Quando la teologia e l’esegesi vengono piegate a presunte esigenze pastorali.

Innocenzo GarganoOsservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân Newsletter n.608 21 luglio 2015

 Silvio Brachetta contesta su Settimo Cielo la strana posizione di Padre Gargano

Stefano Fontana

Silvio Brachetta, giornalista e collaboratore del nostro Osservatorio, studioso di San Bonaventura da Bagnoregio ma non meno preparato sui Padri della Chiesa e sulla teologia in genere, è intervenuto in un dibattito a livello nazionale e i suoi scritti polemici sono stati pubblicati nel noto blog di Sandro MagisterSettimo Cielo. La disputa riguardava alcuni scritti del teologo camaldolese padre Guido Innocenzo Gargano. Su di essi Brachetta ha fatto da apripista, altri teologi sono in seguito intervenuti da varie parti del mondo per contestare la dubbia visione del padre camaldolese.

La tesi di padre Gargano

Riepiloghiamo brevemente. Fra Gargano in un saggio pubblicato sull’Urbanian University Journal, poi ripreso su Settimo Cielo,sosteneva che Gesù Cristo, pur avendo insegnato l’indissolubilità del matrimonio, non avrebbe tuttavia rigettato completamente la “legge vecchia” di Mosè che permetteva il divorzio. Mosè lo aveva fatto – così disse Gesù – per la “durezza del loro cuore”, ma questa durezza del cuore – sostiene Gargano – c’è anche oggi nei coniugi che si sono separati e che hanno costituito una nuova coppia. Nei loro confronti Gesù avrebbe usato misericordia ancor più di Mosè, perché la sua “legge nuova”, enunciata nel discorso delle beatitudini, toglie l’asprezza e il legalismo della legge vecchia.

Dato l’attuale dibattito sulla comunione ai divorziati risposati, si capisce bene dove la tesi di Gargano vuole andare a parare. Si tratterebbe di ammettere un “divorzio cattolico”.

Gargano basava la sua tesi, tra l’altro, su una particolare lettura di Matteo 5, 19: «Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli». Ci sarebbe, insomma, un salvezza minima e una salvezza massima. Ci sarebbe un minimo per entrare nel regno dei Cieli. L’atto di ripudio, che la legge mosaica permetteva, sarebbe un “precetto minimo” e colui che la attuasse entrerebbe – come minimo – nel regno dei Cieli. Gargano, poi, collega tutto questo con il discorso della montagna ove Gesù, secondo lui, avrebbe sostituito alla legge la misericordia.

La contestazione di Brachetta

E’ a questo punto che Brachetta pubblica la sua contestazione, dimostrando – Sant’Agostino, San Giovanni Crisostomo, San Cassiano e San Tommaso d’Acquino alla mano – che essa è sbagliata. Nessun Padre della Chiesa e nessun Dottore ha mai avvalorato una interpretazione come quella di Gargano, nonostante costui pretenda il contrario. L’hanno invece esclusa.

Quanto alle parole di Gesù – «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio» – non possono essere interpretate, nella loro chiarezza inoppugnabile, come una sorta di presa d’atto da parte di Gesù della “durezza di cuore”. Gesù revoca la liceità di dare l’atto di ripudio e conferma la condizione di adulterio per eventuali seconde nozze.

Inoltre il Discorso della montagna, che potrebbe essere visto come un ammorbidimento del Decalogo tramite la misericordia, invece è un suo inasprimento.

Quindi egli può concludere: «In realtà pare del tutto ambigua una sorta di liberazione dalla “littera” legalistica, come auspica Gargano, almeno per quanto riguarda il Decalogo. La strada della misericordia è invece indicata con chiarezza dalla Chiesa: pentimento del delitto contro la “littera” dei santi precetti e conseguente perdono da parte di Dio».

La disputa continua…

Alla replica di padre Gargano, che ripeteva con parole diverse i medesimi concetti del saggio precedente, e che spiegava la diversità delle due posizioni attribuendola alla diversità dei metodi di approccio al testo evangelico, Brachetta ribadiva le sue tesi:

1) non è vero, come sostiene Gargano, che Gesù abbia compiuto la Legge antica nel senso di Mosè, cioè nel senso di una Legge “più accondiscendente”;

2) ma anzi, e solo nell’ambito del Decalogo, Gesù ha inasprito il precetto, come si evince dal Discorso della montagna;

3) è vero che la Legge nuova del Cristo è diretta verso la misericordia, ma non depotenziando il Decalogo – dove il Decalogo è solo la prima metà della Legge – ma annullando l’applicazione della pena (“occhio per occhio”), che viene assunta dal Crocifisso, al posto dei peccatori (si evince sempre, ad esempio, dal Discorso della montagna).

«Sono intervenuto – scrive Brachetta nel suo secondo scritto su Settimo Cielo – nel tentativo di bloccare un’operazione non molto chiara nel metodo, ma chiarissima nel traguardo: sdoganare la liceità dell’atto di ripudio, rendere lecito il secondo matrimonio dopo il divorzio e indurre il Sinodo sulla famiglia ad ammettere ai sacramenti i divorziati risposati».

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L’equivoco farisaico di separare dottrina e prassi

Intervista a Silvio Brachetta

Caro Brachetta, intanto complimenti per la competenza e il coraggio intellettuale con cui è intervenuto in questo dibattito. In questa fase “sinodale” sono nate varie tesi teologiche spinte, che vorrebbero fare da supporto a radicali revisioni della dottrina e della prassi. Come mai secondo lei?

Perché gran parte dei teologi non fa più «teologia in ginocchio», rievocata da Joseph Ratzinger durante il suo pontificato. Ratzinger attingeva al teologo Hans Urs von Balthasar, che la contrapponeva alla «teologia a tavolino», sterile e presuntuosa. L’espressione però risale almeno a sette secoli prima, a San Francesco d’Assisi, che concedeva ai suoi frati lo studio teologico solo sulla via dell’umiltà, nell’obbedienza. Non è dunque teologo in ginocchio chi non fonda le proprie tesi sull’obbedienza alla dottrina di Cristo. E nemmeno chi adotta novità tali da contraddire i Padri e i Dottori della Chiesa. Ancor meno chi cerca di adattare il Testo sacro alle proprie opinioni. Viceversa, il teologo in ginocchio adatta le proprie opinioni alle Sacre Scritture e alla Tradizione apostolica.

Il lavoro del teologo, non dovrebbe essere – come diceva l’istruzione Donum veritatis (1990) del cardinale Ratzinger – di natura “ecclesiale”, ossia a servizio della Chiesa?

Certamente, nel senso di un servizio «pratico». Mi spiego. Per San Bonaventura, ad esempio, era inconcepibile il «momento speculativo» teologico senza il successivo «momento pratico», cioè la conoscenza che si traduce in azione salvifica reale, come da procedura tutta francescana. Ratzinger, in Donum veritatis, rispetta il primato bonaventuriano della Fede, che dev’essere poi affidata alla ragione, affinché «divenga comunicabile», trasmissibile ad altri esseri umani ragionevoli. Il teologo, allora, è chiamato innanzi tutto da Dio a servire la Verità, indagandone le profondità, realizzandola nell’azione e – nel momento successivo – a servire la Chiesa, con le opere di apostolato e di evangelizzazione.

Gli innovatori della prassi cattolica su matrimonio e sacramenti dicono di voler cambiare solo la prassi e non la dottrina. Però, come nel caso di Gargano da lei contestato, cambiano la dottrina, a cominciare dal senso delle parole di Gesù. Si tratta quindi di un trucco?

L’equivoco sta proprio nella separazione di dottrina e prassi. Aristotele concepiva l’ambito teoretico separato da quello pratico. Con il cristianesimo – e in particolare con il francescanesimo – questo non è più possibile: la dottrina serve alla prassi e, se il processo di comprensione della Fede è un “capire la Verità”, non per questo non sono necessarie anche le opere, che sono un “fare la Verità”. Sulle questioni legate alla Fede, “capire” e “fare” sono inseparabili, proprio perché coinvolgono le capacità umane soggettive (ragione e volontà), che assentono alla Verità oggettiva, a Dio. Il trucco è separare ragione e volontà le quali, come sostiene San Bonaventura, non sono sostanze, ma capacità dell’unica essenza psichica.

Secondo lei nel popolo cristiano quanta consapevolezza c’è della posta in gioco al prossimo Sinodo sulla famiglia?

Direi molto poca. Molto più oggi che in passato, nel laicato cattolico serpeggia il fariseismo, che separa il dire dal fare. Al peccato c’è rimedio, ma all’ipocrisia farisaica di rimedio ce n’è ben poco, specialmente senza una guida spirituale ferma ed autorevole. Circa il fariseismo, inoltre, è in voga un errore molto diffuso tra i fedeli: sembrerebbe che il fariseo fosse colui che ama le regole, la legge. No. Il fariseo segue le regole e le attua a modo suo, o non le attua. Cioè dice e non fa, che è, appunto, l’improvvida separazione di certi teologi tra dottrina e prassi. Chi invece ama la legge e la mette in pratica, si salva. Spesso chi ama la legge è additato come rigorista. Eppure, chi non ama la legge come può metterla in pratica?

(A cura di Stefano Fontana)