Morale laica e morale religiosa. Una presunta alterità

moraleStudi cattolici n.560 ottobre 2007

Senza religione non può essere vita morale. È la tesi sviluppata in queste pagine, che delineano i passaggi decisivi dell’epos europeo dal suo radicamento teologico in età medioevale alla deriva ateistica della contemporaneità, dopo la progressiva consunzione della morale kantiana nel XIX secolo, fatta propria dalle classi borghesi in impetuosa ascesa e ansiose di emanciparsi da norme altre dalla propria soggettività.

Nel suo cammino argomentativo Gianfranco Morra, professore emerito di Sociologia culturale nell’Università di Bologna, fa vedere l’inconsistenza storica e teoretica di una presunta alterità tra morale religiosa e morale laica, irrigidita contrapposizione funzionale ormai solo alla chiacchiera massmediatica, rilevando per contro i promettenti segni dell’alleanza intellettuale che va maturando tra laici e credenti nel comune compito di arginare – mediante la rinnovata scoperta dei valori religiosi e morali della tradizione culturale europea – le pulsioni sadiche e autodistruttive della modernità decadente.

Le riflessioni di Morra lasciano altresì trasparire inediti scenari, tali da mettere in discussione un fondamentale dogma della modernità, quella antropologia del dominio che ancora connota la terra nonostante le manifeste incrinature e che appare macigno pesantissimo sulla via alla consapevolezza del limite e allo sguardo trascendente

di Gianfranco Morra

In una famosa pagina del Manifesto del Partito comunista Marx esalta la borghesia come una classe «sommamente rivoluzionaria»: «Essa ha compiuto ben altre meraviglie che piramidi egizie, acquedotti romani e cattedrali gotiche» (Laterza, Bari 1961, pp. 62-63). La rivoluzione della borghesia è stata un mutamento epocale, accaduto una sola volta nella storia dell’umanità, con la creazione di un tipo di società mai prima esistita: la civiltà moderna o laica o secolarizzata. Che non è moderna in quanto viene dopo quella che l’ha preceduta, ormai vecchia e defunta, ma in quanto privilegia il nuovo e il mutamento come valori.

In essa nasce una nuova specie umana, quella dell’uomo areligioso, desacralizzato, che considera ogni riferimento al Sacro come puerile o lesivo della sua libertà, l’uomo che «si fa» e realizza nella storia il suo progetto.

Quello che gli storici hanno chiamato ésprit laìque, e del quale hanno indagato le radici nell’autunno del Medioevo, si realizza gradualmente nei secoli dell’Età moderna e raggiunge il suo culmine nel XIX secolo, sul fondamento delle tre rivoluzioni dell’umanità occidentale: quella scientifico-tecnologica, quella politica e quella industriale. È il secolo della morale laica, come sostitutiva della vecchia e improponibile morale religiosa del passato.

Già nei primi secoli della storia moderna i filosofi morali avevano capovolto lo schema del passato. In tutte le civiltà, la morale nasce con la parola della divinità. Ogni morale, dunque, ha un fondamento teologico, sia esso di rivelazione (come il Discorso di Benares di Buddha, il Decalogo di Mosè, il Discorso sulla montagna di Gesù, il Corano di Maometto), sia di creazione, ossia quella legge naturale che precede la parola rivelata in quanto è innata nell’uomo come segno del Creatore.

Questa origine teologica della morale, che la storia ci mostra come riconosciuta da tutte le civiltà, è stata definita in termini razionali da non pochi filosofi. Fra i quali emerge Giambattista Vico per la sua capacità di districare il nesso indissolubile di religione, morale e società.Vico parla di un duplice «conato», ossia di uno sforzo con cui gli uomini primitivi (i «bestioni») cercarono la verità in mezzo agli errori e il bene come dominio sulle passioni. La libertà morale, per Vico, non consiste nella spontaneità, ma nella capacità di «tenere in freno i moti impressi alla mente dal corpo» (Scienza nuova, 1744, par 340; in Opere, Mondadori, Milano 1990, p. 547).

Dal pudore la morale

Merita di essere citata una delle più pregnanti pagine del capolavoro vichiano: «Col conato incominciò in essi a spuntare la virtù dell’animo, contenendo la loro libidine bestiale di esercitarla in faccia al cielo, di cui avevano uno spavento grandissimo. E ciascuno di essi si diede a trascinare per sé una donna dentro le grotte e tenerlavi dentro in perpetua compagnia di lor vita; e si usarono con esse delle venere umana al coverto, nascostamente, cioè a dire con la pudicizia; e sì cominciarono a sentir pudore, che Socrate diceva esser il colore della virtù» (par 504, pp. 644-5).

Vico, molto prima di Max Scheler, ha compreso che il pudore, con cui inizia, anche secondo il testo biblico, la consapevolezza del peccato, è all’origine della morale. Ora il pudore, sentimento assente nel mondo animale, in tanto è possibile, in quanto l’uomo è medietas (Pico della Mirandola): convivono in lui la brutalità e la spiritualità, la cui origine è soprannaturale. Insieme con il conato, il pudore rivela l’eterogeneità di corpo e spirito.

L’uomo è un essere morale in quanto appartiene a due mondi distinti: quello fisico, per cui muore e si dissolve, e quello metafisico, come mostrano anche la sepoltura e il culto dei morti, che sarebbero del tutto insensati se l’anima non fosse immortale. Vico non ha solo mostrato, sul piano filosofico e antropologico, che ogni morale ha una origine religiosa: «Tutte le virtù [scrive all’inizio della sua opera maggiore] mettono le loro radici nella pietà e nella religione, per le quali sole son efficaci ad operare le virtù» (op. cit, par 14, p. 425).

E ha anche previsto, nella pagina conclusiva della stessa opera, la fine della morale e della stessa comunità umana, qualora gli uomini le distaccassero del tutto dalla religione: «Laonde, perdendosi la religione ne’ popoli, nulla resta loro per vivere in società, né scudo per difendersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov’essi reggano, né forma per la qual essi sien affatto nel mondo» (op. cit., § 1109, p. 970).

Nei secoli della storia moderna il fondamento religioso viene messo in disparte, nel tentativo di mostrare che le norme etiche e giuridiche valgono «anche se ammettessimo che Dio non esiste», secondo la nota ipotesi di Grozio. Sarà soprattutto Kant, in età illuministica, a capovolgere il fondamento etico: non è più la religione che fonda la morale, ma la morale, autonoma da ogni condizionamento eudemonologico, che consente il discorso religioso, anche se non più con l’enunciazione di verità, bensì con l’appello intenzionale dei postulati.

Ma questo capovolgimento, che deriva Dio dalla morale e non più la morale da Dio, avviene pur sempre entro una concezione religiosa, che Kant desume dalla religione luterana e pietista: «La legge morale conduce alla religione, cioè alla conoscenza di tutti i doveri come comandamenti divini» (Critica della ragion pratica, p. 162).

Non è difficile accorgersi che la formulazione filosofìca di Kant riprende, in chiave laica, le tradizionali categorie della morale religiosa. Kant propone due imperativi etici: attribuire alla propria azione una valenza universale e considerare gli altri sempre come fini e mai soltanto come mezzi. E sono gli stessi due supremi precetti insegnati da Gesù: l’amore di Dio e quello del prossimo. Per Kant l’uomo che agisce moralmente mostra di appartenere a un regno dei fini, irriducibile e indeducibile dal regno della natura. E «regno dei fini» è la traduzione laica e pietistica del «regno di Dio», in una morale che è, insieme, laica e religiosa.

Del resto, senza questa inestirpabile dimensione religiosa non sarebbe possibile l’imperativo categorico, che impone il «tu devi» (musst, non sollst) e rifiuta ogni azione etica condizionata dall’utilità, dal piacere, dalla felicità. Di fronte alla legge morale radicata nell’intimo dell’uomo Kant sperimenta ammirazione e reverenza, due sentimenti religiosi non inferiori a quelli suscitati dalla contemplazione del cielo stellato. Due sentimenti ricordati dalla lapide sulla sua tomba a Kònigsberg, dove leggiamo appunto le parole conclusive della Critica della ragion pratica: «Der bestirnte Himmel ùber mir und das moralische Gesetz in mir» (p. 201).

La morale kantiana domina tutto il pensiero del XIX secolo e la troviamo presente non solo nel vasto movimento di «ritorno a Kant» (zuruck zu Kant), ma anche in autori di scuole non poco lontane dalla sua filosofia, come i positivisti e i marxisti. Lo spirito kantiano della morale autonoma e intenzionale anima soprattutto il costume della borghesia attivistica e imprenditoriale, impegnata nella prima e difficile fase della rivoluzione industriale, che richiedeva senso del dovere e sacrificio.

È la morale «puritana» dell’Ottocento, fondata sui valori assoluti della famiglia, del lavoro, della religione e della patria. È stato sottolineato dagli storici del costume che la morale laica della borghesia ottocentesca era certo diversa da quella cristiana tradizionale, in quanto ne escludeva ogni previa fondazione teologica; ma anche che non era molto diversa nella definizione dei suoi contenuti. Era una morale laica, ma ancora cristiana. Le sue virtù e i suoi precetti erano quelli del Decalogo e del Discorso della montagna.

Era una morale laica sostitutiva, che superava ma non rifiutava la morale religiosa tradizionale. Tanto è vero che l’Ottocento ha espresso imperativi morali molto alti con le religioni dell’Umanità, nel solco della rivoluzione francese, ma anche oltre di essa nella necessità di superare i «diritti dell’uomo» nei «doveri dell’uomo». Si pensi a Saint-Simon e a Comte, a Mazzini e a Marx: tutte mistiche dell’Umanità, della Scienza, della Nazione, della Classe, che rivestivano di abiti laicali la vecchia morale cristiana.

La morale laica dell’Ottocento era una morale alternativa e sostitutiva di quella religiosa, dalla quale mutuava i principali valori e virtù. Nel senso così bene enunciato da Benedetto Croce: che noi tutti, europei, «non possiamo non dirci cristiani». Possiamo dire meglio, con le parole dell’indimenticabile saggio di Augusto Del Noce su La morale comune dell’Ottocento e la morale di oggi (1968): «Nell’Ottocento si è svolta l’ultima resistenza del cristianesimo, sulla trincea della morale; le valutazioni pratiche continuarono a essere conformi alla morale cristiana, anche se, generalmente, gli uomini di cultura fossero persuasi che della verità dei dogmi non si potesse parlare, e, nei riguardi del soprasensibile, fossero, nel migliore dei casi, agnostici. I più recenti decenni del nostro secolo hanno segnato il crollo definitivo di quest’ultimo baluardo» (ne L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano 1970, p. 181).

Non Kant, ma Sade

Diversa, dunque, è la morale del Novecento, il cui padre spirituale non è Kant, ma Sade. Occorre innalzarsi sopra lo «scandalo» delle opere del cosiddetto «divino marchese», nelle quali troppo superficialmente si è scorto solo pornografia e perversioni sessuali, mentre dobbiamo intenderle (insieme con autori come Bataille e Klossowski, Lely e Adorno) come una precisa profezia del XX secolo. Il sadismo non è una sorta di perversione che gode nell’unire, per mezzo di innumerevoli tecnologie sessuali, piacere e sofferenza.

È la descrizione precisa delle guerre mondiali, dell’atomica, dei gulag e dei lager, della strumentalizzazione dell’uomo per mezzo delle ideologie, della tecnica e dei mass media.O meglio: è l’esito coerente della «dialettica dell’illuminismo», non più frenata dagli scrupoli evangelici di Kant. È la morale della libertà gratuita e della «fantasia al potere», che nega ogni valore permanente e riduce la morale a una reazione chimica del Dna e della situazione. E’ la morale «gratuita» di Gide e quella «assurda» di Satire.

È il taglio del cordone ombelicale che univa nell’Ottocento la morale laica alla tradizione religiosa.

E’ la realizzazione piena della previsione di Dostoevskij: «Se Dio è morto, tutto è permesso».

Solo in riferimento a queste radici fìlosofiche della morale del Novecento trovano spiegazione comportamenti strani e per alcuni inammissibili, quando invece sono la logica e necessaria conseguenza di certe premesse speculative, come capirono assai bene i teorici della «liberazione» degli anni Sessanta: la negazione di valori permanenti; l’affermazione che uomo e scimpanzè sono diversi, e neanche tanto, solo per quantità, dato che hanno un Dna quasi coincidente; la morale della situazione; la giustificazione di ogni condotta etica come «pluralismo» e «alternativa»; il rifiuto della distinzione naturale tra i sessi e, di conseguenza, la richiesta di legalizzazione di ogni e qualunque unione; la prevalenza del «volere» sul «valore», o meglio la riduzione del valore al volere mutevole della quotidianità.

Ma la nostra Costituzione, all’art. 29, non esalta la famiglia «come società naturale fondata sul matrimonio»? Certo, infatti, nessuno vuole negare il matrimonio, anzi tutti vogliono estenderlo. Ciò che non è più consentito trovare è quel «naturale», che sinora è stato interpretato come «di sessi diversi». Ma se il naturale non c’è più, allora ogni unione è famiglia. Se l’Ottocento aveva sostituito la morale religiosa tradizionale con una nuova morale laico-religiosa, doveva toccare al Novecento lo svuotamento totale dei valori religiosi dalla morale. E, insieme, la dissoluzione di ogni e qualsiasi morale.

Se la classe borghese aveva voltato le spalle alla morale «clericale» solo per costruirne una dotata di alta religiosità, doveva toccare alla nuova classe degli intellettuali, padroni dell’industria culturale, distruggere ogni morale, laica o religiosa che fosse. Certo, si tratta di una classe di minoranza in crisi irreversibile, da quando l’uomo di cultura, un tempo guida rispettata del popolo, ha perso benessere e prestigio, per divenire un ingranaggio della civiltà del fare e del produrre. Dove, tuttavia, esercita ancora una sua funzione sacerdotale, anche se capovolta: distruggere tutti i valori della tradizione e proporre una morale «debole», ossia una vita alla giornata, un edonismo protetto e garantito dalla Stato assistenziale.

Basterebbe riflettere sulla dissoluzione della famiglia. La famiglia è stata in Europa il luogo per eccellenza della continuazione della vita, dell’educazione e della formazione sociale dei giovani. Cicerone l’aveva chiamata «principiimi urbis et quasi seminarium rei publicae» (Dei doveri, 1, 54). La famiglia aveva poi trovato la sua formulazione più efficiente proprio in età borghese, con la distinzione delle due sfere, pubblica e privata dell’uomo, di cui la famiglia è la necessaria cerniera (Ariès).

Tale famiglia cristiana continua a esistere sino all’Ottocento, anche se nelle camere da letto, sopra il talamo, oltre all’immagine delle Vergine, era facile trovare anche ritratti di eroi laici come Mazzini (pochi, del resto, hanno difeso la famiglia come Mazzini).

Oggi la famiglia soffre la più radicale crisi da quando è nata l’Europa cristiana: il ritardo e la diminuzione dei matrimoni; la irrefrenabile denatalità; il divorzio, inteso non solo come una triste, rara necessità, ma come una conquista di libertà; l’aborto, usato per fini edonistici ben oltre le sue limitate funzioni terapeutiche; gli eccessi della liberazione del femminismo, ben diversa dalla legittima emancipazione della donna, che ne hanno fatto non già una persona libera a fianco dell’uomo, ma un essere narcisistico contro l’uomo, anche se spesso a sua imitazione, certo protagonista, ma solo in quanto antagonista; la pretesa di chiamare famiglia convivenze anomale, che nulla hanno in comune con essa; la maleducazione e la delinquenza (mi scuso, si deve dire: il bullismo) dei figli, inevitabili conseguenze della rinuncia della famiglia a educare.

Tempi duri per la morale. Non parliamo della moralità, ossia del comportamento dei singoli, che in ogni epoca è stato spesso lontano dalle norme. Parliamo di quell’insieme di regole morali, universalmente ammesse, che consentono un orientamento agli uomini sia quando le seguono, sia quando le violano.

E ciò non è accaduto per colpa della morale laica, la quale ha saputo orientare gli uomini sin quando ha mantenuto la dimensione religiosa, ma per colpa di una morale atea, che non ha sostituito i valori religiosi, ma li ha completamente rifiutati. Anche se, in tal modo, ha confermato una regola della sociologia culturale: che non è mai esistita una morale laica, ma solo una morale religioso-laica o laico-religiosa (in ciò la differenza della civiltà cristiana da quella islamica, dove una morale laico-religiosa non è possibile, ma solo una sharia, una morale religiosa che esclude ogni possibile laicità).

Una morale può e anche deve essere anticlericale, ma senza religione non ci può essere morale: nessun calcolo di utilità o progetto di benessere o di assistenza sociale sono mai riusciti a produrre comportamenti morali di altissimo valore, come l’altruismo, la generosità e il sacrificio, tutti atti che richiedono una dimensione metafìsica dell’esistenza, la fede in valori assoluti, cioè, in ultima istanza, in Dio, anche se qualificato con nomi diversi. Occorre, tuttavia, accorgersi di che cosa bolle nel pentolone del nuovo secolo, anzi del nuovo millennio.

Il processo che abbiamo descritto appartiene al secolo conclusivo della modernità, alla sua riconosciuta decadenza. Viviamo nel passaggio tra il moderno, che non c’è più, e il postmoderno, che non c’è ancora. Ma i segni dello sfacelo della modernità e le attese di una nuova epoca organica sono molti ed evidenti. Ve anzitutto il risveglio religioso, il quale anima tanti movimenti innovativi e solidaristici.

È vero che spesso il risveglio riveste abiti superstiziosi e consumistici, ma anche allora rimane un segno indiscutibile e potente della volontà di voltare pagina. In ogni caso questo risveglio religioso si traduce in interesse e ammirazione per gli ultimi Pontefici, dai quali molti si attendono una indicazione per superare le angosce e le incertezze di una società come la nostra, che troppo spesso nel benessere ha dissolto i valori fondamentali dell’esistenza.

La difesa della vita, della famiglia, della scuola non appartengono solo ai politici, che spesso ne fanno un uso interessato, ma in primo luogo alle masse popolari, come mostrano manifestazioni e raduni in difesa della morale religiosa, un tempo impensabili, che uniscono nella stessa finalità laici e credenti.

Nostalgia del recupero

Abbiamo descritto, osiamo sperare con la massima oggettività possibile, il processo che ha condotto dalla morale religiosa dell’età di mezzo alla religione morale della modernità crescente e, infine, al nichilismo etico della modernità decadente. Nella nostra epoca di passaggio dalla modernità alla postmodernità (cfr G. Morrà, Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità?, Armando, Roma 1996), alla consapevolezza del Nulla si associa, non di rado, una nostalgia del recupero.

L’Occidente comincia ad avvertire la gravita del relativismo etico e della morale della situazione, cui sembra essersi adeguata una società «debole» e «narcisistica» (Lasch) come la nostra; e sempre più forti si fanno sentire le esigenze di un recupero di valori permanenti, ora che le profezie di Dostoevskij e di Nietzsche (con la «morte di Dio» ogni cosa è permessa e, di conseguenza, non possono più esserci né logica, né morale, né società) si sono largamente verifìcate.

Sono segni ancora rari e dispersi, ma sufficienti per farci consapevoli che un processo innovativo di riscoperta dei valori tradizionali è già cominciato. La crisi è tale solo sino a quando la sua contraddizione non si fa manifesta. Oggi lo è non solo nella coscienza religiosa, ma anche in quella laica. La laicità (abbiamo cercato di mostrarlo col breve saggio Dai cattolici liberali ai liberali cattolici, pubblicato su questa rivista, anno 2007, n. 555) comprende sempre più che, se non vuole concludersi nell’autodissoluzione del laicismo, deve riscoprire i valori della tradizione europea, quelli della morale religiosa e quelli della religione morale.

Questa riscoperta fu intuita come possibile da Del Noce, proprio negli anni in cui esplodevano i peggiori miti anticristiani: «II pensiero laico è forse oggi giunto alla sua crisi decisiva, al momento in cui la contraddizione diventa manifesta. […] Le tesi tradizionali del pensiero cristiano possono oggi venire riscoperte nel loro significato autentico, a partire dalle contraddizioni insuperabili in cui deve necessariamente involgersi il pensiero che pretende averle superate» (op. cit, p. 183).