Genocidio di Francia

vandeaAvvenire 23 febbraio 1993

Un articolo del cardinale Paul Poupard a 200 anni dai moti

 Fu uno sterminio di massa organizzato

di Paul Poupard

La guerra di Vandea scoppiò tra il 10 e il 13 marzo 1793. Fu un moto spontaneo sorto dal cuore del popolo, non per ordine preciso, e dilagato a partire dalla regione angioina dei Mauges e da quella di Retz, dal Bocage vandeano e dalla palude di Challans. La notizia del decreto della Convenzione che ordina l’arruolamento in massa di trecentomila uomini per lottare contro la coalizione delle potenze straniere, dà fuoco alle polveri. Ma questo fuoco covava già da molto tempo sotto le ceneri, acceso dalla violazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proprio da parte di coloro che l’avevano proclamata: «Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è il più sacro dei diritti ed il più indispensabile dei doveri» (art 35).

La Vandea, come attestano tutti i documenti, aveva accolto molto bene la convocazione degli Stati Generali e partecipato alla formazione dell’Assemblea nazionale nel 1789. La rottura avviene in seguito alla promulgazione della Costituzione civile del clero, il 12 luglio 1790. L’obbligo fatto ai preti di prestare giuramento fu per loro un dramma di coscienza. Nella quasi totalità essi rimasero fedeli al Papa e obbedirono alla propria coscienza, rifiutando di giurare. Così, divenuti, loro malgrado, avversi alla Repubblica, furono perseguitati, fucilati, affogati e deportati.

I loro fedeli non li tradirono, e per questo anche loro furono perseguitati. È quello che Napoleone, esperto in materia, chiamerà «una guerra di giganti». Poiché il potere rivoluzionario non poteva vincere i rivoltosi vandeani sul posto, decide di annientarli, come documentano le fonti, con un vero genocidio ante litteram.

Migliaia di uomini, donne e bambini non avevano commesso altro crimine se non quello di essere rimasti fedeli ai loro sacerdoti, e questi ultimi alla loro fede. Fu questo un vero e proprio genocidio francese. Le ricerche sto­riche più recenti e più sicure mostrano infatti la concatenazione drammatica delle misure prese successivamente verso i preti, obbligati contro la loro coscienza a prestare il giuramento costituzionale: la deportazione, adottata dall’Assemblea legislativa il 26 agosto 1792, la condanna a morte decretata il 18 marzo 1793 dalla Convenzione, contro qualsiasi prete colpito dalla pena della deportazione che ancora si trovasse sul territorio della Repubblica, rinnovata il 23 aprile e il 20-21 ottobre 1793 (29-30 vendemmiaio, anno 2).

Un contadino dell’Aryou dice al giudice Clémenceau: «Non chiediamo affatto un re. Ma vogliamo i nostri buoni sacerdoti». E il rifiuto delle coscienze ad aderire alla religione di stato. La Vandea si è battuta per la libertà della coscienza. Dal momento che essa rimane solidale con i suoi preti, si deve «incendiare tutto», secondo l’espressione del Generale in capo dell’Armata dell’Ovest il bieco Tureau. nella sua lettera al Comitato di salute pubblica, il 17 gennaio 1794. E lo stesso giorno, nelle istruzioni ai suoi luogotenenti, afferma: «Tutti i briganti che saranno trovati con le armi in mano o sospettati di averle prese, saranno passati a fil di baionetta. Si agirà allo stesso modo con le donne, le ragazze e i bambini: nemmeno le persone sospette saranno risparmiate». L’11 febbraio 1794. il Comitato di salute pubblica dà quest’ordine tremendo: «Schiacciate totalmente questa orribile Vandea».

E’ l’ora delle Colonne infernali, che ricevono dal generale Grignon questo proclama demenziale: «Camerati, vi dò l’ordine di dare alle fiamme tutto ciò che sarà suscettibile di essere bruciato, e di passare per le armi tutti gli abitanti che incontrerete sul vostro passaggio. So che può esserci qualche patriota in questo paese. È lo stesso, dobbiamo tutto sacrificare».

«La Vandea non esiste più», scrive Westermann, il «macellaio della Vandea». il 24 settembre 1793. E, per debito di verità, non si tratta di un soprannome infame inventato dai miei antenati. È Westermann stesso che lo scrive: «Facemmo un’orribile carneficina. Si, non c’è più Vandea. Ho sterminato tutto. Noi non facemmo prigionieri. La pietà non è rivoluzionaria».

Eccessi abituali della soldataglia: è stata la spiegazione data per molto tempo dalla storiografia ufficiale. Ma non corrisponde alla realtà. È stata invece una pura e semplice esecuzione, se così posso dire, del programma della Convenzione con i suoi decreti del 1 agosto e del 14 ottobre 1793: «Sterminare i briganti. Inviare un’armata incendiaria, in modo che nessun uomo, nessun animale possa restare vivo su quel suolo».

Fu Oradour-sur-Glane che incarnò episodi di sterminio ante litteram, come sede del triste massacro nella Chiesa dei Lucs dove perirono, il 28 febbraio 1794, 110 bambini di età inferiore ai sette anni paese nelle cui vicinanze, quasi due secoli dopo, truppe naziste allo sbando, ormai al termine della guerra, rinchiusero donne e bambini in una chiesa, per poi appiccare il fuoco e bruciarli. Ed è proprio vicino al mio villaggio nell’Anjou che fu compiuto il celebre massacro della foresta di Vezins. il 27 marzo 1794. Vennero uccise circa 150.000 persone in tutto, secondo le stime più modeste, per altre invece il numero è da elevare a 600.000. Come minimo, si tratta del 15 per cento della popolazione: un vandeano su sei venne trucidato crudelmente per la sua fedeltà alla fede.

Sulla sua copertina, la «Revue de Souvenir Vendéen», di cui sono presidente onorario, riproduce la famosa vetrata dove è rappresentato il contadino vandeano che ha come sola arma una piccola ascia nella mano de­stra, mentre leva la sinistra alla croce innalzata verso il cielo. Tre soldati repubblicani vestiti di blu, donde il loro nomignolo «i Bleus», puntan la loro baionetta contro il suo petto. Il dialogo è drammatico: «Arrenditi!», gridano i soldati della Rivoluzione. «Rendimi il mio Dio», risponde pacatamente il contadino vandeano. «Sorelle mie. esclama una carmelitana di Compiègne, «siamo condannate per la nostra religione. Che felicità!».

Per tutta la Francia le vittime della persecuzione religiosa non furono solo preti, monaci e religiose, ma anche laici, uomini e donne, umili artigiani e povere serve, la cui semplice professione di fede costituiva per i giudici — se così possiamo chiamare i loro carnefici — un crimine da punire con la morte. Sono i nostri vicini e i nostri parenti con le loro parole, raccolte da testimoni e registrate dalle cancellerie dei tribunali, che ci insegnano, contrariamente agli stereotipi della storia convenzionale ripetuti con compiacenza per due secoli, come quella non sia stata l’epoca della mediocrità del clero, dell’indebolimento della fede e del declino della Chiesa, ma al contrario l’epoca testimone di una fede tanto profonda da poter condurre al martirio, e con risolutezza, coloro che chiamiamo, senza condiscendenza, gente comune, gente dei villaggi e dei sobborghi, quella che costituisce il popolo fedele di Dio.

Ancora una volta il sangue dei martiri è stato la semente dei cristiani e dei missionari. Se il XIX secolo tu sciocco nelle sue laiche pretese scientiste, fu anche, lungi dalla consueta mitizzazione, un secolo di grazia in cui la Francia conobbe la sua più ricca fioritura in fatto di vocazioni e di istituzioni apostoliche e missionarie. Plasmata nella prova, nei tormenti, durante la peggior persecuzione, la generazione dei discendenti dei «guillotinés de la foi» (Jean Peyrade), deportati, massacrati, fucilati o affogati per la loro fede, è stata anche quella di un rinnovamento cattolico, di un approfondimento spirituale e di un eccezionale irradiamento missionario.

Già il mio predecessore, monsignor D’Hulst, primo rettore dell’Institut Catholique di Parigi, diceva in occasione del primo centenario dei massacri di settembre nell’antico monastero dei Carmelitani culla dell’Università Cattolica parigina: «Non siamo qui per accusare i colpevoli, ma per onorare le vittime». Proprio con questo spirito si svolgerà a La Roche-sur-Yon. dal 22 al 24 aprile prossimo, il Colloquio internazionale e interdisciplinare su La Vandea nella Storia. E con il medesimo spirito presiederò il prossimo 18 luglio al Pinen-Mauges le cerimonie del bicentenario della morte di Cathelineau. «il Santo dell’Anjou», trisavolo di mia zia.

In tal modo, a due secoli di distanza, la Vandea, con la sua memoria finalmente ritrovata e onorata, ritrova anche il suo giusto posto nella storia, una storia santa fatta da peccatori e da santi, tra i quali ritroviamo una semplice donna del mio villaggio natale nell’Anjou, beatificata dal Santo Padre Giovanni Paolo II con 98 altri angioini domenica 19 febbraio 1984 nella Basilica Vaticana.

Basta leggere gli interrogatori di questa quarantatreenne. Renée Rigatili condannata con i suoi concittadini con l’accusa di «fanatismo», per capire che questi umili figli del popolo, lavoratori giovani e vecchi, donne e uomini avevano commesso un solo delitto: «di non accettare i nuovi preti», ossia quelli che avevano prestato giuramento in favore della Costituzione civile del clero. Ecco la guerra della Vandea: i contadini inermi dell’Anjou, del Poitou e della Vandea sono insorti spontaneamente contro il potere rivoluzionario unicamente per fedeltà alla propria fede e per attaccamento ai loro sacerdoti fedeli a Dio e al Papa di Roma