E nelle foibe gli italiani uccisi furono ventimila

Il Giornale 18 marzo 1995

Torture, sadismi, occhi strappati ed esecuzioni sommarie: solo ora si indaga sui crimini dei partigiani di Tito in Istria

Francobaldo Chiocci

Ci provò nel febbraio 1993, quando ancora non si interessava di ribaltoni, il presidente della Repubblica Scalfaro reduce da una visita choc a Trieste, dove una delegazione di profughi istriani e dalmati l’aveva invitato a riaprire, per una rilettura troppo a lungo e vilmente trascurata, una delle pagine più infami della storia scritte dai comunisti: quella delle foibe.

Tra l’altro, proprio Scalfaro, nel 1954 a 34 armi, era stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega perle «questioni di confine». All’udienza, c’erano anche i parenti di Norma Cossetto, una delle vittime innocenti scaraventate nel baratro dopo essere stata legata a un tavolo, violentata e uccisa da 17 aguzzini ubriachi, tra i quali un comunista italiano «prestato» al maresciallo Tito.

Era una studentessa di lettere, una bella ragazza gioviale e inconsapevole dell’unica colpa commessa: stava lavorando a una tesi di laurea dal titolo «L’Istria rossa». Ma, allora, non la credeva rossa per il colore politico che l’avrebbe insanguinata. La credeva rossa per la bauxite, il minerale che vi abbonda.

Scalfaro, seppure in maniera felpata e informale, ne scrisse all’allora presidente del Consiglio Amato per chiedergli di far indagare, se possibile, «sulle circostanze che portarono all’eliminazione di alcune migliaia di cittadini italiani da parte delle formazioni partigiane jugoslave». Sottolineava che «molte delle persone eliminate erano colpevoli soltanto di essere italiane» e suggeriva «la necessità di far luce sui singoli casi, seguendo l’indirizzo della riabilitazione delle vittime innocenti dei governi comunisti». Insomma, almeno una par condicio sui morti. Come non detto, non chiesto e non suggerito: il governo Amato aveva ben altro e di più urgente da fare,

Ora ci riprova, a Roma, un magistrato della Procura, Gianfranco Mantelli, in abbondante ritardo sui suoi predecessori distratti, ma consapevole che i crimini contro l’umanità, ancorché commessi mezzo secolo fa, non si prescrivono. Parte del dossier sugli orrori finalmente in mano a un giudice volenteroso è stato già anticipato da Giorgio Mule sul nostro giornale, il 7 marzo scorso: storie incredibili di torture e sadismi, di occhi strappati, di condannati a morte che venivano gettati vivi nelle fenditure carsiche legati col fìl di ferro a un già giustiziato che col suo peso inerme li trascinava sul fondo.

L’impresa è lodevole ma improba. Non solo non si conosce il numero degli assassinati, che secondo alcuni potrebbero essere più di ventimila. Soltanto le foibe di Basovizza e Monrupino ne avrebbero inghiottiti cinquemila. E tanto meno, ovviamente, si conosce l’identità della maggior parte dei desapareados giuliani, istriani e dalmati.

Lo storico sindaco di Trieste restituita, Giovanni Bartoli, riuscì negli anni ’50 ad indicarne con nome e cognome appena 4.141 e altri 654 vennero aggiunti con una successiva ricerca. Ma neppure si è potuto quantiñcare il numero delle voragini in cui gli scheletri giacciono già calcinati o sono stati distrutti, inghiottiti dal fango o liquefatti dalle acque sotterranee. Molte sono in territorio diventato sloveno, e gli sloveni hanno sempre sprezzantemente risposto che devono essere tombe rinnegate perché contengono solo resti di fascisti e nazisti, memorie umane maledette da cancellare per sempre.

Per raccapricciarsi a questi orrori dimenticati è sufficiente l’algida eloquenza di alcuni numeri altimetrici. Sono quelli incisi sulla lapide eretta davanti alla foiba di Basovizza, a nord di Trieste, l’ignominia più vistosa dei quaranta giorni di quella «liberazione» fitina di Trieste che inutilmente una giovane e ardente professoressa neoirredentista, Maria Pasquinetti, tentò di scongiurare cercando di far incontrare (e momentaneamente rappacificare, di modo che si battessero insieme contro l’irrompere della barbarie) i partigiani anticomunisti italiani con i marò della X Mas di Valerio Borghese.

Maria Pasquinelli è la Carlotta Corday istriana, la pasionaria assassina per amor di patria, che il 10 febbraio 1947 uccise a Pola il brigadiere generale inglese Richard V.M. de Winton per attirare l’attenzione del mondo sul dramma della sua terra e che scontò pressoché dimenticata i 17 anni della condanna.

Sul cippo di Basovizza, dunque, sono incisi alcuni numeri. Il primo è 300. Ricorda in metri l’originaria profondità della foiba. Il secondo è 228: la quota della voragine nel 1918, dopo che l’avevano fatta, salire detriti di ogni genere (ma non umani): carbone, armi e munizioni abbandonate ed altri residuati della guerra contro gli austroungarici. L’ultimo numero è 135. Tanti sono i metri di profondità misurati nel 1945, quando Trieste «liberata» non era stata ancora restituita all’Italia.

Quel dislivello di 93 metri è la differenza anche geologica che passa tra la civiltà e il mattatoio. Sono stati i cadaveri dei massacrati a variarla. Un ulteriore, orrido calcolo in volume mortuario porta a più di 500 metri cubi la catasta infame di quel cimitero verticale: a quattro morti almeno ogni metro cubo, fanno più di duemila.

Chi erano ? Gli slavi si provarono a dire: «Tutti fascisti e nazisti». Tra le salme di militari e militarizzati che si riuscirono a recuperare c’erano più carabinieri, guardie di finanza e anche vigili urbani che non soldati della Rsi e della Wehrmacht. C’erano soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l ‘8 settembre e appena rientrati dai lager. E c’erano anche, ancora in uniforme, perché erano stati ammazzati in fretta, senza che i boia predatori riuscissero a spogliarli di ogni cosa come facevano con le altre vittime, 28 cadaveri di soldati neozelandesi, cioè alleati dei loro giustizieri.

L’Ozna, la sinistra Ghepen slava, e la Guardia del popolo dei comunisti italiani agli ordini del famigerato IX Corpus uccidevano e scaraventavano nel baratro chi capitava per vendette private, voglia di sangue e di razzie, anche semplici antipatie, soprattutto odio ideologico, etnico e religioso. I preti erano braccati perché preti.

Don Angelo Tarticchio, di Rovigo, lo trovarono col capo coronato come Cristo in croce, ma di filo spinato, e con i genitali in bocca. Un paralitico, Mario Bisisish, lo strangolarono prima nel suo letto. Infocarono pure Angelo Adam, antifascista repubblicano e israelita reduce da Dachau, e anche i comunisti Matteo Bisiach, Nicola Capnignani e Antonio Del Bianco perché, non avendo capito niente del comunismo, si rifiutarono di dichiararsi anti-italiani.

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