radicale — la «guerra batteriologica» (Corea, 1951) e ora, i «bombardamenti sulle dighe» e la «distruzione sistematica» avessero in comune con «il massacro di Guernica da parte degli aerei nazisti nel 1937», e scoprì che il comune denominatore era uno solo; non erano mai avvenuti, eppure costituivano formidabili armi propagandistiche a favore dei comunisti.

C’è, in tutto ciò, una costante pericolosa, e tuttora operante. I dati da cui Hart attinse la verità erano da tempo accessibili nel libro Spagna, gli anni decisivi, dello scrittore militare Luis Bolin, pubblicato cinque anni avanti; e tuttavia, rimasero senza effetti, fin che un americano non trovò utile divulgarli. Ma l’avvenuta divulgazione rimase senza effetti sull’opinione mondiale, perché la «National Review» aveva etichetta conservatrice e non progressista.

GuernicaIl solo spiraglio di notorietà che arridesse alla rettifica di Hart l’aprì la «Washington Post», potente quotidiano radicale che, lasciando per un attimo che l’interesse giornalistico prevalesse sul pregiudizio ideologico, dedicò un’intera pagina alle ricerche del professor Hart Bolin aveva distrutto la favola della «distruzione fascista» servendosi dei documenti operativi delle Forze Armate nazionali: così poco sensazionali, così immuni da scopi propagandistici che nessuno pensò utile rintracciarli.

Guernica «passò alla storia» nella versione «definitiva» della Guerra civile di Spagna di Hugh Thomas, in un contrasto da bella addormentata nel bosco, di quelli che piacciono ai lettori di palato grosso: la cittadina pacifica e ignara sotto la tempesta scatenata dai malvagi, in uno di quei rozzi contrasti di cui si nutre il sensazionalismo populista, ammantato di moralismo e impiastricciato di scorie culturali.

Da simili fonti nacque il racconto con cui Thomas fece fremere le anime belle del mondo intero: «Guernica, piccola città situata in una valle… Il 26 aprile 1937 era giorno di mercato, e proprio mentre i villici ammonticchiavano le loro mercanzie, le campane delle chiese suonarono a distesa… I bombardieri germanici volarono a ondate sulla cittadina, cancellandola… Volevano compiere un esperimento terroristico, provare l’effetto del terrore di un bombardamento sopra una popolazione. La moderna era del terrorismo dall’alto nacque in quel giorno…».

Un colpo da maestro, il modello sublime del falso, con quell’andamento calmo e presago, quel preludio alla strage che s’addensa implacabile, e precede le condanne «della storia», ovviamente, e senza appello. Né m’illudo che questo mio contributo alla revisione cancelli il falso. Questo giornale non è progressista, né comunista, ho poca speranza d’esser preso sul serio.

Le raccapriccianti descrizioni scatenarono tumulti di accuse a Parigi, dove imperversava il governo del «Front populaire» di Léon Blum. Da Berlino, il generale von Blomberg lanciò urgenti richieste di chiarimento al generale Sperrle della Luftwaffe, comandante la Legione Condor, che rispose secco: «Noi tedeschi non ne sappiamo nulla».

Durante la Seconda guerra mondiale la polemica fu annegata in più vasti frastuoni. Solo con la totale sconfitta degli accusati, ridotti in condizioni di non poter rispondere, il mito di Guernica s’innalzò tra le stelle fisse delle verità eterne. Tuttavia, l’energia con cui gli alti gradi della Luftwaffe respinsero quell’accusa negl’interrogatori degli innumerevoli processi (nessuno sa ancora come sterminata fosse la periferia di Norimberga) rese perplessi gl’inquisitori americani, alcuni dei quali inclinarono a credere che l’efferata distruzione dall’aria, di cui nessuno osò dubitare, fosse stata opera degli aviatori italiani.

E invece, la radice del falso stava proprio in quelle fondamenta, che nessuno aveva scavato. Tanto per cominciare, Guernica non era la pacifica e indifesa cittadina degli storici di Biancaneve che, neanche a farlo apposta, è un astro permanente della mitologia americana. Luis Bolin ha tolto al mito le sue poco pulite mutande, precisando ch’era un caposaldo della «piccola Maginot», la «cintura di ferro» che un avventuriero francese aveva costruito intorno a Bilbao, dietro a cui i baschi meditavano di asserragliarsi per rivendicare dalla Spagna l’indipendenza, finita che fosse la guerra civile.

Subì taluni bombardamenti su depositi militari, opere difensive e acquartieramenti di truppe in periferia. Bombardamenti limitati, che tuttavia erano avvenuti, e giustificano incertezze, ammissioni e riserve che si sono trovati nelle testimonianze di piloti tedeschi, italiani e falangisti spagnoli. Nessuno potè escludere che bombe «nazionali» fossero cadute sulla cittadina. Ognuna delle tre forze armate escluse però, col ricorso ai propri documenti e diari operativi, di aver progettato ed eseguito una distinzione totale. Ma poiché ognuna delle tre forze armate aveva escluso la propria responsabilità, questo tratto di serietà e onestà si tramutò, in assenza di un coordinamento propagandistico, in un fattore di confusione e sciatteria, di cui consapevolmente profittò la più esperta propaganda antifascista.

Fu così facile trasformare accuse mai provate in certezze definitive quando due delle potenze accusate furono debellate e incapaci a difendersi, e la terza parve sul punto di essere trascinata nella stessa rovina delle due potenze protettrici. Sarebbe bastato ricorrere, allora, alle fonti cui Bolin attinse trent’anni dopo. Ma i soli che avessero accesso, i militari spagnoli, non pensarono o non osarono servirsene, tanto inaccorti erano nella manipolazione propagandistica dei documenti. A tal punto la «Spagna invertebrata» di Madariaga era mutata dai secoli aurei della sua potenza.

Probabilmente, la Spagna franchista, impotente nel suo accerchiamento, giudicò di non doversi impegnare nel chiarimento di fatti che erano unanimemente attribuiti al Reich finito. O forse, i dispacci dei comandanti delle unità nazionali avanzanti verso Bilbao, neppur destinati al Comando Supremo nazionale, ma agli immediati superiori, comandanti singoli settori del fronte, parvero talmente funzionali, disadorni, spogli di potenzialità propagandistiche, che nessuno pensò di potersene servire contro il minaccioso rimbombo della moralità internazionale.

Letti oggi, così tecnici e scarni come sono, confermano che nessuno può averli manipolati e falsificati. Il loro giacere ignorati e inutilizzati per trent’anni è prova della loro innocenza.

In un fonogramma del 28 aprile 1937, il comandante delle unità nazionaliste appena entrate a Guernica, due giorni dopo il preteso bombardamento, comunicava: «I nostri uomini erano ansiosi di entrare nella città. Sapevano già che il nemico aveva evacuato Guernica dopo aver compiuto il crimine del suo annientamento, per poi imputarne la distruzione ai nostri piloti. Non si sono, naturalmente, trovati a Guernica i caratteristici crateri che producono le bombe lanciate dall’alto. E non v’era da meravigliarsi, considerando che negli ultimi giorni di aprile l’Aviazione nazionale non aveva potuto alzarsi in volo a causa della nebbia e delle insistenti piogge.

Già i baschi che, in preda al panico, passavano nelle nostre linee, apparvero atterriti dalla catastrofe che si preparava alla loro città, identica a quella di molte altre che, come Guernica, erano state accuratamente incendiate e distrutte dai “rossi” quando i nazionali si trovarono a una decina di chilometri di distanza».

I citati dispacci dell’«Havas» e di «Time» concordano. Crateri di bombe si vedevano nella periferia, ma nessuno nel centro della cittadina. Nei punti della peggiore rovina, le pareti delle case non recavano tracce di schegge. Apparvero intatti (ecco il dato decisivo) i selciati, non infiammabili, delle strade: intatti i parchi e i giardini, dove appaiono solitamente evidenti le devastazioni dell’offesa aerea, ben diverse della distruzione terreste.

La fabbrica rossa della menzogna fu montata, a Parigi, da un famigerato agente del Comintern, il comunista tedesco Willi Munzenberg, che spese, nella fabbricazione «documentaria» e propagandistica del mito di Guernica, mezzo milione di sterline. Perfino Thomas definisce «feroce» la determinazione con cui Munzenberg mise «i motivi della guerra civile spagnola al servizio della crociata generale antifascista».

Arthur Xoestler, il comunista rinnegato di Buio a mezzogiorno, scrisse, di Munzenberg: «Inventa pretesti, riunioni, indignazioni, comitati, come un prestigiatore tira fuori i conigli dal suo cappello».

Gli scopi dell’invenzione vanno distinti, nella necessaria occhiata a ritroso dietro i piedistalli del mito. Scopo immediato: distogliere l’attenzione internazionale dalle batoste che i «rossi» stavano toccando sul fronte basco, prossimo alla resa, e dirottarla sulle atrocità del «fascismo internazionale». Scopo a lunga scadenza, capitalizzare l’indignazione per Guernica e dirigerla sulla «crociata antifascista generale», che tutti sentivano vicina. Non si può negare che entrambi siano stati, grazie alla combinazione degli sforzi comunisti e radicali, ampiamente raggiunti.

Quando, grazie alla casuale e momentanea onestà di un grande quotidiano radicale, nella nuova età in cui gl’interessi degli Stati Uniti presero a divergere da quelli sovietici, la verità autentica fu finalmente conosciuta, rimase sterile e nane, perché la menzogna, così ben costruita, era divenuta inattaccabile. In quanto macchina di propaganda, Guernica era stata abbandonata dai suoi autori, quale miniera esaurita; eppure, continuò a produrre, nei decenni, i suoi minerali tossici.

La maggior parte dei lettori troverà queste rivelazioni nuove e incredibili, e ci saranno, al solito, quelli che mi accuseranno di speculazione e mendacio.

Una menzogna lungamente ripetuta diventa memoria storica incontestabile. Lo sapeva bene Churchill quando scrisse: «La storia mi darà ragione, perché sono io a scriverla». Questa è la fondamentale differenza della storiografia moderna da quella antica. Dopo le guerre civili e le repressioni, nella Roma imperiale, scrivere la storia diventa l’affare dei vinti, che vendicavano la sconfitta coprendo di fango i vincitori, troppo occupati nel governo dell’Impero per trovare il tempo di scrivere.

Scrivere storia non presupponeva il possesso di grandi case editrici e degli odierni strumenti necessari alla diffusione dei prodotti stampati-, bastavano una quieta stanza in una villa suburbana, o un discreto esilio, e una rete di fedeli che diffondessero poche copie manoscritte, perché l’aristocrazia senatoria soccombente potesse trasmettere ai secoli i veleni della sua vendetta.

Nel mondo moderno, la storia scritta dai vinti, seppure non sia vietata, non riesce a farsi pubblicare, diffondere, conoscere. Ridotti al silenzio, i vinti non scrivono più. E così tanto più rimane meritoria, e perfin prodigiosa, per le circostanze in cui nacque, la grandiosa opera di Attilio Tamaro, la migliore, se non l’unica, dal titolo Ventènni di storia.