Cecoslovacchia 1948 i comunisti al potere

slovacchia_48Il Timone n.71 marzo 2008

Sessant’anni fa i colpi di Stato comunisti nei Paesi dell’Europa orientale. Il caso cecoslovacco. Una storia poco raccontata e meno ancora compresa

di Angelo Bonaguro

Nel 1945 in Cecoslovacchia arrivò la liberazione, ma non la libertà – scriveva il teologo ceco Josef Zverina (1913-1990) -. Il trionfalismo del Partito comunista (PC) fu mostruoso e sfacciato». I comunisti, non essendo mai stati al governo prima della guerra, si presentarono all’opinione pubblica come i “puri” che non avevano alcuna responsabilità per i patti di Monaco del 1938 (cui era seguita l’occupazione nazista del Paese), e si misero al fianco dell’Armata Rossa che aveva liberato parte del paese.

Alle prime elezioni libere (1946) il PC prese molti voti e nel governo ebbe le funzioni del premier (Klement Gottwald, 1896-1953) e di altri ministeri importanti. Il 25 febbraio 1948 ci fu il colpo di Stato con cui la leadership comunista costrinse il presidente Edvard Benes (1884-1948) a nominare un nuovo governo che sposò la linea filosovietica del premier Gottwald.

Ricorda l’ex-presidente Havel: «II febbraio 1948 gettò il paese nella sciagura. Il putsch comunista privò i cittadini delle libertà, fu causa di innumerevoli disgrazie e di tragedie personali, per un’intera epoca significò la fine della speranza nello sviluppo democratico della repubblica, fu l’inizio della rovina generale e della devastazione economica del nostro Stato».

II Paese entrò così nell’orbita sovietica. Vennero istituiti i campi di lavoro coatto, fu approvato il primo Piano quinquennale che prevedeva l’economia pianificata, la statalizzazione delle industrie, lo sviluppo dell’industria pesante e la collettivizzazione dell’agricoltura. In ambito religioso, lo Stato cercò di sottomettere la Chiesa e di scalzarla dalla vita pubblica, di creare spaccature al suo interno istituendo associazioni filogovernative nella speranza di arrivare al distacco dal “nemico” vaticano.

Nell’ottobre 1949 fu istituito l’Ufficio per gli affari religiosi per controllare l’attività delle Chiese, e fu stabilito il sussidio statale per i sacerdoti che in questo modo diventavano “dipendenti” che necessitavano del permesso per officiare. Nei mesi successivi si ebbe una recrudescenza antireligiosa che portò (azioni “K” e “P”, aprile 1950) alla chiusura di tutti i conventi, all’abolizione degli ordini religiosi, alla liquidazione della Chiesa greco-cattolica, e culminò con la serie di processi-farsa contro semplici fedeli ed autorità ecclesiastiche, condannati a pene esemplari.

I beni immobili della Chiesa furono espropriati, e solo oggi, dopo 50 anni, si sta arrivando a un accordo sulla loro restituzione. Fu internato l’arcivescovo di Praga, l’ “intransigente” Josef Beran (1888-1969). Ricorda Havel: «Negli anni ’50 nel nostro paese c’erano enormi campi di concentramento in cui si trovavano decine di migliaia di uomini innocenti. I cantieri però pullulavano di decine di migliaia di giovani entusiasti della nuova fede, che cantavano inni al lavoro. Si torturava e si giustiziava, si fuggiva avventurosamente all’estero, si cospirava, e contemporaneamente si scrivevano poesie celebrative al dittatore».

Dalla seconda metà degli anni ’50 il regime, guidato da Antonin Novotny (1904-1975), allentò la pressione grazie alla mutata situazione internazionale [nel 1953 vi fu la morte di Stalin, e nel 1956, al XX Congresso del PC sovietico, il segretario Nikita Chruscev (1894-1971) avviò la “destalinizzazione”] e a una relativa stabilità economico-politica, pur pagata a caro prezzo. Gli avversari politici erano stati eliminati o messi a tacere, una nuova generazione si andava adeguando ai ritmi del socialismo, e nel mondo della cultura emergevano le prime spinte non conformiste.

Sul piano dei rapporti Stato-Chiesa, il fatto principale fu l’esilio forzato a Roma dell’arcivescovo Beran, mentre le autorità accettarono la nomina di Frantisek Tomàsek (1899-1992) ad amministratore apostolico di Praga, senza sospettare i guai che avrebbe provocato loro questo “contadino moravo paracadutato in una regione sconosciuta”.

Verso gli anni ’70 il regime comunista piano piano si indebolì: oltre agli insuccessi economici, emerse il problema della Slovacchia, stanca di sottostare alle politiche centralistiche di Praga. L’atteggiamento provocatorio di Novotny, che nell’estate del 1967 definì gli slovacchi “nazionalisti e separatisti”, creò al plenum di ottobre una situazione di conflittualità tra l’ala conservatrice (Novotny) e i “riformisti” del primo segretario slovacco Alexander Dubcek (1921-1992). Nemmeno la visita del segretario del partito comunista sovietico Leonid Ilic Breznev (1906-1982) sbloccò la situazione: il 5 gennaio 1968 Dubcek sostituì Novotny alla carica di primo segretario. Iniziava la “Primavera di Praga”, l’utopia del “socialismo dal volto umano”, con i suoi timidi spazi di libertà.

Ricorda Havel: «II carattere utopico di questo tentativo non stava tanto nella fiducia che si potesse costruire una situazione democratica sotto il potere moscovita, quanto piuttosto nella fiducia che il Cremlino avrebbe compreso e approvato. Agli inviti alla ragione si reagì con l’invio dei carri armati… L’intero movimento sociale, il cui culmine fu il 1968, non arrivò che alla riforma, alla differenziazione o al ricambio di strutture solo subalterne dal punto di vista del potere reale, e non toccò il nocciolo della struttura di potere del sistema post-totalitario, cioè il suo modello politico in quanto tale, i principi fondamentali dell’ordinamento sociale globale e neppure il modello economico plasmato su di essi».

Anche la Chiesa beneficiò degli spiragli di libertà: il Movimento dei preti per la pace (creato dal regime) fu sostituito dall’opera di rinnovamento conciliare, si emendò la legislazione in materia religiosa, la stampa religiosa rifiorì. Ma il risveglio della società |ebbe di nuovo fine con l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia, il 21 agosto 1968. Gustav Husak (1913-1991), già primo segretario del PC slovacco, dopo pochi mesi scalzò Dubcek, messo a riposo, e avviò il processo di “normalizzazione” imposto da Mosca. Cominciò «l’epoca di una rassegnata apatia e di una estesa demoralizzazione, l’epoca di una grigia quotidianità totalitario-consumistica.

La società era atomizzata, i piccoli centri focali di resistenza vennero annientati, la comunità ingannata e stanca faceva finta di non saper niente di essi, il pensiero indipendente e la creazione si rifugiarono nelle trincee della parte più intima della vita privata» (Havel). Il sacrificio di Jan Palach (1948-1969), la repressione dell’agosto 1969, quando ad intervenire a Praga contro i manifestanti non furono più le truppe straniere ma la polizia cecoslovacca, gettarono la società nello sconforto generale e spazzarono via la fiducia nella riformabilità del socialismo.

Da parte sua la Chiesa «si trasformò in Chiesa della compassione: compassione per i delusi, per chi cerca, per chi lotta. Alla calda estate subentrò un freddo autunno e poi il lungo inverno della normalizzazione» (Zverina). Nei primi anni ’70 le iniziative isolate di alcuni coraggiosi non impensierirono il regime, che nel ’75 sottoscrisse sfacciatamente gli accordi di Helsinki sui diritti umani! Esistevano però circoli di economisti, sociologi, storici, di varie tendenze, che iniziarono a diffondere il loro pensiero alternativo nell’editoria clandestina. Un ruolo importante in questa “società parallela” era svolto dal mondo della musica: fu proprio il processo contro il gruppo rock dei Plastic People (settembre 1976) a far scoccare la scintilla.

Così lo ricorda Havel: «Era un attacco del sistema totalitario contro la vita stessa, contro la stessa libertà e integrità dell’uomo… Involontariamente il potere svelava le sue intenzioni più recondite: appiattire totalmente la vita, eliminando tutto ciò che è minimamente diverso, autonomo, originale, indipendenti e non inquadrabile… Il pubblico raccolto in tribunale era una prefigurazione di Charta 77». Così il 6 gennaio 1977 fu diffuso in modo rocambolesci il documento n. 1 di “Charta 77”, «comunità libera informale ed aperta uomini di diverse convinzioni, diverse religioni e diverse professioni, legati dalla volontà di operare individualmente e insieme per il rispetto dei diritti umani».

Ricorda lo storico V. Vasko: «La grandezza di Charta 77 sta nell’aver permesso a centinaia di persone di trovare il coraggio di ergersi in di fesa dei diritti umani. Anche in questo la missione della Charta è in sintonia con gli insegnamenti della Chiesa, perché la carità e la responsabilità verso se stessi e verso il prossimo si realizzano in un tempo e in uno spazio concreti».

L’elezione a Papa di Giovanni Paolo II nel 1978 contribuì a rinvigorire anche la Chiesa locale. Scrive J. Stribrny, vicepresidente dell’Accademia cristiana ceca: «Si giunse a una differenziazione all’interno della Chiesa ufficiale, dove singoli sacerdoti, sostenuti dall’atteggiamento sempre più risoluto del cardinal Tomasek, iniziarono a comportarsi con maggior coraggio, mentre il clero collaborazionista si ritrovò sempre più isolato. Dalla fine degli anni ’70 la Chiesa non ufficiale moltiplicò decisamente àmbiti e forme della propria attività, ampliando man mano la portata della sua azione».

Iniziò in questo modo un’avventura che coinvolse il dissenso cecoslovacco – laico e religioso – fino alla Rivoluzione di velluto del novembre 1989, quando a scendere in piazza pacificamente contro il regime comunista fu tutto il paese. «Così l’eternità – commentò padre Zverina – con dolce violenza e tenera forza irrompe nei continui cambiamenti delle circostanze, toccando le nostre anime di credenti e non credenti».

ALCUNI DATI

Vittime del comunismo dal 1948 al 1989 (su circa 13 milioni di ab.)

205.486 condanne;

248 condannati a morte (il più anziano, J. Dvorak, di 73 anni; il più giovaneV. Tipel di 20 anni);

4.500 morti in carcere;

282 morti nel tentativo di oltrepassare i confini;

170.938 emigrati politici.

Campi di lavoro coatto 1948-1954 45 campi attivi

21.440 cittadini costretti ai lavori forzati (fonte: Ministero degli interni Rep. Ceca)

 

Jan Palach

II 16 gennaio 1969 in piazza San Venceslao, a Praga, Jan Palach, studente alla facoltà di giurisprudenza, dopo essersi cosparso di combustibile, si da fuoco e dopo tre giorni muore. I funerali si trasformano in un silenzioso gesto di protesta popolare. «La tragica morte di Palach fu un gesto di sacrificio volontario… Non si tolse la vita per non vivere più, ma perché vivessero gli altri… Il sacrificio del ’69 fu l’inizio… Il sangue innocente, la sofferenza dei senza potere hanno portato alla vittoria» (Zverina). Il suo gesto sarà ripetuto da Jan Zajic il 25 febbraio e il 9 aprile da Evzen Plocek. «Ognuno capiva benissimo la disperata necessità di fare qualcosa di disperatamente estremo, quando tutto era inutile, ognuno aveva in sé un pezzetto di quella necessità» (Vàclav Havel).

Bibliografia

Josef Zverina, La gioia di essere Chiesa, Cseo, 1990.

Vàclav Havel, Un uomo al Castello, Santi Quaranta, 2007.

Vàclav Havel, II potere dei senza potere, Garzanti, 1991.

A. Bonaguro, Charta 77.30 anni dopo, in La Nuova  Europa, n. 3/2007.

Vàclav Vasko, Dum na skale, I.-II., Kostelni Vydri 2004-2007. Sccuritas Imperii, n. 11, Praga 2005.