La comunione in ginocchio e l’adorazione.

comunione_ginocchio il Foglio del 20 novembre 2007

 Il Segretario della Congregazione del culto divino, l’arcivescovo cingalese Malcom Ranjith Patabendige Don, ha appena sottolineato l’importanza della comunione in ginocchio, magari con la vecchia balaustra. Il nuovo cerimoniere del papa ha introdotto la croce sull’altare…una riforma liturgica, secondo i vaticanisti più informati, è imminente. Riporto al riguardo una riflessione personale.

di Francesco Agnoli

Ai piedi di una bella montagna, slanciata verso il cielo, ogni uomo sente dentro di sé qualcosa, un movimento segreto, intimo, incomunicabile, che la parola non sa esprimere, ma che assomiglia molto ad un desiderio di umile adorazione.

L’immensità buona e potente della montagna, risveglia nell’uomo di città, nell’uomo delle moderne metropoli piatte e monotone, confuse e rumorose, quello che Romano Amerio considerava il cuore dell’esperienza umana: “il problema dell’uomo è il problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per portarvi luce e sostanza”. Che l’adorazione sia il problema dell’uomo, oggi, non è tanto facile capirlo. Non ci aiutano a farlo nè le infinite occupazioni, né gli svaghi senza uscita offertici dalla tecnologia, né il diluvio di parole in cui siamo sommersi.

Eppure, come scrive Radaelli, nel suo bellissimo “Ingresso alla bellezza”, “l’adorazione è un atto che soddisfa perfettamente il fine ultimo dell’universo, il quale, a cominciare dal nome, esige in primo luogo l’unità: ma non solo e non tanto l’unità del proprio essere universo, ma l’unità con l’Essere da cui esso, ‘ente per partecipazione’, in tutto dipende: con Dio, con l’Ente in sé sussistente; l’adorazione è l’atto che permette di non fratturarsi da lui, pena trovarsi, statim, nulla”.

Su un pensiero analogo a questo si fonda sicuramente la recente decisione di Benedetto XVI di liberalizzare l’antica messa latina, e di attuare col tempo una riforma liturgica nella riforma del 1970. Perché è innegabile che là dove l’adorazione dovrebbe trovare il suo culmine, nella sacra liturgia, nella preghiera comune della chiesa, nel sacrificio che unisce cielo e terra, purgatorio e paradiso, uomini e angeli, vi è sempre di più, oggi, qualcosa di assolutamente incongruo, dissonante.

Al punto che il momento fondante della Messa, l’incontro con Gesù eucarestia, che dovrebbe rappresentare il massimo della umiliazione e divinizzazione, al tempo stesso, del fedele, avviene nella nuova liturgia nel più completo anonimato, alla fine della celebrazione, quasi in extremis, non più in ginocchio, come un tempo, ma in piedi, da pari a pari, con una frettolosità urticante, per chi, appunto, desideri adorare; non più in bocca, con quella riverenza che si conviene, ma in mano, come se la comunione fosse non un panis angelicus ma un cibo qualsiasi, che si prende da soli, che si sceglie di afferrare, e non di ricevere, così come si fa a tavola, ad ogni pasto.

L’adorazione infatti implica un atto di umile sottomissione, e soprattutto un verso, una direzione: è un orare ad, cioè verso qualcuno, e quel qualcuno può e deve essere solo Dio, non il “popolo”, l’assemblea, la comunità.

Pregare verso Dio, verso oriente, esige allora un atteggiamento del cuore e del corpo, che tutta la celebrazione deve contribuire a creare. La messa deve tornare ad essere dialogo tra Dio e gli uomini, tramite il Dio che si è fatto uomo e che si presenta a noi sotto le spoglie del sacerdote, non dialogo tra un presidente e la sua assemblea. E tutto, dall’arte, alle statue, all’altare, alla musica, deve tornare a servire a questo, perché “se manca il genius dell’adorazione trinitaria, subito subentra e gli si impone il genius opposto dell’ antiadorazione, ossia della dispersione, della vacuità, del laicismo irrazionale e relativizzante”.

Antiadorazione significa, come scriveva il cardinal Ratzinger, “liturgia degenerata in show, dove si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali seducenti, con successi momentanei nel gruppo dei fabbricanti liturgici, e di conseguenza una tendenza al ripiegamento sempre più forte in coloro che nella liturgia non cercano lo showmaster spirituale ma l’incontro col Dio vivente”.

Dio vivente, come nota sempre il Radaelli, che viene addirittura eliminato nelle immagini e nelle croci, con una strana furia iconoclasta: “non c’è più Volto , perché spesso il sacro volto non lo si figura più o, se lo si figura, gli si svellono i caratteri dell’individuo: sacri volti senza occhi, sante mani senza dita, croci senza Crocifissi…”.

Lo notava, quasi quarant’anni fa, al principio della riforma liturgica, anche Guareschi, in una finta, amara e ironica lettera al suo don Camillo: ” Lei don Camillo…aveva pur visto alla tv la suggestiva povertà dell’ambiente e la toccante semplicità dell’Altare, ridotto a una proletaria tavola.

Come poteva pretendere di piazzare in mezzo a quell’umile sacro desco un arnese alto tre metri come il suo famoso crocifisso cui lei è tanto affezionato? …non si era accorto che il crocifisso situato al centro della tavola era tanto piccolo e discreto da confondersi coi due microfoni?”. In effetti come si fa ad adorare l’uomo Dio, rivolgendosi ad altri, senza un altare, senza un tabernacolo e senza una croce.

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