Suicidio Europa

ommigratiIl Foglio 29 settembre 2007

di Guglielmo Piombini 

La denatalità associata all’immigrazione fuori controllo potrebbe segnare la fine della civiltà europea, avverte lo storico Walter Laqueur. Laqueur spiega che la persistente stagnazione dell’economia, il prolungato calo delle nascite e la mancata integrazione dell’immigrazione musulmana rappresentano i sintomi di una grave crisi, che potrebbe mettere a rischio l’identità storica europea.

Un’analisi di questo genere sarebbe apparsa, fino a pochi anni fa, come una provocazione. All’inizio del nuovo millennio gli intellettuali più ascoltati indicavano nell’Europa la potenza guida del XXI secolo.

L’Unione europea, secondo questa visione, avrebbe assunto la leadership mondiale non con la forza militare, ma grazie al “potere trasformativo” del suo superiore sistema sociale, che il resto del mondo avrebbe imitato. Molti studiosi americani, come Jeremy Rifkin, Paul Krugman, Charles Kupchan, Tony Judt o Mark Leonard (quest’ultimo autore nel 2005 di un libro intitolato proprio “Why Europe Will Run the 21st Century”) esortavano gli Stati Uniti a correggere i propri difetti prendendo l’Ue come modello, opinione condivisa dalla maggioranza dei dirigenti politici europei.

Nel marzo del 2000 i primi ministri dei governi europei si incontrarono a Lisbona per discutere delle strategie per i prossimi dieci anni. Tutti d’accordo: l’Europa sarebbe diventata l’economia più competitiva e dinamica del mondo. Laqueur si chiede come siano potute nascere quelle allucinazioni. Col passar del tempo il welfare europeo è diventato sempre più costoso, la tassazione sempre più elevata, l’economia sempre più regolamentata.

L’invecchiamento della popolazione e il calo della forza-lavoro giovanile suonano come una condanna a morte per il sistema assistenziale. Oggi appare chiaro che l’Europa non ha alcuna possibilità di competere con gli Stati Uniti sul piano economico o geopolitico, e che fatica persino a reggere la concorrenza della Cina e dell’India.

Fin dalla fine degli anni Ottanta gli esperti in demografia, come i francesi Alfred Sauvy e Jean-Claude Chesnais o il tedesco Herwig Birg, avevano suonato l’allarme. I loro avvertimenti però non vennero mai presi seriamente in considerazione dalle classi politiche, perché gli effetti negativi del calo demografico si sentono nel lungo periodo, e gli uomini politici raramente guardano al di là dei quattro o cinque anni che li separano dalle elezioni successive.

Al calo delle nascite si aggiunge la massiccia immigrazione. Un turista che tornasse a visitare le capitali europee dopo un’assenza di trent’anni, scrive Laqueur, farebbe fatica a riconoscere gli stessi luoghi. Intere aree di Londra, Parigi o Berlino oggi si presentano ai visitatori con l’aspetto, i suoni e gli odori simili a quelli del Cairo, di Karachi o di Dacca: moschee e minareti, donne vestite con l’hijab, macellai halal, ristoranti kebab, Aladin cafè e Marhaba minimarket.

Gli immigrati di un tempo si contavano in qualche decina di migliaia, non in milioni di persone. Non usufruivano come oggi di generosi sussidi e servizi sociali, e per questa ragione facevano ogni sforzo per integrarsi nella società ospitante.

Adesso invece molti immigrati, soprattutto musulmani, si auto-segregano volontariamente in comunità separate, e non socializzano con i vicini tedeschi, inglesi o francesi. I predicatori gli insegnano che i loro valori e le loro tradizioni sono di gran lunga superiori a quelli degli infedeli, e che ogni contatto con loro è indesiderabile.

Già nel 2004 a Bruxelles più del 55 per cento dei neonati erano figli di immigrati; nella regione tedesca della Ruhr entro pochi anni più della metà delle classi d’età sotto i trent’anni saranno di origine etnica non tedesca; fra cinquant’anni gli Stati Uniti avranno più di 400 milioni di abitanti, mentre la popolazione dell’Unione Europea potrebbe essere meno numerosa di quella del Pakistan o della Nigeria.

La spiacevole verità, scrive Laqueur, è che l’Europa non sta diventando una superpotenza, ma si trova nel bel mezzo di una crisi esistenziale. La posta in gioco non è il ruolo egemonico mondiale, ma la sopravvivenza. Prima della fine del secolo alcune aree del continente potrebbero diventare dei parchi a tema per i turisti provenienti da altri continenti.

Le guide gli mostreranno i monumenti dicendo: “Signore e signori, state ammirando ciò che resta di una civiltà altamente sviluppata che un tempo dominò il mondo, e che ci diede le cattedrali, Shakespeare, Beethoven e tante altre cose meravigliose”.

Il declino del vecchio continente, anche se irreversibile, potrebbe però essere graduale, e non c’è ragione di pensare ad un collasso improvviso. Il dibattito dovrebbe concentrarsi sull’individuazione delle tradizioni e dei valori europei che possono ancora essere salvati. L’età delle illusioni, conclude Laqueur, è finita.

Walter Laqueur, THE LAST DAYS OF EUROPE Thomas Dunne, 256 pp., $ 25,95