Una nuova mappa del bene comune

politicaStudi Cattolici n.562 dicembre 2007

La res publica in Italia è un campo di lotta fra partiti politici, gruppi di potere, di pressione e di influenza che perseguono interessi particolaristici senza alcuna reale responsabilità verso il bene comune. Questo esito storico deriva dal fatto che tutti gli attori, volenti o nolenti, sono forzati a condividere una concezione del bene comune e un assetto di Stato sociale di tipo hobbesiano. Si tratta dì una configurazione che oggi assume la forma di una democrazia lib-lab, in cui l’utilitarismo dei singoli viene regolato attraverso il controllo pubblico delle uguali opportunità.

Questa concezione storica del bene comune e dello Stato ha esaurito la sua spinta e diventa patogena. Occorre rifondare lo Stato sociale sulla base di una visione del bene comune alternativa alla soluzione hobbesiana e alla sua trasformazione nell’assetto lib-lab. Pierpaolo Donati, fondatore della sociologia relazionale e ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, delinea lo scenario dello «Stato sociale relazionale» e di un nuovo «welfare sussidiario». Presentiamo ampi stralci del suo intervento tenuto a Pisa lo scorso 19 ottobre nell’ambito delle celebrazioni per il centenario delle «Settimane sociali»

La situazione nella quale si trova lo Stato sociale italiano è sotto gli occhi di tutti: gli attori politicamente più rilevanti non perseguono il bene comune; basti l’esempio della perdurante iniquità nella distribuzione delle risorse fra le generazioni.

Nonostante sia evidente che l’Italia stia distruggendo da tempo e in tutti i modi le nuove generazioni, il sistema politico continua a distribuire diritti e risorse a gruppi e categorie sociali che tolgono opportunità- risorse e speranze di vita ai giovani.

La res publica è in mano ad attori che sono essenzialmente gruppi di potere particolaristici. Lo sono i partiti politici (una miriade), i gruppi di pressione e di interesse (centinaia quelli censiti. la maggior parte ignoti), incluse le organizzazioni sindacali e le associazioni di categoria e di rappresentanza, le migliaia di piccole e grandi lobby che sì comportano come vere e proprie bande annate le une contro le altre.

Questi attori collettivi particolaristici cercano di massimizzare i propri vantaggi senza curarsi delle conseguenze che il loro comportamento ha sul bene comune. La tesi che vorrei sostenere afferma che questa concreta società è il prodotto di un certo assetto deIlo Stato. L’incapacità dell’Italia di perseguire il bene comune deriva dall’avere un assetto istituzionale, operante spesso più di fatto che di diritto, il quale- rende del tutto improbabile il perseguimento del bene comune.

Chi persegue il bene comune viene penalizzato, mentre chi persegue il proprio interesse egoistico – purché lo faccia in modo formalmente lecito – viene premiato: e tutto ciò accade secondo regole riconosciute e istituzionalizzate. non come un effetto indesiderato e inatteso. Questo assetto è quello lib-lab. che rappresenta l’ultima versione del moderno Stato hobbesiano.

Il bene comune viene concepito come esito di un continuo compromesso fra Stato e mercato, cioè fra gli attori che sostengono il primato della politica contro il mercato (lab) e quelli che sostengono il primato del mercato sulla politica (lib). In apparenza questi attori si oppongono gli uni agli altri, ma nella realtà dei fatti essi condividono lo stesso gioco. Chi parla di bene comune restando dentro l’assetto lib-lab, anche con le migliori intenzioni, è destinato alle più grandi delusioni.

Prigionieri di HobbesE stato dimostrato che lo Stato moderno occidentale, e in particolare quello italiano, è stato costruito seguendo quella che le scienze sociali chiamano la «soluzione hobbesiana del problema dell’ordine sociale»: siccome gli uomini tendono per loro natura a regredire a una condizione di vita in cui valgono solo la forza e la frode, occorre che Qualcuno detti loro delle regole.

Nella sua formulazione più astratta: l’utilitarismo degli individui umani genera problemi di sicurezza che possono essere risolti solo mediante un contratto in cui ciascuno aliena le proprie prerogative a un Potere che decide le regole per tutti, assicurando le libertà proprietarie di tutti alla sola condizione che ciascuno non leda le libertà proprietarie degli altri.

Il Qualcuno di cui si parla è il Leviatano, che, ai tempi di Hobbes coincideva con il Monarca assoluto, ma è diventato in seguito suscettibile di metamorfosi. Di fatto, si è presto trasformato nella «Repubblica» di marca giacobina. Oggi, assume nuove forme. Gli Stati-nazione europei hanno costruito i loro sistemi di welfare in gran parte sulla base della soluzione hobbesiana.

Poiché, ancor oggi, di fronte alle difficoltà che il welfare state incontra, molti invocano una soluzione, se non proprio uguale, almeno simile a quella di un contratto sociale di tipo hobbesiano. vale la pena di approfondire se veramente tale strada sia percorribile per riformare il nostro Stato sociale in modo che le istituzioni possano perseguire un autentico bene comune.

Certamente il welfare state ha assunto svariale configurazioni nella sua storia; mi limito qui a ricordare la configurazione modale che emerge da un processo storico che in Italia conta più di un secolo. Io la chiamo lib-lab in quanto è basata su due pilastri: la competizione di mercato e il controllo politico delle disuguaglianze.

Per quanto il modello europeo sia distante da quello anglosassone-nordamericano, possiamo comunque affermare che i due modelli si sono a poco a poco configurati come due varianti di quella medesima soluzione hobbesiana lib-lab: il modello americano è decisamente più sbilanciato dal lato lib (priorità del mercato sullo Stato), quello europeo è assai più sbilanciato dal lato lab (priorità dello Stato sul mercato). Mentre quello europeo è sostanzialmente utilitaristico e materialistico, quello americano è sostanzialmente nominativo e volontaristico.

Due sono le figure cardine del pensiero di Hobbes che ritornano nell’assetto lib-lab del welfare: l’individuo proprietario e lo Stato. Ciò significa rendere irrilevanti le relazioni fra i consociati, sminuire l’importanza delle comunità e formazioni sociali intermedie, limitare il pluralismo sociale, in sintesi svalutare la socialità della persona umana, anche e precisamente come elemento costitutivo del welfare.

In questa configurazione, l’opposizione fra libertà e controllo sociale viene meno a favore di un assetto organizzativo in cui libertà e controllo sono fuse fra loro. Proprio la paura di una situazione del tipo homo homini lupus crea istituzioni di welfare come strutture che centralizzano il comportamento umano intorno alla propria esistenza e ai propri progetti, alimentando in tal modo l’isolamento delle persone, le quali, non potendo più ricorrere alla socialità diretta, devono affidarsi a una società che intensifica i contatti indiretti, mediati dai centri «istituzionali» di welfare che si prendono cura dell’individuo, organizzano e gestiscono il suo tempo e i suoi spazi.

Questo è il mondo delle istituzioni di welfare mix, le quali sono sempre meno coercitive e sempre più «seducenti». Siamo di fronte a un modello di welfare che non ha più bisogno di imporre delle scelte all’individuo, ma semplicemente gli pone davanti un ventaglio di opzioni a cui deve aderire in modo supposto indipendente, finendo così per congiungere libertà e controllo perché lo spettro delle scelte è controllato dalle istituzioni stesse.

La crisi dello Stato socialeII welfare che noi conosciamo si basa sull’idea di un conflitto di interessi fra attori materialistici, utilitaristici e individualistici, che non possono vivere in pace e creare benessere se non si sottomettono al Potere politico.

I paradigmi di crisi di questo modello sono stati enunciati, di volta in volta, come crisi endemica dei sistemi fiscali, come impossibilità di far fronte alla rivoluzione delle aspettative crescenti di benessere, come assistenzialismo passivizzante. A questi paradigmi, oggi dobbiamo aggiungere il fatto che il fenomeno della globalizzazione riduce i poteri degli Stati nazionali, crea nuove povertà e nuove sfide ecologiche che non hanno più confini nazionali.

Vorrei quindi sostenere la tesi che il modello lib-lab diventa sempre più intrinsecamente insostenibile, qualora sia pensato nei termini della soluzione hobbesiana dell’ordine sociale. Non solo non può affrontare i bisogni emergenti di welfare, ma, anzi, rivela di essere patogeno, in quanto genera i problemi di cui si suppone rappresenti la soluzione. Vediamo alcuni esempi.

Nell’approccio lib-lab, la società è un intreccio di economico e politico, Il resto è irrilevante per la cittadinanza, è sfera «privata». Ma se tutto ciò che sta fuori del binomio Stato-mercato diventa irrilevante agli effetti della cittadinanza, la cittadinanza deperisce.

Per il lib-lab, non esiste una alternativa alla combinazione di libertà individuali e di controllo ststemico-collettivo. Ma, proprio per il suo modo di funzionare, il dispositivo costituito dalla coppia lib-lab genera enormi problemi sociali che derivano dalla rimozione e distorsione delle relazioni intersoggettive. Nell’approccio lib-lab, la cittadinanza è per definizione incondizionata. Una delle conseguenze è che i doveri non sono affatto chiariti.

E’ evidente che, in generale, ci sono doveri (per esempio pagare le tasse), ma i doveri non hanno relazioni strutturate con i diritti e possono anche venire meno (per esempio, per certi gruppi di persone marginali, che si suppone non possano dare nulla alla società). In questa impostazione, proprio il fatto di considerare la cittadinanza come un puro e semplice conferimento di status, comporta che coloro i quali si trovano in condizioni socialmente deboli e marginali vengano confermati in una posizione considerata incapace di scambi socialmente rilevanti.

Lo scenario post-hobbesiano

La società diventa post-hobbesiana per due grandi ordini di ragioni. Con i processi di globalizzazione, non è più possibile ricorrere a un’autorità del tipo Leviatano per mettere ordine nella società; il grado di complessità è troppo elevato, e d’altra parte la complessità non può essere ridotta in modo esterno e coercitivo nei confronti degli individui; la riduzione della complessità deve aprire nuove possibilità, non chiuderle.

Emerge una società civile che non è certamente quella del Seicento: gli individui sono più consapevoli del carattere inalienabile dei loro diritti fondamentali, sono mediamente più informati e soprattutto attivano reti organizzate per risolvere autonomamente i loro problemi, reti che non necessitano di un government (potere vincolante), ma di una governance (coordina-mento aperto); inoltre, l’espansione del terzo settore e del privato sociale modifica radicalmente la relazione fra Stato e mercato. I nodi del modello hobbesiano possono essere cosi sintetizzati.

1) Il welfare non può essere costruito su una visione antropologica negativa come quella hobbesiana. Un’altra modernità, quella della visione positiva dell’uomo, della sua dignità e dei suoi diritti, si sta affacciando all’orizzonte come soluzione alternativa.

2) II welfare non può più essere costruito sulla base della distinzione moderna (hobbesiana) fra pubblico e privato. La sfida diventa quella dei «servizi di interesse generale» (s.i.g,), su cui la Unione Europea ha posto l’attenzione in vista di una nuova normativa con la quale aprire uno scenario di servizi di welfare che sono da considerare «pubblici» non perchè siano statali, ma in quanto sono di interesse generale a prescindere dalla natura dell’ente proprietario o erogatore del servizio.

3) Le identità culturali, incluse quelle religiose, non possono essere «privatizzate», non possono essere dichiarate irrilevanti per la sfera pubblica, e quindi per il welfare «pubblico».

4) Il controllo organizzativo centralizzato nelle istituzioni di welfare viene sostituito da reti sociali (originarie e originali), che sono intrecci plurali di relazioni formali e informali, il cui metro di qualità è dato dulia capacità di generare capitale sociale.

E’ tutta la moderna concezione hobbesiana dell’ordine sociale come compromesso e fusione fra libertà e controlli che crolla. Al suo posto subentra un «ordine societario», che nasce da un radicale cambiamento delle definizioni di ciò che è pubblico e di ciò che è privato e dalla connessa ripresa della valenza pubblica delle identità culturali.

Per un welfare relazionale

Se vogliamo perseguire un «nuovo welfare», dobbiamo guardare in nuove direzioni, quelle dei bisogni reali della gente, soprattutto quelli che sono in discontinuità con il passato. Questi bisogni stanno su due fronti. Il primo fronte riguarda la definizione di benessere, che non può più essere concepito come puramente materiale, utilitaristico e individuale (dell’individuo proprietario hobbesiano), né può ricorrere a soluzioni normativo-volontaristiche, ma deve farsi relazionale, nel senso che la felicità sta nelle relazioni e non negli oggetti-merce

Il secondo fronte riguarda i contenuti etici delle azioni di welfare. Le misure di welfare non possono più essere eticamente indifferenti o neutre, ma devono diventare eticamente qualificate. Ciò significa che il fine etico deve essere introdotto nella funzione-obiettivo delle azioni di welfare, sia per quanto riguarda gli aspetti economici sia per quanto riguarda quelli socio-relazionali.

Una tale modificazione delle basi culturali e normative del welfare non può essere gestita da un nuovo Leviatano. Occorre una configurazione capace di mettere in sinergia l’integrazione sistemica con quella sociale. Il che significa che occorre una governance ispirata al principio di sussidiarietà.

Mentre il contratto che genera il Leviatano si basa sulla sfiducia e il sospetto reciproci, lo Stato sussidiario si basa sul rispetto della dignità di ciascuno e sull’agire per accrescere, non diminuire, le autonome capacità dell’altro. Vale la pena di sottolineare che il principio di sussidiarietà introduce una discontinuità radicale nei confronti dell’ordine (sociale, economico, culturale, politico) tipicamente moderno.

Infatti, l’adozione del principio di sussidiarietà come principio architettonico di un nuovo ordine sociale, che va dal livello micro (relazioni interpersonali) al livello macro (relazioni internazionali), passando per lutti i livelli intermedi, configura una società alternativa sia a quella liberale (lib) sia a quella socialista (lab), entrambe intese in senso stretto (moderno), sia anche ai loro mix (modelli lib-lab).

Una nuova visione del socialeL’alternativa allo Stato hobbesiano è uno Stato relazionale. Lo Stato sociale post-hobbesiano non coincide con lo slogan «meno Stato, più mercato», ma con uno Stato che si interfaccia con una società che non è concepita come mercato di profitto, bensì come economia civile e come welfare civile.

Alla base della revisione dei sistemi scolastici, sa-nitari, di assistenza sociale, di previdenza e sicurezza sociale, di servizi alla persona, emerge la centralità del nesso fra libertà e responsabilità non solo per quanto riguarda il comportamento dei singoli individui, ma delle conseguenze dei loro comportamenti nei confronti degli altri quale alternativa alla soluzione hobbesiana che solleva gli individui dagli effetti non intenzionali e aggregati delle loro azioni tramite un’autorità collettiva.

La soluzione hobbesiana del bene comune consiste nel trasformare l’utilitarismo di natura in un utilitarismo regolato attraverso un contratto fra i consociati che consenta di gestire i conflitti sociali. La soluzione post-hobbesiana che prospetto non è una soluzione di semplici regole, tantomeno procedurali. Essa non rifiuta, ovviamente, la figura del contratto, ma non può accettare che tale figura risolva tutto ciò che riguarda il welfare. Se il benessere della persona e della società è una relazione sociale originaria, occorre una diversa visione del sociale.

Una soluzione post-hobbesiana

Se per Hobbes il sociale originario è uno stato selvaggio di guerra feroce, e il sociale diventa civile solo attraverso la politica, orientarsi a una soluzione post-hobbesiana significa: assumere che il sociale sia costituito dalle relazioni originarie che le persone, le loro formazioni sociali, la società come insieme di relazioni fra le varie sfere di vita esprimono a partire dalla loro natura umana, e regolare i conflitti attraverso quelle costituzioni civili che, operando nel quadro delle costituzioni politiche e in relazione a esse, articolano la cittadinanza societaria (civile) nelle varie sfere di vita in modo da rendere sinergici gli interessi e le identità.

Passare da una soluzione hobbesiana a una post-hobbesiana significa abbandonare un sistema statuale che genera sempre ulteriori conflitti attraverso la soggettivizzazione dei diritti, per passare a un sistema societario che stimola e agevola gli attori dei conflitti ad attuare una concorrenza solidale per risolvere fra di loro i problemi, senza che ciò significhi invocare un nuovo Potere politico.

Centralità della persona

La nuova mappa del bene comune deve saper individuare i luoghi e gli attori che lo producono e occorre evitare di adottare gli approcci sia olistici sia individualistici. Nelle condizioni storiche a cui siamo pervenuti il bene comune non può più essere inteso in maniera «olistica», come se fosse un tutto che determina le parti.

Il bene comune è certamente un bene universale. Ma non è un «bene totale». Parimenti, occorre evitare gli approcci ispirati al cosiddetto individualismo metodologico, come se il bene comune fosse il prodotto degli individui come tali. L’idea che il bene comune sia nient’altro che la proiezione e la convergenza di individui liberati da ogni vincolo sociale è stata dimostrata falsa e fuorviante.

E’ vero che lo Stato lib-lab ha come sua ideologia proprio l’individualismo emancipativo, ma proprio perché tale ideologia ha come caratteristica di base il fatto che in essa gli individui si relazionano più sulla base di ciò che li differenzia che sulla base di ciò che li accomuna, è evidente che ci troviamo di fronte a un’ideologia che contrasta radicalmente con ogni nozione plausibile di bene comune.

Il bene comune deve essere costantemente generato e rigenerato attraverso dei processi sociali in cui sia data la centralità alla persona umana, alle sue relazioni di mondo vitale e alle sue formazioni sociali, quelle che fanno la società civile. Si tratta di processi che noi oggi possiamo e dobbiamo concepire in termini di morfogenesi sociale. ossia di processi che, preso atto di certi condizionamenti strutturali di partenza nei confronti degli attori sociali, portano a una situazione in cui gli attori interagiscono fra di loro per modificare le strutture sociali (e le stesse istituzioni) in modo da generare concreti beni comuni.

Questi beni, pertanto, sono, e non possono non essere, beni relazionali, perché possono essere prodotti e fruiti soltanto assieme da coloro che sono interessati a essi. Il bene relazionale guarda al bene delle relazioni prima che a quello degli interessi individuali, di gruppo o di categoria. Le relazioni a cui il bene allude sono quelle dei soggetti coinvolti nei bisogni di cui si tratta, e quelle che ne vengono di riflesso alla comunità societaria tutta intera.

Il criterio per individuare il bene comune come bene relazionale si basa sul principio di reciprocità positiva. Pensiamo a che cosa questa visione potrebbe penare nei rapporti fra uomo e donna nella famiglia e nella società, nella formazione scolastica dei ragazzi. nell’organizzazione dei servizi di cura: ma anche nei sistemi previdenziali e assicurativi pensati non per l’individuo come tale, ma per la successione fra generazioni contigue.

Avremmo una configurazione completamente diversa da come oggi viene inteso il bene comune, che è generalmente inteso come somma dei beni individuali acquisiti attraverso opportunità individuali: il bene comune sarebbe invece la loro relazione di scambio per generare quei beni che provengono dallo stare in una relazione di reciprocità.

Il bene comune inteso in senso relazionale non è un tutto già preordinalo o il risultato di utilità individuali. E’ invece «relazionale» se, in quanto e nella misura in cui può essere generato soltanto assieme, non è escludibile per nessuno che abbia parte, non è frazionabile e non è neppure una somma di beni individuali. Dire che un bene è bene comune, significa dire che è bene relazionale in quanto è un tipo di bene che dipende dalle relazioni messe in atto dai soggetti l’uno verso l’altro e può essere fruito solo se essi si orientano di conseguenza.

In questo senso, la vita umana è oggetto di godimento e quindi di diritti non in quanto bene privato, individuale nel senso di individualistico, né pubblico nel senso tecnico moderno di bene statuale, ma propriamente come bene comune dei soggetti che stanno in relazione.

Un’altra società civile

La società odierna infatti esprime l’esigenza di nuovi beni comuni in un senso fenomenologico molto preciso: beni comuni nel senso che solo comunità di persone, solo gruppi primari e gruppi associativi possono esprimerli e tutelarli. Il punto è che l’etica pubblica che sostiene l’attuale legislazione dello Stato non è adeguata a creare quelle condizioni che possono condurre gli stessi portatori di interessi e di identità a generare il bene comune. Perché?

L’etica pubblica del lib-lab non offre soluzioni efficaci ai problemi sociali perchè lascia completamente da parte il problema di coinvolgere i poveri, gli emarginati, i devianti e anche i violenti nella soluzione dei loro problemi come problemi comuni. Nel campo delle politiche sociali è oggi ormai ben chiaro che non è così che si risolvono i problemi.

Pace, sviluppo sostenibile, ambiente sano, uscita dalla povertà e dal degrado sociale sono beni comuni che possono essere ottenuti solo «relazionalmente»: cioè a dire, possono essere prodotti solo assieme, non sono una somma di utilità individuali, ma una funzione di soggetti che stanno in relazione e una funzione delle loro relazioni complessive, interne ed esterne.

Passare dallo Stato del benessere alla società del benessere non è un’operazione che possa essere compiuta da meccanismi politici istituzionali che operano nella cornice delle negoziazioni e dei compromessi fra mercato e democrazia politica, concedendo graziosi riconoscimenti al privato sociale (ridotto a «terzo» settore residuale e colonizzato), costretto a chiedere elemosine o a farsi forza di tipo sindacale, e continuando a trattare le famiglie come se fossero dei mendicanti.

Non significa mescolare apparati di Stato e agenzie di profitto o non profit che ne sono clienti, «mettendole in rete» come oggi molti dicono. Ma significa, invece, emancipare un’«altra» società civile, con specializzazione delle sue funzioni rispetto a quelle delle istituzioni politiche e del mercato.

Lo Stato sociale relazionale

La società della solidarietà sussidiaria ha la sua forma politica in quello che io chiamo lo «Stato sociale relazionale». Che cos’è uno Stato relazionale? A mio avviso, esso si caratterizza per le seguenti modalità di configurazione. Lo Stato relazionale non è più concepito come Vertice e Centro della società, ma come sotto-sistema politico-amministrativo funzionalmente differenziato per il governo di una società che è osservata e agita come «rete» di soggetti e istituzioni sociali (pubbliche, private e miste) che perseguono il bene comune come creazione di beni relazionali.

Nel suo aspetto di istituzione, lo Stato diventa un insieme di apparati che hanno specifiche funzioni politiche e amministrative, le quali devono operare in maniera sussidiaria rispetto agli altri sotto-sistemi fondamentali della società, e cioè il mercato, la società civile e il sotto-sistema delle famiglie e reti informali.

La «cittadinanza complessa»

Lo Stato relazionale si configura come un ordinamento giuridico e sociale che deve realizzare la «cittadinanza complessa». La cittadinanza è detta complessa per tre ordini di motivi:

a) perché riconosce non solo i diritti civili, politici ed economico-sociali, ma anche i diritti umani (i diritti della persona umana in relazione alle formazioni sociali in cui essa si sviluppa e svolge le sue attività): si tratta di quattro diverse «generazioni di diritti», di cui l’ultima è ancora in corso di definizione.

b) Perché intreccia fra loro la cittadinanza statuale (la cittadinanza tradizionale, definita come appartenenza dell’individuo allo Stato nazionale) e la cittadinanza societaria (definita come appartenenza delle persone a forme associative di società civile che hanno un riconoscimento di soggetti collettivi – pubblici, ma non statali – che agiscono con funzioni politicamente rilevanti nella sfera pubblica locale, regionale, nazionale, sovranazionale); e con ciò rende possibili delle forme differenziate e multiple dì cittadinanza.

c) Perché la cittadinanza complessa non si riferisce solo agli individui, ma anche alle formazioni sociali di società civile (ciò che costituisce un motivo di forte discontinuità con la modernità); in effetti, dal punto di vista sociologico, lo Stato sociale relazionale nasce quando le costituzioni politiche tipicamente moderne (dell’Ottocento-Novecento) vengono riformate attraverso processi di costituzionalizzazione delle sfere privale, cioè di attribuzione di un valore politico (che autorizza decisioni collettive vincolanti per il bene comune), e le connesse funzioni pubbliche, a organizzazioni di carattere non statuale.

Lo Stato relazionale si de/centra e si articola «in modo associazionale» (o federativo) sia verso l’alto (per esempio Unione Europea), sia verso il basso (comunità locali e organizzazioni di società civile). Le conseguenze sulle politiche sociali sono di enorme portata. Il passaggio dal welfare state tradizionale allo Stato sociale relazionale del nuovo welfare, infatti, comporta almeno tre grandi cambiamenti strutturali.

1) In primo luogo, cambia il codice simbolico che presiede alle politiche dell’inclusione (o coesione) sociale: il codice simbolico prevalente non è più quello statuale (per il quale il bene comune è per definizione statuale), ma diventa quello che denomino codice- simbolico re/azionale (per il quale il bene comune è quello relazionale),

2) In secondo luogo, le politiche sociali diventano una funzione diffusa della società, cioè una funzione che viene perseguita da una pluralità di attori, pubblici e privati, combinati e intrecciati («relazionati») in vari modi fra loro (welfare plurale, concezioni societarie e multistakeholder delle organizzazioni di welfare, e altre ancora),

3) In terzo luogo, le politiche sociali, che sinora si sono rette primariamente sui due pilastri della libertà (lato lib o del mercato) e dell’uguaglianza (lato lab o dello Stato redistributore), debbono istituzionalizzare un «terzo pilastro», quello della solidarietà, come polo autonomo, distinto e non derivabile dagli altri due.

Lo Stato sociale relazionale vuole sottolineare la necessità di un salto di qualità. Lo Stato relazionale è una nuova configurazione di libertà, uguaglianza e solidarietà che non rende residuale la solidarietà sociale, perché non la intende come beneficenza, carità o compensazione per i più deboli ed emarginali, ma la pone sullo stesso piano della libertà e dell’uguaglianza di opportunità. anche in termini di elaborazione di diritti (i nuovi «diritti relazionali») e di produzione di beni e servizi (i nuovi «beni relazionali») di welfare.

Un arricchimento reciproco

In sintesi: lo Stato sociale relazionale è quello che concepisce il bene comune come un bene che valorizza le relazioni di reciproco arricchimento degli attori liberi e responsabili che fanno il welfare. Esso realizza una «cittadinanza complessa» che opera attraverso la valorizzazione del principio di relazionalità applicato al campo delle politiche sociali.

Le politiche sociali non sono intese come politiche settoriali e residuali per i poveri e i bisognosi, ma come una forma generale di azione riflessiva della società su sé stessa, in termini di produzione e distribuzione di lutti i «beni» sociali (in senso lato), senza separare fra loro le condizioni «normali» e le condizioni «particolari» (a rischio, devianti o palologiche).

La relazionalità che connota la cittadinanza complessa opera a tutti i livelli territoriali e in ogni settore di intervento, come cittadinanza che deve essere «estesa» a tutti i potenziali attori (non «beneficiari» passivi, ma soggetti attivi che la scelgono e la attuano) e deve essere resa «profonda», cioè concreta e situata.

Questa e la nuova frontiera del bene comune. Le modalità relazionali modificano in maniera sostanziale le caratteristiche gerarchiche, burocratiche, assistenziali, disciplinari «lavoristiche» (cioè strettamente dipendenti dal mercato del lavoro), che sono state tipiche del welfare state tradizionale del Novecento e oggi vengono riproposte, in varie versioni, dall’assetto lib-lab.