Radici marxiste della degenerazione politica

elezioni_PdIl Timone n.74 giugno 2008

Il potere politico, soprattutto per influsso del marxismo, è oggi spesso fine a sé stesso, dimentico del bene comune. Quest’ultimo è criterio per discernere e sanzionare l’uso corretto del potere

di Umberto Galeazzi
(Ordinario di Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Chieti-Pescara)

La storia ci insegna che chi ha il potere facilmente tende a prevaricare e a usarlo per il proprio vantaggio. Perciò, per arginare queste distorsioni si sono escogitati vari rimedi, per esempio si è pensato alla divisione dei poteri, onde favorire un controllo reciproco tra di essi e, così, impedire, o almeno contrastare, l’affermarsi di un potere che non risponde a nessuno del suo operato.

Anche oggi il potere tende ad essere fine a se stesso, eludendo le norme poste a garanzia dei cittadini. Sicché ci sono poteri che si alleano con altri poteri o che li sottomettono, o li ricattano, per avere privilegi, per prevalere e mettere fuori gioco concorrenti o avversari politici, per avere iniqui vantaggi e profitti. Chi opera in base alla logica del potere come fine esalta la democrazia con propaganda ingannevole, ma in realtà misconosce la sovranità del popolo, di ogni cittadino, che rischia di essere disinformato, imbrogliato e manipolato, pur nel moltiplicarsi di notizie e di messaggi.

L’espansione del potere politico richiede che chi comanda disponga di una massa monetaria sempre maggiore da spartire tra le proprie molteplici clientele, non di rado in conflitto tra loro e difficili da accontentare; da ciò l’incremento della spesa e, conseguentemente, dell’imposizione fiscale, che grava sempre più sui soliti lavoratori dipendenti che, certo, non possono evadere e pagano tasse sempre più esorbitanti, tanto più insopportabili, quanto più si evidenziano abusi, inefficienze, sprechi nell’impiego del denaro pubblico.

Se il potere è il fine supremo, esso assurgerà a criterio supremo di valutazione, che legittimerà tutto ciò che – benché aberrante moralmente – si pensa possa conservarlo o accrescerlo, calpestando i diritti e la dignità dei cittadini. Se, invece, si riconosce, com’è giusto, che il fine del potere politico e degli altri poteri è il bene comune, cioè la salvaguardia e la promozione del bene di tutti e di ciascuno, allora si avrà un valido criterio per discernere e sanzionare l’uso scorretto del potere, rispetto all’uso corretto di esso.

Oggi si teorizza il potere come fine supremo della prassi politica che mira soprattutto a vincere, cioè a conquistare il potere, per il quale i programmi sono secondari e comunque subordinati e funzionali a quell’obbiettivo primario. Chi opera in questo modo o pensa narcisisticamente che, avendo raggiunto la “poltrona”, il fine della politica è conseguito, oppure ritiene (secondo un persistente retaggio marxista-leninista) che se comanda una certa parte politica sedicente progressista tutto automaticamente va bene, senza lasciarsi nemmeno sfiorare dal dubbio di fronte alle dure smentite della storia del comunismo reale nel XX secolo.

Ma i cittadini sono interessati alla soluzione dei problemi reali, in base ai quali smascherano le coperture ideologiche di un potere fine a se stesso. Questa è la vera questione morale, che nasce dal misconoscimento del vero fine – che è il bene comune – della politica per sostituirvi l’idolo del potere fine a se stesso, in cui è tradita la stessa ragion d’essere della democrazia rappresentativa.

Per la liberazione dal potere fine a se stesso conviene non trascurare la giustificazione che ne ha dato l’ideologia marxista-leninista, arrivando ad essere funzionale all’affermarsi del potere totalitario. Per evitare il ripetersi di certe esperienze così disumanizzanti conviene intenderne criticamente le radici teoriche, perché non bastano le dichiarazioni propagandistiche o il cambio dei nomi dei partiti per cambiare una prassi politica.

Dall’idea di rivoluzione totale, cioè dal progetto di rigenerazione dell’umanità per far sì che l’uomo si liberi non solo dell’alienazione, ma della stessa finitezza, per arrivare ad una sorta di autodivinizzazione, derivano conseguenze significativamente contraddittorie con l’intento originario: l’oppressione della persona invece della sua liberazione.

Un potere, che si arroga il diritto di creare l’«uomo nuovo» non riconosce nessun limite al proprio arbitrio, riducendo le persone concrete a materia del proprio progetto, con la pretesa di modificare la stessa natura umana. Così la morale si risolve totalmente e si dissolve nella politica, in quanto quest’ultima ritiene di non dover rispettare alcun valore, alcun ordine etico nella sua prassi, che pretende di produrre il bene supremo, identificato con una società perfetta, rivelatesi tutt’altro che tale nella storia.

Lenin scrive: «La nostra etica dipende in tutto e per tutto dagli interessi della lotta di classe del proletariato […] è nostro compito subordinare tutti gli interessi a questa lotta […] per un comunista la morale è tutta in questa disciplina compatta e solidale». Ciò vuoi dire che l’individuo è totalmente subordinato all’arbitrio di chi ha il potere, cioè di chi guida la lotta: infatti, non potrà nemmeno appellarsi al vero, al giusto o al bene, perché è la lotta, mirante a realizzare la società perfetta, che pretende di creare e determinare il vero, il giusto e il bene.

Una lotta – cioè una prassi – in cui la persona viene travolta. Si tratta di una eversione radicale del senso morale, poiché se è morale (secondo Lenin) ciò che giova alla rivoluzione, ciò implica che qualsiasi atto – anche il più aberrante – è giustificato, se può giovare alla causa o, almeno, se così sembra a chi guida la lotta.

Ma ciò può essere sostenuto solo da chi nega all’uomo, ad ogni uomo, un valore primario, subordinandolo alla propria prassi sedicente liberatoria. Qui è teorizzata non solo la coercizione esteriore, ma anche quella interiore: il povero uomo, che cade vittima di questa prospettiva, è privato delle basi critiche per contestare il potere, giacché l’ideologia gli dice che il potere ha sempre ragione, purché sia quello del partito o dello Stato in cui questo partito ha preso il potere.

Gramsci teorizza fino in fondo questa costrizione prima di tutto interiore, in un ibrido e deleterio connubio di piano politico e piano etico-religioso. Il moderno Principe, che per Gramsci è il partito comunista, non si contenta di prendere il potere politico, vuole conquistare le coscienze e vuole da esse un’adesione totale: «II moderno Principe -leggiamo nei Quaderni dal carcere – sviluppandosi sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico».

Un potere così pervasivo e senza remore non può che instaurare un regime totalitario.

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«II bene comune è la ragion d’essere dell’autorità politica». (Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 168).

Bibliografia

Augusto Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Aragno, 2004.

Umberto Galeazzi, Laicità e laicismo. Un dibattito sull’uomo, Città Nuova, 1984.