Jihad, solo una questione di spirito?

jihadil Domenicale, 9 giugno 2007

In un libro denso e documentato, David Cook, esperto americano di letterature apocalittiche islamiche, traccia la storia dello “sforzo” musulmano, il “darsi da fare” per raggiungere la santità. Un buono spunto per dei pensierini

di Marco Respinti

Si sa: il jihad è una lama a doppio taglio, spirituale e militare. Lo mostra bene David Cook in Storia del jihad. Da Maometto ai giorni nostri (Einaudi), un corposo e documentato libro su quella che – nota con precisione Roberto Tottoli nella premessa all’edizione italiana – «più che una parola è un capitolo sostanzioso tra le concezioni islamiche ed è, oltre a questo, un concetto dal percorso storico complesso».

Lo studioso americano – che insegna Religious Studies alla Rice University di Houston, in Texas, ed è esperto di tradizioni apocalittiche islamiche – ricostruisce sapientemente il rincorrersi e il sovrapporsi storico e culturale del doppio significato del termine, attingendo soprattutto a fonti arabe-musulmane.

Oggi l’accezione spirituale del concetto viene utilizzata da quei musulmani che, volendosi accreditare come moderati, o desiderando fornire dell’islam una lettura slegata dalla violenza, ne rivendicano la forza, secondo Cook però inutilmente. Testo dopo testo, dal fondatore dell’islam a oggi, Cook mette infatti in luce come l’accezione spirituale del termine proceda da una letteratura secondaria e tarda, insomma posteriore rispetto a quella che ne veicola il senso strettamente militare. Pur restando dunque vero, in teoria, che jihad tolleri un doppio senso, nella pratica e nella storia finisce che l’uno si schiacci sull’altro. O, meglio, l’uno si faccia univocamente spiegare dall’altro.

Il libro di Cook è dunque importante. Uscito originariamente nel 2005, in versione italiana presenta un testo abbondantemente rifatto, così che quella targata Einaudi è, a tutti gli effetti, una seconda edizione riveduta e ampliata, da cui però sono state omesse le ampie appendici testuali presenti nell’originale in inglese.

Nel volume Cook scandaglia minuziosamente la lettera coranica e spiega l’essenziale dell’esempio pratico costituito dalla vita di Maometto; poi, fra confraternite e guerrieri,  prende in considerazione gli sviluppi dottrinali durante quello che per noi è l’Alto Medioevo; quindi, fra eretici, ortodossi e teorici fondamentali del jihad quali Ibn  Taymiyya, considera a fondo il confronto fra concezione islamica e “guerra giusta” crociata; quindi risale la storia giungendo alle teorizzazioni del secolo XIX e sul cammino incontra, e spiega, il rigorismo “puritano” dei wahhabiti, il fondamentalismo dei Fratelli Musulmani, il radicalismo combattente sparso per il mondo e il millenarismo apocalittico.

Il trucco c’è e si vede

Dalle sue pagine emerge dunque evidente un dato. Che in casi come questi la filologia, scienza per altro apprezzabilissima, serve a ben poco.

Ora, i musulmani non amano la traduzione di jihad in “guerra santa”, che sentono troppo cristiana, troppo mutuata dalla Crociata. Ne rivendicano invece il senso primo, letterale, di “sforzo”, che Cook spiega con “darsi da fare”. Tutto sommato, così ne viene fuori un bel concetto; quasi l’evangelico lavoro alacre nelle vigne del Signore. Un concetto di suo non certo ignoto e invero non distante da altri analoghi presenti in molte tradizioni religiose, segnatamente nell’ebraismo e nel cristianesimo, dove suggerisce l’impegno che spetta all’uomo di fede onde guadagnarsi la santità.

Solo che qui, nel contesto islamico, lo “sforzo” è letterale e il Signore per cui ci si “dà da fare” e Allah, quello i cui fedeli sono muslim, “sottomessi”. Non uomini liberi della libertà dei figli di Dio, di cui parlano per esempio le Scritture giudeo-cristiane.

In ambiente islamico, cioè, il “darsi da fare” è lo sforzarsi il più possibile per fare la volontà di Allah, la quale non ammette mediazioni. Indi per cui lo “sforzo” è quello di sottomettersi a lui e a lui di sottomettere. In un contesto positivamente privo di sfumature, lo “sforzo” diviene allora diretto, fisico, materiale. Non sarà sempre e solo “guerra” in senso stretto, ma sarà pur sempre e solo un “darsi da fare” in tutti i modi affinché Allah si compiaccia dei sottomessi.

Eccolo qui il trucco dello jihad dal doppio significato, l’uno “sforzo” spirituale, l’altro il non-amato ma preciso concetto di “guerra santa”.

La differenza è inizialmente sottile, ma l’angolo che poi apre è enorme. L’accezione spirituale del termine dice che l’essenza del concetto è assolutamente, squisitamente religiosa. Su questo vi sono pochi dubbi. Ma la questione è che la “teologia” islamica, la quale non riconosce autonomia alcuna alla speculazione filosofica, glossa immediatamente il “darsi da fare” nell’agire sociale. E questo comporta la creazione della umma, la comunità dei veri credenti (=sottomessi ad Allah), politicamente organizzata per esempio in un califfato dove il letteralismo coranico è diritto dello “Stato” (le virgolette sono di rigore).

Ora, siccome la conquista alla fede islamica è sottomissione, e dato che di regola gli uomini amano poco farsi sottomettere, lo scontro è inevitabile. Peraltro, il jihad come “sforzo” religioso sulle vie di Allah non solo resta, ma è determinante; solo che la cifra della sua spiritualità è la conquista con qualsiasi mezzo, ergo la guerra.

Per questo il jihad rimane una “guerra santa” senza paragoni (e diversissima dalla “guerra giusta” cristiana) quanto a irriducibilità, a determinazione, persino a crudeltà (per la gloria di Allah nulla è troppo), certo a capacità di protrarsi magari pure carsicamente ma sempre inesorabilmente per anni, decenni e secoli, di generazione in generazione, meditando sull’obiettivo, affinando le tecniche, perseverando nella costanza.

Una “guerra permanente” per sottomettere e per sottomettersi ad Allah, e così guadagnare il paradiso. Una guerra continua che non conosce (perché non può conoscere) concetti come “pace”, “tregua” (figurarsi tregua Dei), compromessi o trattati, se non per ciò che essi valgono per gli avversari: ossia solo come strumenti strategici da rivolgere contro i nemici, cogliendoli di sorpresa quando li si infrangono.

Parole, parole…

È del resto questo il destino della lingua araba usata dall’islam, ossia caricata della plurisecolare storia islamica, espansionistica manu militari sin dal primo giorno. La lingua, cioè, con cui favella Allah, l’unica che fa del Corano un testo sacro (in traduzione è solo letteratura, non verbo rivelato), quella in cui ogni sottomesso deve imparare, anche a forza – “sforzato” – di pregare (ogni islamizzazione è infatti anche un’arabizzazione).

In coda al libro, Cook fornisce un glossario dei termini più ricorrenti nella letteratura arabo-musulmana, utile non tanto come vocabolario (un po’ tutti ci siamo fatti una idea di ciò che alcuni termini ricorrenti ormai anche da noi significano, e questo con precisioni mediamente accettabili), ma come ideario.

Si prenda amir. Significa “emiro”, certo: quello con il turbante da Le mille e una notte sì, ma vuol dire pure “comandante”, è la cosa assume subito contorni già meno fiabeschi. Oppure dhimmi, che in sé significa “protetto”, ma che è l’etichetta appiccicata a cristiani ed ebrei allorché, pagando le tasse al califfato, hanno almeno salva la vita (pecunia non olet) ma nessun diritto.

O ancora fatwa: “parere legale”, ovvio, ma quindi strumento con cui certe autorità musulmane (senza che ve ne sia una centrale e superiore con potere di scomunica, di ortodossia e di sanzioni disciplinari) possono condannare a morte un nemico e mobilitare contro di lui tutti i “veri sottomessi” (chi dice chi lo è e chi no, chi dice chi può appellarsi a loro o no, chi dice chi può arrogarsi il diritto di parlare a nome loro o no?).

E infine shari’a, la “legge religiosa islamica” che totalitariamente appiattisce il temporale sullo spirituale negando diritto naturale, libertà e coscienza all’uomo, imponendogli di credere che a Dio piacciono gli schiavi. Quando si dice la guerra delle parole…