Nullius in Verba, ovvero, Riflessioni sul Clima a Margine della COP21

ghiacciaioTratto dal blog “Il corriere della collera” – Mercoledì 9 dicembre 2015

di Luigi Mariani

(agrometeorologo e meteoclimatologo che insegna all’Università di Milano)

Nei giorni scorsi, anche a seguito del deludente appello sottoscritto da 12 società scientifiche italiane (qui per i lettori di CM) sono stato sollecitato da alcuni amici (Uberto Crescenti, Sergio Pinna e altri) a redigere la bozza di una sorta di “Appello alla ragione” volto a contrastate l’alluvione catastrofista che si sta verificando a margine delle trattative COP21 in corso a Parigi. Per venire incontro a tale richiesta ho provato a redigere il testo qui di seguito riportato, che sottopongo alla riflessione dei lettori auspicando suggerimenti anche critici. Se tale azione di review avrà successo potremmo in effetti pensare ad una sorta di “Appello” di Climatemonitor, cosa a cui si era già in passato riflettuto senza giungere poi ad alcuna conclusione.

Premessa

“Nullius in verba” (o, se si preferisce, “stiamo ai dati e lasciamo da parte gli artifici retorici, alias slogan”) è il motto della celeberrima associazione scientifica britannica Royal Society, la quale fin dalla sua fondazione, avvenuta il 28 novembre 1660 per iniziativa di John Evelyn, ha lo scopo di promuovere l’eccellenza scientifica per il benessere della società.

Questo motto torna alla mente in questi giorni in cui assistiamo alla messa in onda sui principali mezzi di comunicazione nazionali ed internazionali di una “fine del mondo prossima ventura” fatta di mari che salgono, deserti che avanzano, ghiacci che fondono, ondate di caldo inarrestabili e bombe d’acqua.

Di fronte a questa alluvione retorica volta a condizionare la COP21 di Parigi non basta limitarsi ad attendere che la stessa si esaurisca. Pertanto qui di seguito si sono posti alcuni paletti basati su letteratura scientifica recente e che è necessario richiamare al fine di ristabilire l’“Est modus in rebus” cui ci richiamava Orazio (Satire 1, 1, 106-107), evitando che sia la spinta emotiva a condizionare decisioni che dovrebbero essere assunte su base razionale e cioè a partire da dati di buona qualità interpretati in modo equilibrato.

Temperature globali

Dopo la fine della piccola era glaciale, fase fredda che ha interessato più direttamente il XVIII e XIX secolo toccando il proprio apice nel freddissimo 1816, il famoso anno senza estate, le temperature globali hanno ripreso a salire (“grazie a Dio”, perché fare agricoltura prima che la “perfida azione dell’uomo” iniziasse ad alterare il clima era assai più proibitivo rispetto ad oggi).

Circa l’andamento delle temperature globali al suolo, secondo il dataset internazionale Hadcrut4 per il periodo 1850-2015 (CRU di East Anglia University e Hadley Center) ad una fase di aumento che ha avuto il proprio apice nel 1878 (+0.5°C rispetto al 1850) ha fatto seguito una fase di decremento con minimo nel 1911 (-0.2°C rispetto al 1850). Al un nuovo incremento fino al 1945 (che si è collocato a +0.5°C rispetto al 1850) è seguita una diminuzione protrattasi fino al 1976 (anno che a livello globale si colloca a soli +0.1°C rispetto al 1850). Dal 1977 al 1998 le temperature globali sono di nuovo aumentate portandosi nel 1998 a +0.85°C rispetto al 1850. Dal 1998 ad oggi infine si è osservato un lieve aumento residuo che tuttavia non trova conferma nei dati da satellite MSU relativi alla bassa troposfera e che indicano la sostanziale stazionarietà delle temperature globali dopo il 1998.

Occorre evidenziare che la salita delle temperature fino ai valori odierni è stata tutt’altro che continua, nel senso che a un trend di incremento pari a +0.85°C dal 1850 ad oggi si è costantemente sovrapposta una ciclicità sessantennale che ha mostrato minimi negli anni 1850, 1910, 1977 e massimi negli anni 1878, 1945 e 1998. Inoltre si è assistito ad una accentuata variabilità interannuale con la rapida alternanza di annate più calde e più fredde.

Oggi sappiamo che la ciclicità sessantennale è imposta da una ciclicità delle temperature marine che per il Nord Atlantico è espressa dall’indice AMO, fenomeno del tutto naturale e la cui presenza è dimostrata per lo meno per gli ultimi 8000 anni (Knudsen et al 2011). La grande variabilità interannuale è anch’essa un fenomeno del tutto naturale e che deriva dall’alternarsi di regimi circolatori diversi. La sua presenza anche remota ci è mostrata ad esempio dalla serie storica delle date di vendemmia in Borgogna dal 1370 ad oggi (Labbé e Gaveau, 2013).

Sul trend di +0.85°C non possiamo invece escludere l’influenza umana legata all’emissione di gas serra di origine antropica (anidride carbonica, metano, protossido d’azoto) cui si sovrappongono fenomeni naturali come l’attività solare. In tal senso Ziskin & Shaviv (2012), applicando un Energy Balance Model, hanno stimato che il 60% del trend crescente delle temperature osservato nel XX secolo è di origine antropica ed il 40% e di origine solare.

Lo studio del paleoclima ci indica che l’olocene è stato interessato da episodi caldi (gli optimum postglaciali) fra cui rammentiamo il grande optimum postglaciale, l’optimum miceneo, l’optimum romano, l’optimum medioevale e la fase di riscaldamento attuale. A tali fasi si sono alternate fasi di “deterioramento” segnate da cali termici ed avanzate glaciali. Per inciso l’uso di “optimum” e “deterioramento” non è affatto casuale e gli optimum erano così chiamati i quanto la vita era più facile, la mortalità più ridotta e le fonti di cibo ed energia più abbondanti. Lo stesso fondatore della teoria dell’Anthropogenic Global Warming (AGW), Svante Arrenius, vedeva nel riscaldamento globale da CO2 uno fenomeno positivo poiché in grado di rendere più vivibili e meglio fruibili per l’uomo i gelidi areali nordeuropei, sogno questo che si starebbe oggi avverando.

Anidride carbonica

Secondi i dati rilevati a Mauna Loa (NOAA, 2015) i livelli atmosferici di CO2 sono passati da 315 ppmv del 1958 alle 400 odierne con un incremento medio di 1.5 ppmv/anno. Tale incremento è soggetto ad una sensibile ciclicità stagionale per effetto della quale la CO2 cala di circa 6 ppmv ogni anno in coincidenza dell’estate boreale per poi risalire all’avvicinarsi del’inverno boreale. Tale fenomeno è sintomo dell’efficacia della vegetazione spontanea e coltivata nell’incamerare CO2 trasformandola in biomassa.

L’anidride carbonica è il principale gas serra emesso dall’uomo e tramite il processo di fotosintesi è il mattone più essenziale della vita sul nostro pianeta. In proposito invito tutti alla seguente riflessione: I 70 grammi di pasta di cui a pranzo si nutre un consumatore medio italiano contengono 70 * 44/30 = 103 g di CO2. Insomma: niente CO2 niente pappa. La succitata serie di Mauna Loa mostra inoltre un sensibile variabilità stagionale con massimo invernale e minimo estivo di 6-7 ppmv più basso del massimo invernale precedente. Ciò mostra la grande efficacia delle piante spontanee e coltivate nell’assorbire CO2 atmosferica trasformandola in biomassa vegetale.

Sarebbe auspicabile dunque interrompere il “lavaggio del cervello” in nome del quale la CO2 viene indicata come un veleno in quanto ciò è anzitutto contrario alla verità. In proposito penso che se non si coglie l’essenza dell’anidride carbonica non si potrà mai pensare di regolarne i livelli atmosferici.

Produzione di cibo

Grazie alle innovazioni tecnologiche introdotte in agricoltura nei settori della genetica e delle tecniche colturali, cui si sono associate la mitezza del clima a valle della piccola era glaciale ed i crescenti livelli di CO2, le produzioni delle culture che nutrono il mondo (mais, riso, frumento, soia) sono aumentate in termini prima impensabili, quintuplicandosi o sestuplicandosi negli ultimi 100 anni. Tale fenomeno è tuttora in corso come mostrano le statistiche FAO che indicano aumenti produttivi annui del 6.5% per il mais, del 5.1% per il riso, del 4.2% per il frumento e del 2.5% per la soia. Peraltro il sensibile incremento delle rese ettariali delle principali colture agrarie cui assistiamo da oltre un secolo ha ridotto la percentuale di esseri umani che sono al disotto della soglia di sicurezza alimentare (dal 50% della popolazione mondiale nel 1945 all’11% della stessa nel 2013, secondo dati FAO).

Al riguardo si sottolinea che:

  1. Un “clima impazzito” non potrebbe in alcun modo giustificare incrementi produttivi tanto lusinghieri
  2. Se il riportare con una bacchetta magica la CO2 ai livelli per-industriali è per molti di noi un sogno, per chi scrive è un vero incubo in quanto la produzione annua delle colture agrarie calerebbe grossomodo del 30% (Araus, 2003; Sage, 1995; Sage & Coleman, 2001), dando luogo una catastrofe alimentare senza precedenti.

Global greening

Il fenomeno è anch’esso effetto degli accresciuti livelli atmosferici di CO2, in virtù dei quali non solo le piante crescono di più ma sono anche meno esposte al rischio di siccità in quanto, trovando più facilmente la CO2 nell’atmosfera, possono permettersi si produrre meno stomi limitando così le perdite idriche. Il global greening sta oggi facendo arretrare i deserti in tutto il mondo come ci dimostrano in modo inoppugnabile le immagini satellitari (Hermann et al., 2005; Helldén e Tottrup, 2008; Sitch et al. 2015).

Ghiacciai artici e antartici

Secondo questo database (The Cryosphere Today) le superfici glaciali artiche e antartiche stanno comportandosi in modo diversificato. Se facciamo riferimento alle superfici glaciali marine l’Artide mostra un calo generalizzato dal 1997 al 2007, anno dopo il quale si assiste ad una relativa stabilizzazione. L’Antartide invece ha manifestato una graduale espansione a partire dagli anni ‘90 ed il guadagno in volume di ghiaccio oggi eccede le perdite (Zwally H.J. etal, 2015). Nello specifico i dati ICESat 2003–08 mostrano guadagni in massa annui di 82 ± 25 Gt che riducono l’aumento del livello del mare di 0.23 mm per anno mentre i dati dell’European Remote-sensing Satellite (ERS) 1992–2001 indicano un guadagno annuo simile (+112 ± 61 Gt).

Spingendosi indietro nel tempo si deve segnalare che i sondaggi eseguiti sulla calotta glaciale groenlandese dalla NASA mostrano che la massa glaciale groenlandese proviene in gran parte dall’olocene o dalla fase glaciale di Wurm, mentre pochissimo proviene dall’interglaciale precedente e nulla è più antico (Mc Gregor et al., 2015). A ciò si aggiunga che sulla scogliera di Orosei è presente un battente di 125mila anni orsono che è di 8 metri al di sopra del livello marino attuale e che dimostra come le calotte glaciali fossero a quel tempo in gran parte fuse (Antonioli e Silenzi, 2007).

 

Tutto ciò dimostra la potenza degli interglaciali precedenti al nostro nello sciogliere le calotte glaciali e ci spinge a domandarci quale fosse la causa che ha dato luogo a così imponenti processi di fusione delle calotte polari in assenza delle emissioni di CO2 umane. Una domanda che per ora resta senza risposta e che costituisce una delle più palesi eccezioni alla teoria dell’Anthropogenic Global Warming (AGW).

Ghiacciai montani

Tali ghiacciai sono con poche eccezioni in arretramento come risulta dal catasto globale del World glacier monitoring service. Tale fenomeno è evidente anche per quanto riguarda i ghiacciai alpini.

Eventi termici estremi

Alle medie latitudini dell’emisfero Nord gli eventi termici estremi sono stazionari nel periodo 1979-2012 (Screen & Simmonds, 2014). Le analisi condotte sulla serie storica delle temperature di Milano Brera indicano invece un aumento delle ondate di caldo sull’Europa dopo il 1987 (Mariani, 2015).

Eventi pluviometrici estremi

Qui le cose sono assai meno chiare anche per la progressiva riduzione della qualità delle serie storiche di dati. Un esempio lampante in tal senso è offerto dal Sahel, area sub sahariana con superficie di 24.3 milioni di km2 (oltre 70 volte l’Italia) e ove nel 2003, anno in cui Dai et al. scrissero per l’International Journal of Climatology un articolo scientifico dedicato alla siccità in quell’area del mondo, risultavano operative solo 35 stazioni pluviometriche contro le 102 del 1991 e le 188 del 1971. In proposito si noti che con i dati di sole 35 stazioni è difficile descrivere la pluviometria di una delle regioni italiane, altro che quella del Sahel. Questo per inciso la dice lunga anche sull’attenzione che la comunità internazionale sta in realtà dedicando a tali problemi.

Tornando però a discorrere di piogge estreme, le evidenze osservative indicano che nella maggior parte delle aree mondiali non vi sono segnali di incremento nell’intensità degli eventi estremi. In proposito una ricerca pubblicata sul Journal of Climate nel 2013 a firma di Westra e altri ricercatori ha verificato le tendenze delle precipitazioni massime annue di un giorno per il periodo dal 1900 al 2009 (110 anni in tutto). Il lavoro è stato riferito ad un totale di 8326 stazioni terrestri che i ricercatori hanno ritenuto di “alta qualità” ed ha portato a concludere che il 2% delle stazioni mostra un decremento nelle piogge estreme, l’8% un incremento e il 90% non presenta alcuna tendenza significativa.

Si segnala inoltre che:

  1. I già citati Screen & Simmonds ( 2014) i quali lavorando su un dataset di rianalisi relativo alle medie latitudini dell’emisfero Nord hanno evidenziato la sostanziale stazionarietà degli eventi pluviometrici e termici estremi nel periodo 1979-2012
  2. Mariani e Parisi (2013), analizzando un vasto dataset di dati pluviometrici giornalieri per stazioni dell’area euro-mediterranea per il periodo 1973-2010 ed utilizzando lo schema di analisi proposto da Alpert et al. (2002) hanno evidenziato l’infondatezza dell’aumento parossistico delle piogge estreme giornaliere affermato dagli stessi Alpert et al. in un lavoro del 2002
  3. Fatichi e Caporali (2009), lavorando sulle serie storiche di precipitazione di 785 stazioni della Toscana per il periodo 1916-2003, hanno posto in evidenza l’assenza di trend nel regime precipitativo medio e nell’intensità degli eventi estremi di 3,6 e 12 h in pressoché tutte le stazioni analizzate
  4. Pinna (2014) analizza le piogge estreme per l’area mediterranea e per la Toscana evidenziando l‘assenza di trend rilevanti riferibili agli eventi pluviometrici estremi.

Eventi alluvionali

Diversi studi paleoclimatici evidenziano che la frequenza degli eventi alluvionali in Europa è stata sensibilmente più bassa durante le fasi calde (es: optimum romano, optimum medioevale) che durante quelle fredde (es: piccola era glaciale) (Wirt et al., 2013). Istruttiva può essere inoltre l’analisi del numero delle grandi alluvioni del Po (8 eventi noti nel XVIII secolo, 20 eventi nel XIX, 18 nel XX e 2 finora nel XXI).

Cicloni tropicali

Uno studio sull’energia liberata dal cicloni tropicali pubblicato da Maue (2011) mostra che tale energia (e dunque l’intensità dei cicloni tropicali stessi), dopo aver raggiunto un picco negli anni ’90, ha manifestato un graduale calo e si colloca ora su valori inferiori a quelli del 1970.

Mortalità da eventi termici estremi

A livello globale la mortalità nella popolazione da eventi termici estremi è nettamente più spiccata per il freddo che per il caldo. Uno studio a livello globale condotto da Gasparrini et al. (2015) e pubblicato su Lancet giunge alla seguente conclusione: ”La maggior parte del carico di mortalità globale correlato alla temperatura è riconducibile al contributo di freddo. Questo dato di fatto ha importanti implicazioni per la progettazione di interventi di sanità pubblica volti a ridurre al minimo le conseguenze sulla salute di temperature negative, e per le previsioni di effetti futuri degli scenari del cambiamento climatico”.

In sostanza l’aumento delle temperature globali si sta traducendo in una diminuzione della mortalità da eventi termici estremi che è evidenziata per l’Europa (Healy, 2003) e per gli USA. Ciò non toglie che non si debba prestare attenzione ad evitare la mortalità da caldo, ad esempio con il condizionamento dei locali o con interventi di mitigazione dell’isola di calore urbano nelle grandi città.

Mortalità da disastri naturali

La Federazione Internazionale delle Croci Rosse e Mezzalune Rosse (http://www.ifrc.org/) ha pubblicato l’edizione 2015 del proprio “World disasters report”, che riporta dati su disastri naturali e tecnologici per il decennio 2005-2014 e che è consultabile a questo indirizzo.

Dal report risulta che il 2014 con un totale di 518 disastri naturali contro una media decennale di 631 è stato l’anno con il numero minimo di disastri di tutta la serie considerata e che minimo è risultato anche il numero dei morti (13847 contro una media di 83934). Il natural disaster database (http://www.emdat.be/) mostra dati analoghi con numero di disastri naturali in rapido calo dopo un picco toccato nel 2000 ed il numero di morti che, seppur con grande variabilità da un anno all’altro presenta un trend generale improntato al calo.

Livello degli oceani

Su questo sito sono riportati i dati CSIRO (serie da boe 1870-2000) e NASA (serie satellitari 1993-2015). Si osserva che dal 1870 al 2000 il livello è salito di 20 cm il che corrisponde ad un incremento di 1.5 mm/anno. I dati da satellite indicano invece che dal 1993 al 2015 l’aumento totale è stato di 8 cm, il che corrisponde ad un incremento di 3.24 mm/anno.

Acidificazione degli oceani

Le superfici marine avevano pH di 8.2 / 8.3 nel pre-industriale mentre oggi l’acidità è calata a 8.1 e dovrebbe portarsi a 7.7 / 7.9 nel 2100). I livelli di certezza riguardanti la risposta degli ecosistemi marini al calo del pH sono più bassi. A tale proposito occorre citare il lavoro di Georgiou et al. (2015) il quale con un esperimento di arricchimento in CO2 dell’oceano in cui ha dimostrato la capacità dei coralli di garantire l’omeostasi in termini di pH durante la calcificazione il che implica un elevato grado di resilienza rispetto all’acidificazione degli oceani. Peraltro gli autori scrivono che tale fenomeno non era stato fin qui posto in evidenza perché si era operato solo in ambienti di laboratorio senza mai eseguire verifiche sperimentali in “campo aperto”.

Priorità e conclusioni

L’elenco sopra riportato ci porta ad una visione chiaroscurale in cui le luci sono in complesso più delle ombre. Tuttavia aldilà di come uno voglia leggere i dati qui presentati ci preme evidenziare che sarebbe auspicabile per tutti utilizzare al meglio quel ben di Dio che è costituito dalla CO2 atmosferica. Occorrerebbe provare ad immaginare un futuro veramente verde in cui un’agricoltura resa molto più produttiva grazie alle innovazioni nella genetica (OGM inclusi) e nelle agrotecniche possa divenire la fonte principale di sostanza organica per l’industria energetica, delle materie plastiche, ecc..

E’ inoltre cruciale:

  1. Privilegiare azioni di adattamento al cambiamento climatico le quali si stanno rivelando molto efficaci come mostra ad esempio la diminuzione delle vittime da disastri naturali e l’aumento della vita media a livello globale
  2. Tornare ad investire in modo coordinato e standardizzato in sistemi di monitoraggio meteorologico su cui oggi si sta investendo poco e male.

BIBLIOGRAFIA

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