Il ’900? Un’arte senza Risorto

arte_sacraAvvenire, 10 giugno 2008

Parla lo studioso Timothy Verdon: «I fili si sono persi ai primi dell’800 e dopo il Concilio abbiamo opere con la sola Crocifissione. Ci vorranno due o tre generazioni di artisti per recuperare il tempo perduto»

 intervista a cura di Andrea Fagioli

DA FIRENZE C’ è da recuperare il tempo perdu­to. Ci sono almeno due o tre ge­nerazioni di artisti da formare se vogliamo che l’arte torni a rappresentare in modo corretto il Mistero cristiano. Il sa­cro, del resto, non appartiene a questo mondo e parlare di Dio ci obbliga a una serie di analogie di cui, alla fine, difficil­mente restiamo soddisfatti.

Eppure, un tempo, quelli che meglio conoscevano la fede, dopo i preti, erano gli artisti tanto che uno studioso come Timothy Verdon parla di «Michelangelo teologo» oppure raccon­ta di vescovi che nel Trecento, ma anche nel Seicento, non avevano bisogno di spie­gare il senso del soggetto sacro che voleva­no rappresentato perché si potevano fida­re che l’artista, cresciuto in un mondo an­cora permeato dalla fede, non solo capiva, ma era lui stesso in grado di commentare il contenuto scritturistico e teologico del soggetto richiesto.

Le cose non stanno più così. E Verdon (che da oltre trent’anni vive in Italia e dal 1994 è sacerdote a Firenze dove dirige l’Ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’ar­te) lo sa bene soprattutto ora che ha dato alle stampe il terzo manuale della serie L’arte cristiana in Italia, edito dalla San Paolo e dedicato, quest’ultimo, all’«Età moderna e contemporanea» (i due prece­denti erano stati dedicati a «Origini e Me­dioevo » e al «Rinascimento»).

«Oggi a molti la cultura cristiana appare come un forziere di cui si è persa la chia­ve. Questi tre volumi vogliono essere ­spiega Verdon – una guida che permette ai lettori di muoversi attraverso la ric­chezza e la bellezza della tradizione. So­prattutto questo terzo evidenzia gli sforzi compiuti a partire dal XVII secolo, e parti­colarmente negli ultimi cento anni, per tradurre in linguaggi visivi attuali l’enor­me patrimonio simbolico di cui la cattoli­cità italiana è erede».

Uno sforzo di traduzione non semplice perché «il cristianesimo – spiega ancora Verdon – vive un rapporto pa­radossale con questa impene­trabilità della dimensione del sacro. L’evento centrale della nostra fede, il Dio ineffabile, ha voluto essere visto, toccato, conosciuto come noi esseri u­mani. Ha voluto farsi cono­scere nel modo in cui noi sia­mo in grado di conoscere e cioè attraverso il corpo.

Per questo ogni momento della storia e ogni diversa cultura hanno espresso il sacro articolando un lin­guaggio nuovo, connaturato alla cultura del tempo, e la Chiesa Latina, al contrario di quella d’Oriente, non ha mai avuto un suo stile ufficiale: ha scelto una strada che a livello teologico è sembrata più consona al carattere stesso del Mistero dell’Incar­nazione ».

Arte e sacro sono così andati d’accordo fi­no ai primi dell’Ottocento quando inizia quello che monsignor Verdon definisce il «peccato d’omissione della Chiesa, durato fino al Concilio Vaticano II: un secolo e mezzo in cui la Chiesa ha rinunciato alla sua gloriosa e coraggiosa tradizione di e­splorazione del contemporaneo alla ricer­ca di linguaggi artistici capaci di comuni­care la presenza di Dio».

Il dialogo è ripartito dopo il Concilio, «quando gli artisti contemporanei non hanno saputo resistere all’invito di Paolo VI, ma a quel punto non erano più abituati a pensare alle categorie della Chiesa, che a sua volta non era più abituata ad avere un rapporto con artisti veramente creativi.

L’esplosione di arte contemporanea su ar­gomenti cristiani nell’immediato dopo Concilio era affascinante ed incoraggiante ma non ha risolto il problema perché gli artisti non hanno colto l’essenza della vita cristiana né l’evoluzione della Chiesa.

Questo è soprattutto evidente nell’ambito dell’architettura sacra. Basta entrare – dice Verdon – in una delle molte bruttissime chiese create nel trentennio dopo il Conci­lio per rendersi conto di infelici commi­stioni tra gli stili del passato e quelli con­temporanei, dove prevalgono violenza e tragicità in opere di artisti vo­lonterosi, ma non necessaria­mente vicini al pensiero della Chiesa, che hanno colto un clima tragico senza rendersi conto che la Chiesa anche quando vive la tragedia la vive nell’ottica della Resurrezione.

L’immagine più tipica degli anni Sessanta e Settanta è la crocifissione, rappresentata senza nemmeno l’ombra del­la Resurrezione. Il che signifi­ca che l’artista non ha colto l’interezza del messaggio. Un altro esempio sta nel fatto che in tempi di rivoluzione sessuale, dopo il Sessantotto ma anche prima, nessun ar­tista è stato più capace di comunicare la bellezza, l’attrattiva della verginità, la pu­rezza di Maria e di molti santi. Abbiamo Madonne che sembrano brave massaie, ma in cui non si coglie assolutamente la dedizione che purifica ed eleva.

Gli artisti adesso vanno aiutati a capire la fede con la prospettiva del lavoro da fare. La Chiesa in Italia – afferma Verdon – si sta adoperando seriamente per recuperare terreno. Anche gli artisti capiscono di non essere più in sintonia. È incoraggiante che siano diret­tamente la Santa Sede, la Conferenza epi­scopale italiana o le diocesi a volere rista­bilire questi rapporti».