Il risveglio dei cattolici

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La presidenza del II gruppo generale dell’Opera dei Congressi

Articolo pubblicato su Avvenire

di sabato  23 febbraio2002

Dall’Unità d’Italia al «non expedit» e all’Opera dei Congressi: parla lo studioso Marco Invernizzi

di Luca Geronico

«Il congresso è cattolico e non altro che cattolico», non è liberale, non è tirannico, non è d’altra qualità». Il suo scopo «è di riunire in generali adunanze i delegati e i membri delle società cattoliche italiane». Il 12 giugno del 1874 con il proclama di Vito D’Ondes Reggio, si apriva a Venezia la storia dell’Opera dei congressi. I primi “Stati generali” dei cattolici italiani, preparati per quattro anni all’indomani della breccia di porta Pia, ma soprattutto la prima «intransigente» manifestazione del laicato cattolico ottocentesco, trasformati ben presto in un “Comitato permanente”.

Furono i primi trent’anni di vita sociale e religiosa dei cattolici nello Stato unitario accomunati – tranne alcune espressioni minoritarie -nell’opposizione frontale al Regno sabaudo e al liberalismo della nuova classe dirigente. Vicenda tormentata nel cuore del Risorgimento che Marco Invernizzi ha riportato all’attenzione delle stampe con il volume “Icattolici contro l’unità d’Italia? L’Opera dei Congressi” (Piemme, 300 pp.,16,90 euro).

L’Opera dei congressi nacque dunque con un Dna problematico. La prima espressione del movimento cattolico fu nel segno della contrapposizione alla modernità. Una scelta dettata più dalla polemica politica o da quella culturale?

«La contrapposizione politica è determinante, perché l’Opera nacque a quattro anni dalla breccia di Porta Pia, evento drammatico per chi lo visse. Oggi si dice felix culpa per la fine del potere temporale, ma l’intenzione di chi entrò in Vaticano con le armi non era di sgravare la Chiesa da impacci temporali, ma di liberare la società dalla Chiesa. Qui si trova la saldatura con la polemica culturale: anche i conciliatoristi come Rosmini non erano certo dei liberali dal punto di vista ideologico. Se alcuni rifiutavano la contrapposizione frontale, questo non significa che non si valutasse la scristianizzazione voluta dai liberali. Per capire pienamente la complessità della “questione romana” bisogna risalire al 1848, alle scelte politiche di Pio IX e del cardinale Antonelli che scelsero di schierarsi con l’Austria».

Con la presidenza di Gianbattista Paganuzzi (1889-1902) il movimento intransigente raggiunge l’apice: un programma completo di azione sociale che ha la sua massima espressione nel congresso di Milano del 1897. Come si organizzò questo «Paese reale», come si diceva allora, contrapposto al «Paese legale»?

«È il periodo in cui nacquero le banche (Giuseppe Tovini fonda il Banco ambrosiano, il San Paolo di Brescia), si aprirono le casse rurali, si inventarono inedite forme di protezione sociale, ma soprattutto si costituirono attorno alla parrocchia spazi di vita reale alternativi a quelli proposti dalle istituzioni statali. Si volle creare una società autonoma e indipendente prescindendo dallo Stato. Molto importanti diventarono in questo contesto le elezioni amministrative a cui, nonostante il non expedit, i cattolici potevano partecipare. L’obiettivo era di riconquistare dal di dentro la società».

Perché quel modello entrò in crisi?

«Decisivi furono i moti del ’98 a Milano per il rincaro del prezzo del pane. Gli scontri, è accertato, non furono organizzati dai socialisti, ma di fatto si confrontavano le forze che cercavano ancora di costruire lo Stato senza i movimenti di massa; il coinvolgimento di socialisti e cattolici nei moti di piazza fece temere però un possibile accordo fra le due principali organizzazioni popolari. I liberali compresero che non potevano più governare da soli, mentre la Santa Sede maturò la convinzione che la “questione sociale” era divenuta più importante della “questione romana”.

Nell’enciclica Fermo proposito del 1905 Pio X avrebbe precisato che «c’è un bene comune maggiore da salvaguardare che è la pace sociale». Un pericolo maggiore di quello rappresentato dal liberalismo al governo, per cui si iniziò a valutare la prospettiva degli accordi elettorali con i liberali moderati in funzione antisocialista. Specularmente i giovani della democrazia cristiana si dicevano disposti ad allearsi con i socialisti in funzione antiliberale. Una spaccatura fra clerico moderati e democratico cristiani che sarebbe diventato una costante del movimento cattolico italiano».

Fu quello un lungo periodo di transizione dal non expedit al patto Gentiloni. Sembra riduttivo definire l’Opera dei congressi come l’anticamera all’ingresso nella vita politica. Quale il merito di un attivismo sociale senza precedenti?

«Fu l’assunzione di consapevolezza dei cattolici che ormai era finita la societas cristiana e l’alleanza fra Chiesa e Stato, un’alleanza difficile, per alcuni aspetti controproducente, ma che aveva informato gli Stati preunitari. La Chiesa si rese conto di essere diventata una parte fra le altre con uno Stato nelle migliori delle ipotesi neutrale, se non ostile. Da questo nacque la necessità di una organizzazione capace di agire nella società per fermare il processo di scristianizzazione. Il risultato fu una rete sociale che spiega la forte religiosità presente ancora oggi nella società italiana».