Il tatuaggio nella cultura contemporanea

tatuaggiLa Civiltà Cattolica n.3968 24 ottobre 2015

Francesco Occhetta S I.

Tatuarsi è una moda ormai diffusa nelle società occidentali: in Italia i tatuati sono 7 milioni (13 italiani su 100). Soprattutto nei mesi estivi, vedere persone di ogni età che hanno scelto di inscrivere sulla schiena, sui tricipiti e sulle gambe cuori, draghi, putti, nomi o segni tribali ci induce a riflettere sulla volontà di modificarsi e su quale idea di corpo attraversi la cultura contemporanea. Sembra un paradosso, ma è proprio nel tempo della fragilità dei comportamenti e della liquidità degli ideali, in cui ogni scelta sembra assunta «a tempo», che il tatuaggio si impone come la traccia di una «identità dilatata» e il simbolo del «per sempre».

I giovani, in genere, si tatuano per emulare i loro cantanti o giocatori preferiti; gli adulti scelgono di inscrivere sulla propria pelle gli eventi più importanti della vita: la nascita di un figlio, un lutto, la fine di un amore, la crisi con un amico, trasformando il corpo nel diario della loro vita. Altri ancora si tatuano per incidere sulla pelle una dimensione interiore che li interpella. Tutti, però, consciamente o inconsciamente, «fermano» il tempo e, come un ponte, lanciano un messaggio al mondo relazionale che li circonda.

L’idea classica di «bellezza nuda», contemplata nelle sue forme e proporzioni naturali, lascia il posto ai disegni di corpi ritoccati in cui la ferita è considerata una forma d’arte. Cambia lo sguardo sul corpo stesso: se il Davide di Michelangelo, le tre Grazie del Canova, o qualsiasi altra forma di corpo rappresentata classicamente, li si contempla attraverso l’armonia dell’insieme, un corpo tatuato lo si guarda a partire dal particolare che disvela l’insieme. Questa moda sociale che, consciamente o inconsciamente, modifica il corpo attraverso il tatuaggio pone una domanda radicale sui limiti all’intervenire e sul rapporto tra il corpo naturale e l’identità soggettiva.

Il fuoco sulla pelle

Il termine «tatuaggio» entra in Europa con l’esploratore James Cook. Nel 1769 questi lascia scritta nei suoi diari la parola in inglese tattoo per riprodurre il suono onomatopeico «tau-tau» dello stru­mento utilizzato per battere l’ago sulle carni; «tatuaggio», invece, tradurrà il termine francese tatouage. Sono gli esploratori europei del Settecento a importare il tatuaggio in Europa da terre lontane come l’Asia, in particolare dal Giappone, dal Tibet, dall’India e della Nuova Zelanda.

Alcuni antropologi considerano i tatuaggi come un ponte di collegamento con culture lontane; per altri, essi sono una forma di esorcismo sul male e sulla morte; altri ancora li considerano un linguaggio che sostituisce la parola. Ma tutte queste definizioni sono eurocentriche e nascono a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando la parola che contesta (la politica, il conformismo, la cultura dei consumi) lascia lo spazio alla modificazione e alla mutilazione del corpo per esprimere dolore, disagio e nuove forme di identità. «Le decorazioni, le ferite simboliche della carne enunciano i desideri, i dolori e quell’insieme di stati sensoriali che vanno a definire una persona. La carnalità, la fisicità diventano un rifugio e un campo di battaglia. Il corpo si configura come l’unica proprietà di cui si dispone a piacimento» (1).

E’ la cultura del post-umanesimo, nata alla fine degli anni Ottanta, a tenere a battesimo l’uomo tatuato, quando l’identità viene pensata come qualcosa di performativo. «L’individuo si posiziona entro uno specchio di possibilità che vengono “drammatizzate”, interpretate in maniera soggettiva. Nulla è ascritto al corpo in maniera definitiva» (2). Il tatuaggio è tra le conseguenze di una cultura post-umana che legittima a «scegliere il proprio percorso identitario, fare le proprie opzioni di genere scardinando la realtà così come siamo abituati a pensarla» (3).

È l’identità che si fonda così su qualcosa di materiale, su azioni che si incidono nel corpo e sulla volontà di manipolarlo. È l’epoca della post-bellezza, definita come «l’estetica del simulacro, dove per essere non basta apparire, ma occorre apparire in un certo modo, quello indotto da modelli che comunque sono in continuo cambiamento, in una sorta di coercizione alla liquidità» (4).

Krystyne Kolorful, la prima donna a vincere il Guinness dei primati per essersi tatuata dal collo alla punta delle dita dei piedi — spendendo circa 15.000 dollari —, e Rick Genest, il modello canadese conosciuto anche come Zombie boy, esemplificano un dato: indietro non si può tornare.

Il fine del tatuaggio di moda, quello che è in auge in questi ultimi 20 anni, non è più l’esperienza esotica o la protesta radicale verso il mondo, ma anzitutto il desiderio di decorarsi. Non è più in discussione la ribellione, ma la volontà di uscire da una normalità banale e monotona. Per questa nuova cultura è stata decisiva l’antropologia della body modification, che, agli inizi degli anni Novanta, promuoveva la modificazione del corpo con l’obiettivo di esibire «corpi altri» per suscitare la repulsione di chi li osserva.

E’ in questo periodo che «la sfera individuale e quella pubblica del corpo si intersecano, ridefinendo ruoli sociali e ruoli di genere» (5), in cui si accentua la vittimizzazione delle «carni femminili» e una visione spirituale del mondo annichilita sul tempo presente.

E’ vero, l’urlo di protesta che rappresentavano i tatuaggi del Novecento si è trasformato in decorazioni da esibire, al punto che essi ormai sono beni di consumo da paragonare a molti altri. Ma è proprio questo svuotamento di senso a portare le persone che si tatuano a decidersi, «perché così fanno tutti». Anche il New York Times ne ha sottolineato la mediocrità: «La gente adotta trasgressioni accettabili — come i tatuaggi — per mostrare che sono persone nervose, ma che rimangono entro i confini della classe media» (6).

Tutto è delimitato dai confini della propria biografia personale: sono i momenti felici e tristi che portano a tatuarsi. Ma nulla di più: è il soggettivismo anti-comunitario a prevalere nella cultura contemporanea del tatuaggio.

Ogni disegno porta con sé un significato, come per esempio le rondini, che rappresentano la voglia di evadere, oppure il tatuaggio marinaro, con cui si esorcizza la paura della morte durante la navigazione. Si riproducono teschi, demoni o simboli legati al lato oscuro dell’esistenza; oppure serpenti, pantere, leoni, che rimandano alla trasgressione e alla forza; oppure farfalle, fiori di loto, pavoni, per far risaltare l’intreccio tra i colori. Ci sono tatuaggi che rimandano all’immaginario esotico: samurai, geishe, mostri mitologici.

Ma c’è di più: ci sono gruppi che utilizzano i tatuaggi come segni distintivi per caratterizzare la loro identità sociale. Il mondo dark li utilizza per rappresentare una visione del mondo oscura e dura. Spesso, oltre a farsi fare tatuaggi figurativi, i seguaci dei gruppi dark si tatuano il labbro inferiore con parole ad effetto, come Hate (odio) o parole volgari.

Tra le sottoculture underground, i tatuaggi degli skinheads sono i più violenti e ributtanti. Gli adepti di questo movimento, nato negli anni Settanta, oltre alla ragnatela tatuata sul gomito, scelgono segni fascisti, forme di croci di ferro blasfeme, disegni raffiguranti la tradizione guerriera nordica, come quelli dei vichinghi o dei germanici, le iniziali di Adolf Hitler (AH), oppure il tatuaggio dell’elmo troiano.

Vi sono poi i tifosi ultras delle squadre di calcio, che imprimono sulla pelle il simbolo della propria squadra, oppure gli scudetti vinti. Per loro il tatuaggio diventa una sorta di marchio di affiliazione alla società sportiva e la città. Gli apripista sono stati, a metà degli anni Ottanta, gli hooligans.

Sebbene ciò sia poco noto, anche i pellegrini avevano l’abitudine di tatuarsi; i più famosi rimangono quelli che raggiungevano il santuario di Loreto. La tecnica — per raffigurare sul proprio corpo il volto di Cristo, Maria o santi come Francesco e Antonio — era particolarmente dolorosa: il tatuaggio veniva impresso in due fasi: «prima veniva disegnato sulla pelle il disegno, solitamente con stampi in legno ricoperti di polvere di carbone. Successivamente, lungo le linee lasciate dallo stampo si eseguiva il tatuaggio vero e proprio, tramite un supporto in legno con all’estremità due o tre piccoli aghi che permettevano al residuo di carbone di penetrare nella pelle» (7).

Il tatuaggio nella storia

Per gli studiosi del tatuaggio, è impossibile dare una risposta univoca sul perché le persone si tatuino. In realtà, per comprendere la complessità del tatuaggio, bisogna risalire alla notte dei tempi. La Bibbia ne parla e lo vieta nel libro del Levitico: «Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore» (Lv 19,28). Per l’antropologia biblica, il corpo è un dono di Dio da custodire. Anche nella Grecia classica e nell’Impero romano il tatuaggio è stato tollerato, ma mai approvato.

Nelle culture giudaico-cristiana e greco-romana si marchiavano le persone che sbagliavano, a iniziare da Caino. Si bollavano i nemici e gli schiavi che fuggivano. Si racconta che, quando Cesare e la sua legione in Britannia videro per la prima volta uomini tatuati, si spaventarono. Per lo storico Tacito, davanti a un corpo tatuato, «per primi sono sconfitti gli occhi».

Invece, in altri luoghi, come in Egitto, Persia, in molte parti dell’Asia e della Nuova Zelanda, il tatuaggio è stato per secoli un connotato sociale. Si marchiava il corpo per riconoscere le grandi imprese vissute o lo stato sociale di appartenenza. L’etnia dei maori si tatuava addirittura il viso con profondi solchi, attraverso il cosiddetto moko.

Il tatuaggio giapponese è forse quello più studiato, ed esprime il maggiore fascino. Nasce nel III secolo d.C. tra le classi più povere. I soggetti preferiti sono i draghi, i volti umani e temi di racconti popolari. Tra questi si trova la carpa gialla, soggetto molto diffuso, a indicare la persona che, come una carpa, è capace di risalire il fiume (Huang Ho) della vita per trasformarsi in un drago

La cultura occidentale — eccetto Darwin e pochi altri — ha sempre espresso riserve davanti a questo fenomeno. La punta più critica è rappresentata dalla tesi di Lombroso, espressa nella rivista Archivio di Psichiatria, secondo la quale il tatuaggio rispecchia l’i­dentità di chi lo porta, un tipico segno di una personalità criminale. E stato così per decenni.

Lungo la storia dell’Occidente il tatuaggio è stato anzitutto con­siderato come un marchio infamante, il distintivo delle classi più basse, come i marinai, i circensi, i carcerati e le prostitute. La pelle dei naviganti diventava la carta delle loro rotte, insieme all’àncora e alla rosa dei venti, che fissavano sulla carne la direzione delle rotte.

Nei circhi, i primi uomini interamente tatuati sono stati gli schiavi portati dalle isole del Pacifico. Tuttavia, l’esibizione dei tatuaggi era tra i numeri più richiesti dal pubblico. Tra le donne, è ricordata Nora Hildendrant, interamente tatuata dal padre, Martin, mentre gli studiosi citano tra i pionieri Horance Ridler, l’uomo zebrato.

Uno studio a parte meriterebbero i tatuaggi dei carcerati, che nella storia utilizzavano il corpo per raccontare il proprio sogno di libertà. I tatuaggi più diffusi nelle carceri italiane riguardavano i temi religiosi — considerati come scaramantici — e quelli della vendetta. Il tatuaggio è definito dai camorristi «devozione». E nel carcere che la camorra ha creato tatuaggi di graduazione (per i giovanotti onorati, i picciotti o i camorristi) o tatuaggi professionali: la borsetta indicava il reato di borseggio, il rasoio uno sfregio, un asso di bastoni il boss che controllava il territorio. Il tatuaggio fatto nelle carceri in Russia scandiva le tappe della prigionia; quelli eseguiti in Francia raffiguravano, in genere, soggetti antireligiosi8. Insomma, il tatuaggio nel carcere rappresenta un plus di sofferenza.

La salute

Il Consiglio superiore della Sanità, nelle Linee guida per tatuarsi, del 1998, definisce il tatuaggio come «la colorazione permanente di parti del corpo mediante l’introduzione sottocutanea e intradermica di pigmenti con l’ausilio di aghi, oppure con tecnica di scarificazione, al fine di formare disegni o figure indelebili e perenni» (9). Il tatuaggio non può essere superficialmente confuso con un makeup (il trucco), perché la pelle viene bruciata in modo irreversibile. Va però aggiunto che per una piccola percentuale il tatuaggio ha finalità mediche (0,5%) o estetiche (3%); è tecnicamente definito «trucco permanente», perché serve per alleviare psicologicamente le ferite sul corpo lasciate dalle operazioni chirurgiche.

Certo, da quando Samuel O’Reilly ha inventato, verso la fine dell’Ottocento, la macchina elettrica per eseguire i tatuaggi, la situazione igienico-sanitaria è migliorata, ma sono ancora troppe le conseguenze — tra cui le infezioni — che i tatuaggi veicolano (10). Gli errori fatti nell’esecuzione del tatuaggio non possono essere corretti, mentre l’eccessiva proliferazione di studi e di laboratori, ormai sparsi capillarmente in tutto il Paese, sta diffondendo la commercializzazione, mentre mette a rischio la qualità igienica e stilistica del tatuaggio.

Il 3,3% delle persone che si tatuano hanno avuto complicanze o reazioni: dolore, granulomi, ispessimento della pelle, reazioni allergiche, infezioni e pus. Ma il dato appare sottostimato (11). Il 17% dei tatuati ha dichiarato di essere pentito, e oltre il 4% si è già sottoposto a trattamenti per cancellare il disegno (12). Il ministero della Salute recentemente ha vietato alcuni pigmenti sintetici (in particolare il nero e il rosso) a causa delle contaminazioni che recano; i colori naturali invece hanno un’azione autosterilizzante. Il 18% delle sostanze usate per marchiare la pelle è contaminato da microbi o funghi.

Per tatuarsi interamente la schiena o le gambe — per i più «coraggiosi», la lingua o gli occhi —, occorre avere una resistenza al dolore molto alta. Quando il movimento della macchinetta permette agli aghi di entrare nella pelle depositando il pigmento, si devono sopportare scosse che possono durare ore.

Circa 12.000 italiani ogni anno cercano di cancellarsi il tatuaggio ricorrendo alla medicina estetica, con risultati deludenti, perché rimane l’ombra. La rimozione di un tatuaggio è possibile solamente attraverso l’uso del laser Q-switched, che emette quantità molto elevate di energia luminosa in frazioni di tempo infinitamente piccole, per frammentare le particelle d’inchiostro. Il tatuaggio inizia a schiarirsi circa 1 settimana dopo la prima seduta, ma, per rimuoverlo, sono necessarie dalle 4 alle 10 sedute (13).

Conclusioni

L’evoluzione del tatuaggio di questi ultimi anni racconta davvero la storia di una nuova libertà antropologica, in cui si intrecciano la vita personale e quella sociale? A quali conseguenze personali e sociali porterà la scelta di imporre il tatuaggio come consumo? E questa la nuova emancipazione in cui, sulla carne nuda, si registrano le nuove battaglie dell’esistenza (14)? La pelle diventa una lavagna indelebile di un malessere (spirituale)? Si cambia il proprio corpo perché non si riesce a cambiare l’ambiente circostante? Sono, queste, alcune domande le cui risposte rimangono latenti nella cultura contemporanea.

Di certo il corpo tatuato è diventato un confine e un crocevia tra le dimensioni dell’interiorità e dell’esteriorità, tra l’estetica e la rappresentazione di sé. Inoltre, per i giovani tatuarsi è uno dei pochi riti di iniziazione rimasti, o un must per essere alla moda. I tatuaggi infatti sono una particolare forma di lotta per andare al di là del convenzionalmente permesso, per sentire qualcosa di forte. Come se la vita delle società occidentali non bastasse più. Per la cultura contemporanea, «avere un corpo» da modificare prevale sulla dimensione di «essere un corpo» con cui relazionarsi.

La sfida è, invece, quella di trovare un equilibrio che richiede un duplice ethos: «Vedere la persona nel e al di qua del semplice corpo, l’ethos di chi si offre allo sguardo richiede di presentarsi non come simulacro — pura apparenza —, ma come soggetto» (15). E questa una delle sfide culturali: ritrovare equilibrio tra l’immagine soggettiva del proprio corpo e quella oggettiva che si riflette nello sguardo del proprio mondo relazionale.

Molti tatuatori sono considerati degli artisti. E lo sono realmente, ma a scapito del soggetto, che sceglie di diventare un oggetto da dipingere allo stesso modo di una tavola di legno, di una parete o di una tela.

Il tempo aiuterà a comprendere se la costruzione della propria identità personale e sociale si limiti a significati parziali, centrati su un corpo prestato come oggetto. Se per secoli il tatuaggio è stato sia il segno di un corpo sconfitto sia un grido libero e rivoluzionario, questa cicatrice sulla pelle oggi non è più percepita come tale. Quando la moda e il tempo passeranno e i tatuaggi sulla pelle sbiadiranno, quali tracce rimarranno sui corpi? Aiutare le persone a riconoscersi nel proprio corpo per ritrovare se stessi è un compito arduo. E anche la cultura del tatuaggio deve riconoscere che non promette né una seconda pelle, né nuove identità, né che non sfiorirà con il passare del tempo.

Note

1) A. CASTELLANI Storia sociale dei tatuaggi, Roma, Donzelli, 2014, 107.

2) Ivi, 111. Cfr F.OCHETTA – P. BENANTI, «La politica di fronte alle sfide del post-umano», in Civ. Catt. 2015 I 572-584.

3) A. CASTELLANI Storia sociale dei tatuaggi, cit., 111.

4) M. T. RUSSO, «Abitare la propria pelle? Corpo, bellezza e sfide etiche della chirurgia estetica», in Cosm-Etica, Milano, McGraw – Hill, 2012, 59.

5) A. CASTELLANI, Storia sociale dei tatuaggi, cit., 117.

6) D. BROOKS, «Nonconformity is in the Skin», in New York Times, 26 agosto 2006.

7) A. PALMERI, Tatuaggio. Dalle origini ai giorni nostri, Massa, Eclettica, 2012.

8) «Una farfalla con le ali spiegate indicava i ladri, un’aquila che tra gli artigli ha una donna era il simbolo dei protettori, mentre i rapinatori avevano tatuati i quattro semi del gioco delle carte […]. Coloro che erano detenuti per omicidio avevano una lacrima tatuata sotto l’occhio sinistro […]. Una spada con un serpente attorcigliato serviva a ricordare che una vendetta andava compiuta» (ivi, 55).

9) http://www.salute.gov.it/ Le direttive del ministero raccomandano di ga­rantire le norme igieniche per esercitare l’attività: gli operatori devono rispettare i materiali e i sistemi di protezione; è necessario prevedere sistemi di sterilizzazione.

10) I dati contenuti nell’articolo si riferiscono alla seguente fonte: Istituto Superiore di Sanità, «Tatuaggi: 13 italiani su 100 colorano la propria pelle. L’Iss scatta la prima fotografia sul fenomeno in Italia», in www.iss.it/pres/?lang=l&id=l 555&tipo=6

11) Cfr M. DE BAC, «I tatuaggi a 40 anni», in Corriere della Sera, 8 settembre 2015, 23.

12) «Il 7,2% dei tatuati ha meno di 18 anni, spiega il primo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità sul fenomeno. Gli uomini preferiscono tatuarsi braccia, spalla e gambe, le donne soprattutto schiena, piedi e caviglie. Il 76,1% si è rivolto a un centro specializzato e il 9,1% a un centro estetico. Ben il 13,4% lo ha fatto al di fuori dei centri autorizzati» (fonte: Ansa, in www.ansa.it 7 settembre 2015).

13) http://www.skinlaser.it/rimozione_laser_tatuaggi.html/ I tatuaggi recenti sono quelli che si rimuovono più velocemente, insieme a quelli amatoriali e di piccole dimensioni. L’intervallo tra una seduta e l’altra è di circa 6-8 settimane, necessarie sia perché si completi il processo di schiarimento del tatuaggio ottenuto con la seduta precedente, sia per permettere il recupero dei tessuti, utile per evitare il rischio di danni alla pelle.

14) Cfr A. CASTELLANI, Storia sociale dei tatuaggi, cit., 116.

15) M. T. RUSSO, «Abitare la propria pelle? Corpo, bellezza e sfide etiche della chirurgia estetica», cit., 69. Cfr D LE BRETON, La pelle e la traccia. Le ferite del sé, Roma, Meltemi, 2005.