UNIONI CIVILI. Un progetto nemico dell’uomo, della famiglia, della società e di Dio

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venerdì 29 gennaio 2016

Antonio Lopez

docente di teologia e decano al Pontificio istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia di Washington, DC, legge il ddl Cirinnà

Abbiamo chiesto al professor Antonio López, docente di teologia e decano al Pontificio istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia di Washington, DC, di leggere il ddl Cirinnà. Ne è scaturita la lunga conversazione che proponiamo. Si tratta, per López, di un vero e proprio attacco al disegno di Dio, di cui lo Stato prende il posto: “Poiché non esiste più alcun criterio di verità che trascenda l’opinione e la volontà soggettiva dell’uomo, lo Stato, in quanto soggetto legiferante, acquista un potere quasi divino”. López affronta praticamente tutte le parole-chiave al centro dei nuovi diritti: verità, coscienza, libertà, natura, genere, matrimonio, famiglia, unioni civili. La responsabilità del cristiano? “Annunciare che Dio si è fatto uomo per salvare l’uomo, per rivelare pienamente l’uomo all’uomo”.

Professor López, che impressioni ha tratto dalla lettura del ddl Cirinnà?

Il disegno di legge presenta vari problemi. Tra i principali, c’è la totale equiparazione delle unioni civili alla famiglia naturale, come evidente dai rinvii contenuti negli articoli 2 e 3 alla disciplina del matrimonio. Inoltre, estendendo il diritto anche a persone maggiorenni delle stesso genere, il ddl riconosce di fatto anche se non verbalmente il matrimonio omosessuale. Altro punto critico, se pur meno menzionato nel dibattito pubblico, è — articoli 2.2, e 11 — la «non discriminazione in qualunque settore della vita pubblica e privata». Questo è un principio molto radicale, che comprensibilmente potrà toccare anche la Chiesa (per esempio quanto ai criteri di assunzione di personale).

Il nodo più discusso è quello sulle adozioni…

L’istanza è comprensibile, perché l’unione nuziale tra l’uomo e la donna è per natura aperta alla fecondità. Quindi, dato che due persone che contraggono un’unione civile sono equiparate alla famiglia naturale, “devono” poter avere dei figli. Se sono dello stesso sesso, li otterranno con adozione garantita dallo Stato o attraverso metodi tecnologici. Ad esempio, se un uomo divorzia da sua moglie sposando un altro uomo, nel caso in cui vinca la causa ed ottenga la tutela del figlio, quest’ultimo sarà costretto ad abitare con due papà.

Eppure, tutti dicono di mettere davanti a tutto il bene del figlio…

In realtà, a me pare che il figlio sia sempre un retropensiero. Non è visto come un dono frutto dell’amore dell’uomo e della donna, ma come qualcosa di ottenuto tramite l’aiuto dello Stato o i mezzi tecnologici.

E’ il “diritto” al figlio che il presidente della Cei, cardinale Bagnasco, ha contestato…

Certo. Questo modo di concepire il bambino — non come dono ma come “oggetto” che uno ha il diritto di possedere — è una conseguenza del modo in cui il matrimonio viene concepito: siccome il matrimonio non è un dono, ma è un rapporto di cui i contraenti sono l’origine e in un certo senso anche il destino, allora anche il figlio è una “cosa” che si produce. Non è più una persona, è un oggetto. Basterebbe ascoltare la testimonianza di persone che sono state concepite in questi modi per rendersi conto di quanto essi soffrano, per non essere nati come frutto gratuito dell’amore dei genitori. Un’altra implicazione delle unioni così disciplinate è, poi, l’instabilità.

In che senso?

Per contrarre il patto basta iscriversi al registro in presenza di due testimoni. Se la revoca è consensuale, lo scioglimento del patto è immediato; se non consensuale, è sufficiente un anno di tempo. Questa disciplina eliminerebbe di fatto il matrimonio civile, che, se capisco bene, in Italia ha una struttura parallela al sacramento, con impegni rilevanti e stabili, e per il quale peraltro è già previsto il divorzio breve (approvato poco più di un anno fa, ndr). Con questa nuova legge non credo che il matrimonio civile verrebbe più scelto da molti. Sembra poi che le unioni civili diano tutti i diritti e non richiedano quasi nessun dovere. Soprattutto, se le unioni civili prendono il posto del matrimonio civile, ne prenderanno anche il nome: vengono recepite a tutti gli effetti come matrimoni.

Il ddl prevede “criteri e modalità di estensione alle unioni civili dei diritti spettanti ai nuclei famigliari”. Che portata ha questa estensione?

È un punto fondamentale. La legge porta sempre dentro di sé una concezione dell’uomo e dei rapporti fra gli uomini. Non è mai, per così dire, antropologicamente neutra. Il ddl quindi afferma che il matrimonio naturale, che era una possibilità limitata a persone sessualmente differenti (un uomo e una donna), ora è una categoria/realtà che viene estesa a persone dello stesso genere. Ma questa estensione non è soltanto un cambiamento quantitativo, bensì qualitativo. Che persone dello stesso sesso abbiano un’istituzione comune, con gli stessi diritti di una famiglia, significa che tutte le unioni sono concepite in modo uguale. È un cambiamento qualitativo.

Ci spieghi perché…

Perché la differenza sessuale e la connessa possibilità naturale della fecondità non sono più parte della definizione essenziale dell’amore matrimoniale, come accade nell’unione fra un uomo e una donna. Questa legge stabilirà come vero per tutti che il matrimonio è fatto da persone il cui amore non c’entra nulla con la natura (e perciò anche con l’uso) del proprio corpo. Si capisce, così, come una tale equiparazione stravolge il significato del legame tra l’uomo e la donna, del matrimonio in quanto tale e non si limita affatto ad estendere un “diritto”.

Ci può spiegare meglio cosa cambia alla radice?

Scompare l’idea di natura creata. La verità — in questo caso del matrimonio e della famiglia — coincide con ciò che si fa: è vero tutto (e solo) ciò che è possibile fare. Ripeto, questo ddl comunica una concezione dell’uomo, una nuova antropologia. La presuppone e, rendendola legge, istituzionalizzandola, la promuove. Parlare delle unioni civili è parlare di che cos’è l’uomo. Per questa ragione, è ingenuo separare le questioni giuridiche da quelle antropologiche e pensare che mentre lo Stato gestisce neutralmente la vita sociale, altre istituzioni (la chiesa cattolica, le religioni, eccetera) hanno la responsabilità di spiegare il significato (religioso, umanistico) dell’uomo e della sua vita morale. Un esempio classico è la legge sull’aborto, con la quale non soltanto passa a livello sociale l’idea che abortire non è un male — o, quanto meno, un male minore e inevitabile —, ma passa anche una nuova idea di ciò che io sono, di che cos’è l’amore, di che cosa sono la fecondità e il lavoro, di cosa posso fare con me stesso.

Che cambiamento comporta innanzitutto per la persona?

L’uomo non si concepisce più come dono: bensì come un essere astratto, avulso da ogni legame, un essere che non risponde di sé a nessuno e a nulla. La vita non è un dono che ci costituisce, che dobbiamo accogliere e a cui siamo chiamati a gratuitamente rispondere. Il corpo, di conseguenza, è concepito come un artefatto, o meglio una “macchina” a mia disposizione per poter ottenere mediante il suo uso ciò che io decido e voglio: il conclamato diritto di usare della capacità tecnologica di intervenire alla fine e soprattutto all’inizio della vita umana, mostra nel modo più evidente questa riduzione del corpo umano a uno strumento che si vuole sempre più malleabile ai desideri dell’uomo. Cambia anche il significato dei rapporti costitutivi dell’uomo — mi riferisco a figliolanza, maternità, paternità, nuzialità.

Ci spieghi…

Tutti questi rapporti costitutivi diventano rapporti legali. Non sono più rapporti determinati dalla natura. È lo Stato, che, assecondando la libertà di ciascuno, definisce che cos’è il matrimonio, chi è figlio di chi, qual è lo scopo della famiglia e il ruolo che ciascuno ha dentro di essa, eccetera. Tocchiamo in questo modo con mano l’ironico paradosso cui conduce la concezione liberale dello Stato — come ha implicitamente ammesso il giudice della Corte suprema americana Thomas, in un interessante passaggio della sua dissenting opinion in merito al caso Obergefell vs. Hodges, che ha portato alla legalizzazione federale del matrimonio gay negli Stati Uniti: “Nella tradizione legale americana — scrive il giudice Thomas — la libertà è sempre stata compresa come libertà dall’intrusione del governo e non come diritto di ricevere un qualsivoglia titolo (entitlment) da parte del governo stesso” (…) Tale apparente cambiamento, fa venire a galla in realtà una tensione che giace latente all’origine della concezione liberale dello Stato, concepito come puro garante della libertà individuale dei singoli e perciò non autorizzato ad imporre alcuna verità che si pretenda ‘naturale’. Quella che sembrava modestia e non ingerenza — la rinuncia a proporre qualsivoglia ‘verità’ — trasforma paradossalmente lo Stato nel creatore stesso della verità. Lo Stato non si limita a riconoscere una realtà che già esiste e gli uomini hanno da sempre riconosciuto come tale. Ne diviene il creatore. La soggezione del cittadino allo stato diviene qui assoluta, poiché solo la legge dello Stato può garantire all’individuo la libertà di essere ciò che vuole”.

Se guardiamo alla dichiarazione con cui il giudice Kennedy ha giustificato la decisione della corte suprema di approvare il matrimonio gay, il paradosso diviene ancora più chiaro. Con un’interpretazione molto discussa dell’emendamento 14, Kennedy afferma la natura costituzionale del matrimonio gay in nome del “diritto di ogni cittadino di definire la propria identità”. Da una parte, dunque, il matrimonio gay appare come il punto di arrivo coerente della antropologia liberal: ciò che definisce l’uomo non è più l’essere creato ad immagine di Dio, ma la sua libertà che si autodetermina, senza nessun parametro. Dall’altra, poiché non esiste più alcun criterio di verità che trascenda l’opinione e la volontà soggettiva dell’uomo, lo Stato, in quanto soggetto legiferante — senza entrare nella complessa domanda di chi di fatto rappresenti questo soggetto — acquista in realtà un potere quasi “divino”: è lo stato infatti che mi permette di essere ciò che io non potrei essere senza il suo “entitlement“. Contro tale visione bisogna tornare a guardare una elementare verità: l’autodeterminazione è certamente un aspetto importante della libertà, ma non l’unico. La libertà esiste ed entra in azione sempre e soltanto in risposta ad un dono, ad un “dato” che la precede: gli sposi dicono di sì ad un amore che è stato dato loro. Questa idea di uomo come libertà assoluta, cioè come libertà separata dalla verità, è un’astrazione che investe tutti i livelli della vita dell’uomo di oggi. Ma questa idea è semplicemente falsa, astratta appunto.

Lo stesso che vediamo nella teoria gender?

Sì. In essa il genere non è più un sostantivo, cioè qualcosa che definisce il tuo essere in modo inalienabile (tu sei donna, per esempio), ma diviene un verbo, qualcosa che tu fai. Il “genere” oggi è qualcosa che uno fa e la legge riconosce. Sempre più le leggi negli Stati Uniti definiscono il genere come l’identità che viene (legalmente) assegnata dai genitori quando il bambino è nato, identità che il bambino potrà cambiare una volta che decida (o scopra) qual è l’identità sessuale con la quale si trova più a suo agio. Questo modo di pensare il genere è anche frutto della tecnologia: se, per esempio, due omosessuali possono pretendere che la loro unione sia equiparata al matrimonio è perché ci sono dei metodi biotecnologici per procurarsi un figlio. Se un maschio può chiedere di essere riconosciuto come donna è perché oggi si possono fare degli interventi chirurgici/medici che rendono possibile la trasformazione di questa pretesa in realtà. L’implicazione che ne segue, ancora una volta, è che il corpo sessuato, cosi come il suo ordinamento alla fecondità, sono secondari, quindi non necessari, non costitutivi dell’amore sponsale.

Lei ha detto: “I legami costitutivi della persona non sono più naturali, ma legali”. Può spiegare meglio?

Se non c’è più la natura, a prendere il suo posto è la legge positiva. Non resta mai un vuoto. Siccome l’uomo deve vivere “in società”, i rapporti umani non rispecchiano o assicurano un bene esistente di per sé, ma diventano legali, assicurati dallo Stato. Un esempio: se due persone dello stesso sesso possono adottare figli, vuol dire che paternità e maternità sono considerati dei ruoli. Peraltro intercambiabili. Il legame è fissato per legge ed è ridotto, appunto, a quello che si fa, e che quindi chiunque può fare al mio posto. Al fondo, ripeto, c’è una precisa concezione di libertà sganciata da una verità che riconosco ma non faccio io: la libertà come capacità di azione che determina le cose.

Ora, se è vero che è la legge positiva a permettere alla libertà di esercitare il suo potere, allora si capisce il perché della necessità di moltiplicare leggi su leggi tipico della società liberal. Si veda l’esempio Usa. Ma questa moltiplicazione di leggi e regolamentazioni non può sostituire il bisogno di certezza e di stabilità propria dell’uomo. Che lo Stato garantisca forme così instabili come le unioni civili è un male per tutta la società. Come può sussistere una società nella quale uno non può essere certo dei rapporti costitutivi (figliolanza, nuzialità, paternità, e maternità), e quindi dell’esistenza di legami che non sia dipendenti dall’emozione sempre transitoria e dalla volontà sempre mutevole degli individui?

Immagino che lei risponda negativamente a questa domanda retorica, per sottolineare la conseguenza logica che scaturisce dalle premesse…

Se è vero tutto ciò che è possibile e fattibile, allora la rivoluzione diventa un principio permanente. Per esempio: se in un’unione le cose non vanno o non si ottiene lo scopo per cui si era insieme, si può cambiare molto facilmente. Ma l’amore per natura è fedele e fecondo. Nell’instabilità si fa soffrire e si soffre. Il sentimentalismo, alla base di questa concezione dei legami, è inevitabilmente violento, perché mi porta a tentare di ottenere ciò che desidero a tutti i costi, imponendo la mia volontà sulla realtà e sugli altri.

Negli Usa vedete le conseguenze di quest’instabilità?

Qui il matrimonio omosessuale è legge, ovvero è diventato norma (da giugno scorso). Questo non ha affatto dato avvio ad una corsa degli omosessuali a sposarsi. L’effetto è piuttosto il rafforzarsi di una mentalità che trasforma dal punto di vista concettuale anche il matrimonio naturale. La persona si concepisce come libertà che si autodetermina. Il desiderio è identificato con l’inclinazione soggettiva che si prova, e l’amore e la fecondità sono sottomessi al primato di tale inclinazione. Lo scopo del matrimonio diviene la propria soddisfazione emotiva e cosi il divorzio entra latentemente dentro la forma stessa del matrimonio, in quanto esso non richiede più la donazione totale (e perciò irrevocabile) degli sposi l’uno all’altro, ma piuttosto l’aiutarsi a vicenda a soddisfare l’uno il desiderio dell’altro.

Altre implicazioni?

La legge costringe anche a ripensare l’educazione. Se la legge riconosce un certo tipo di uomo, la scuola e la famiglia devono educare a tale concezione. Quello che si vede sempre di più è che la società liberale va instaurando un nuovo totalitarismo. Si deve eliminare tutto ciò che ostacola l’esercizio della libertà individuale, da una visione del corpo come rivelatore del mistero della persona, alla stabilità matrimoniale, al divieto per l’uomo di essere signore della vita propria e altrui (si veda l’approvazione di aborto ed eutanasia). Questo totalitarismo è più sottile dei totalitarismi che abbiamo conosciuto nel passato, è in un certo senso invisibile. Esso esercita il suo potere più attraverso la burocrazia e le leggi “volute da tutti” che attraverso un “dittatore” o un “piccolo gruppo” che ha afferrato il potere.

Ma allora, cosa sono i “nuovi diritti”?

E’ importante ponderare bene le parole: il termine “diritto” oggi è compreso soprattutto come “protezione della nostra capacità di esercitare il potere che la nostra libertà ci conferisce”. Avere un diritto, la dove non si riconosce più che la vita è data e quindi la libertà deve rispondere del dono ricevuto a Colui che l’ha data, significa essere abilitati a fare ciò che si può e si vuole fare. Molte volte, quando per esempio si parla dei diritti dei bambini, pur volendo proteggere il bene dei più piccoli, si adotta un linguaggio che ci impone di guardare ai bambini come se fossero adulti, cioè come persone indipendenti che devono poter esercitare la loro libertà. La parola “diritto”, invece, ha una storia e un senso assai più ricco. Purtroppo essa è ridotta oggi a significare “libertà da ogni coercizione”, libertà di esercizio delle proprie capacità o desideri. Ciò che è nuovo, direi quindi, non è tanto l’esistenza di “diritti”…

Ma che questi diritti esprimono un’antropologia…

Certo: un’antropologia che non è amica dell’uomo. Nonostante le pretese di neutralità, quello che c’è in gioco in una tale idea di diritto è anche una metafisica della libertà, cioè una definizione di libertà come esercizio della propria libertà di scelta, indipendentemente da ogni legame col vero e il bene. Secondo la visione classica, non solo cristiana ma, per esempio, anche greco-romana, la libertà presuppone un ordine, un contesto cosmico nel quale esiste e si esercita. La libertà è data per gustare il vero bene, che non è alla merce delle mode e della volontà dei singoli. Ma ciò presuppone che verità e bene siano reali, intrinseci all’ordine delle cose, e che l’uomo sia ordinato ad essi per natura. Ogni mia scelta parziale (anche quella della mia vocazione, per esempio) avviene all’interno del rapporto con il vero bene ed è sempre un passo verso o lontano dal mio destino, dal bene. Ora, questa visione viene radicalmente negata nella nostra società liberal. In essa, ogni individuo fissa sia i propri fini sia il modo in cui raggiungerli. La libertà è compresa come neutra, cioè come non originariamente in moto verso il bene, attratta da esso, ma come indifferente, cioè capace di scegliere senza essere attratta da nessuno e da niente. L’attrattiva stessa diviene nemica. Quindi, in fondo, non c’è più né bene né male.

Perché una mentalità che relativizza e colpisce la famiglia chiede unioni simili al matrimonio, con anche la responsabilità dei figli? 

Tenendo presente che stiamo giudicando una concezione e non le singole persone, possiamo dire che la situazione è assai complessa. In sostanza, tra i sostenitori di queste leggi non ci sono posizioni omogenee. Una giornalista omosessuale del New York Times, Masha Gessen, per esempio dice: “Lottare per avere il matrimonio gay implica il mentire circa il vero scopo che intendiamo raggiungere, una volta ottenutolo. Noi infatti diciamo che l’istituzione del matrimonio non cambierà. E questa è una menzogna. L’istituzione del matrimonio cambierà, e deve cambiare… anzi, io penso che non dovrebbe più esistere”. A ben guardare, come abbiamo già rilevato sopra, l’esigenza del riconoscimento legale sembra che contraddica l’idea centrale dell’antropologia liberal: e cioè il principio dell’autodeterminazione assoluta del singolo. Tuttavia, proprio questo è il paradosso: quando il posto della natura viene preso dalla legge, si può essere veramente liberi solo grazie al riconoscimento legale. Se il legame non è riconosciuto, il legame non c’è: è la legge a farlo esistere.

Qual è la responsabilità del cristiano di fronte a tutto questo?

E’ una grande responsabilità: l’annuncio della fede. Annunciare che Dio si è fatto uomo per salvare l’uomo, per rivelare pienamente l’uomo all’uomo (Gaudium et spes, 22). Ci sono stati tempi, pensiamo per esempio alla crisi dell’arianesimo, in cui la verità di fede da difendere era che l’uomo nato da Maria fosse veramente il Figlio di Dio, consustanziale al Padre, veramente Dio. La verità che oggi ha più bisogno di essere difesa è piuttosto la verità dell’uomo, così come Gesù Cristo ne rivela la piena dignità e bellezza. Occorre sempre meglio comprendere ed annunciare la verità dell’uomo che in Cristo risplende a tutti i livelli: dalle nostre piccole comunità creative alle scuole, dai dibattiti sulle leggi, all’arena politica… ciascuno lì dov’è chiamato e secondo la responsabilità e i talenti che ha. Le unioni civili non sono una questione tangenziale, perché la famiglia è questione centrale, è il primo luogo dove ciascuno scopre chi è, cosa vuol dire vivere da e per un altro, cos’è l’amore… Non si può cadere nel tranello di pensare che possa esistere un diritto per cosi dire neutrale, che non prenda posizione rispetto alla definizione della natura dell’uomo, come se potesse esserci un ordine sociale che prescinda da una precisa visione dell’uomo. Certo, legge e concezione filosofico-religiosa dell’uomo non sono mai identificabili, ma non sono mai nemmeno separabili. In questo, la responsabilità del cristiano è grande e bella. Anche decisamente drammatica, aggiungerei.

Dove stiamo andando?

Bisogna essere consapevoli che, al di là di tanti beni che ha portato la civiltà occidentale, la logica liberal, che separa libertà e verità ultima, porta al nichilismo — come aveva già acutamente profetizzato Nietzsche — il che significa all’autodistruzione dell’uomo. Ora vediamo più chiaramente di lui le conseguenze di tale separazione. Il cristiano è chiamato a custodire la verità dell’essere, la verità dell’amore. Custodire vuole dire non solo proteggere, ma anche proporre a tutti, con umiltà e insieme con coraggio e decisione, ciò che Cristo ha rivelato dell’uomo e di Dio.

Cristo svela anche l’uomo a se stesso, diceva. Questo cosa comporta verso le leggi? 

Cristo, rivelando che Dio vuole l’uomo come Figlio Suo, ha rivelato “chi è” l’uomo. Ogni cristiano deve annunciare a tutti i livelli cosa significa questo, cosa significa che la verità dell’uomo è di essere dono — come scriveva don Giussani nell’ottavo capitolo di All’origine della pretesa cristiana. Un nota bene: occorre vivere la testimonianza evitando il rischio di cadere nell’attivismo, o nella logica del successo. Non ci si può illudere che il compito del cristiano si esaurisca nell’organizzare manifestazioni di piazza. Detto questo, però, non ci si può sottrarre al compito: che il popolo cristiano chieda che il matrimonio riconosciuto dallo Stato sia quello naturale non è affatto un’ingerenza mossa da integralismo religioso. Si cerca di difendere il riconoscimento da sempre costante nella storia dell’umanità, non solo cristiana, che il vero bene dell’amore nuziale è quello determinato da Dio sin dall’inizio e così ben visibile nella differenza sessuale tra l’uomo e la donna.