La buona diagnosi contro l’eugenetica

neonatoIl Foglio, 22 maggio 2008

Un gruppo di neonatologi e psichiatri lancia un appello per liberare la “scelta della donna” dall’incubo della perfezione. Sicard denunciò la pratica della selezione che “tende alla soppressione e non alla cura”

di Nicoletta Tiliacos

Roma. “La pratica della diagnosi prenatale tende alla soppressione e non alla cura”, così facendo cromosomi e geni, che custodiscono il segreto e l’unicità della persona umana, sono sempre più considerati “agenti patogeni infettivi che la medicina deve sradicare”.

Questa non è buona medicina, ma “una ideologia resa possibile dalla tecnica” e “una politica sanitaria che flirta ogni giorno di più con l’eugenetica”.

A lanciare la denuncia fu nel 2007 Didier Sicard, presidente del Comitato di bioetica francese, autore del più importante manifesto contro la strisciante eugenetica praticata per mezzo della selezione prenatale.

In Spagna dal 1992 si esegue sistematicamente l’eliminazione degli embrioni portatori di emofilia nei trattamenti di fecondazione artificiale in vitro.

In Inghilterra è possibile con la diagnosi preimpianto eliminare embrioni che hanno la predisposizione ad ammalarsi di cancro al seno o alle ovaie, da adulti. Dal tema della diagnosi prenatale, che da strumento di cura diventa alibi per l’estinzione del non nato, passa l’intera battaglia contro l’eugenetica e l’aborto selettivo al centro della moratoria. Nel 2006 anche la rivista Nature analizzò a lungo lo spettro di questa “neo-eugenetica”.

Ora Carlo Bellieni, uno dei più importanti neonatologi italiani, chiede di salvare la buona diagnostica e combattere la selezione della specie. Un appello per un “accesso consapevole alla diagnosi genetica prenatale” è stato promosso da Bellieni e da un gruppo di neonatologi, ginecologi, psichiatri, bioeticisti e rappresentanti di associazioni di disabili, “preoccupati per le conseguenze che l’impiego diffuso ed indiscriminato di questa pratica può avere sia a breve che a lungo termine nella popolazione”.

I destinatari dell’appello, spiega al Foglio Bellieni, “sono operatori e comitati etici. Troppo spesso, infatti, la diagnosi genetica prenatale viene proposta/imposta in modo routinario, e troppo spesso la donna viene lasciata sola a decidere, con una diagnosi di malattia del figlio in arrivo, che cosa fare di lui. Ma negli Stati Uniti, dove la pratica prevede la piena informazione, il colloquio con lo specialista della malattia diagnosticata, l’analisi delle prospettive terapeutiche, si è visto che crolla il ricorso all’aborto”.

“Bambini persi in seguito alla procedura”

Un appello non contro la diagnosi genetica prenatale, dunque, ma per il suo buon uso, dal quale escludere ogni ombra eugenetica. Le procedure diagnostiche genetiche prenatali (amniocentesi e villocentesi) non sono affatto esenti da rischi.

I ginecologi canadesi parlano di un aborto non voluto ogni duecento procedure, il Royal College of Obstetrics and Gynecology di uno ogni cento: in ogni caso, “considerando che in Italia si eseguono circa centomila amniocentesi ogni anno e che la maggior parte dei feti sottoposti a indagine prenatale risulta sana, appare sconcertante l’elevato numero di bambini (probabilmente sani) persi in seguito alla procedura”.

Vari studi, inoltre “dimostrano che le donne che si sottopongono a diagnosi genetica prenatale (sia nella forma invasiva che in quella di screening con ecografie mirate o integrate con analisi del sangue materno) raramente hanno piena consapevolezza dei limiti, dei rischi, delle modalità di esecuzione e degli scopi degli screening”.

L’appello chiede allora di valutare i diversi screening prenatali “alla luce dei possibili rischi e benefici per entrambi i soggetti (madre e bambino/a)”, e di farli precedere “da una dettagliata informazione su limiti, rischi, implicazioni e possibilità terapeutiche nell’ambito di una adeguata consulenza pre diagnostica, affinché la donna possa compiere una scelta informata e autenticamente consapevole, conservando la piena libertà di accettare o rifiutare lo screening o il test.

Mai devono essere usati termini generici (‘piccolo’, ‘trascurabile’, ‘grande’) quando si spiega il tasso di rischio, ma vanno forniti dati numerici, nonché il significato di tali dati”.

Fra i firmatari troviamo i bioeticisti Gabriella Gambino e Claudia Navarini, Paolo Arosio, neonatologo e presidente dell’associazione “Amici di Giovanni”, Luigi Vittorio Berliri, presidente dell’associazione “Spes contra Spem”, Loris Brunetta, presidente dell’associazione ligure talassemici, Sabrina Paluzzi, presidente dell’associazione “La Quercia Millenaria” e Claudia Ravaldi, psichiatra e presidente dell’associazione “Ciao Lapo”.

I promotori dell’appello spiegano che la richiesta di integrare sistematicamente la diagnostica prenatale con una “fase pre diagnostica e una post diagnostica si basa sulla constatazione che la diagnosi genetica prenatale non è eticamente neutra”, perché comporta una scelta, “e le scelte richiedono una reale conoscenza dei dati e implicano una responsabilità”.

I firmatari del documento chiedono inoltre che in caso di riscontro di una patologia, la diagnosi prenatale non sia da considerarsi terminata (salvo esplicito diniego da parte della donna) senza il coinvolgimento di uno specialista della patologia riscontrata, la consulenza post diagnostica suggerita anche dal Journal of the American Medical Association.

Una specialista in grado di fornire informazioni sulla patologia, sulla possibilità di un percorso terapeutico e su “possibili agevolazioni socio-economiche in grado di assistere la famiglia, e senza informare sulla possibilità di partorire in anonimato e dare il figlio in adozione”.

L’autonomia delle donne nelle decisioni sulla loro gravidanza può essere seriamente compromessa da un uso routinario della diagnosi, che i firmatari chiamano “non scelta”, della diagnosi genetica prenatale, che spesso proviene da una pressione sociale per non far mettere al mondo figli con anomalie genetiche. “Occorre garantire nei fatti la libertà nella scelta”.

“Una diagnosi medica non dovrebbe mai diventare una sentenza di morte” ha detto Fernando Pascual, docente di filosofia presso l’Ateneo pontificio Regina Apostolorum di Roma. Stiamo assistendo alla giustificazione della selezione sulla base addirittura di anomalie dentarie del concepito.Lo stesso Bellieni a un convegno della Pontificia accademia Pro vita ha detto che la diagnostica pone un altro problema: “Qual è il sentire dei bambini nati nell’attuale stato di possibilità selettiva prenatale?”. C’è chi parla dell’attuale come una “generazione di sopravvissuti”.

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