La sentenza Englaro e i limiti della «supplenza legislativa»

EnglaroStudi cattolici n.575 gennaio 2009

di Francesco Mario Agnoli

Sono almeno cinquant’anni che si discute se, in base alla Costituzione, la magistratura costituisca un potere o un ordine e proprio quando la tesi dell’ordine sembrava avere definitivamente prevalso, la magistratura ha dimostrato coi fatti di essere un potere, anzi un potere in espansione, che, attraverso l’utilizzo dello strumento dell’interpretazione creativa (ultima versione dell’interpretazione evolutiva oggetto di tante e virulente polemiche negli anni Sessanta), si sta attribuendo una porzione sempre maggiore del potere di governare.

Il fenomeno è ben noto alla scienza giuridica e alla politica statunitense, dove fin dagli anni Ottanta l’«originalismo» (una corrente di pensiero caratterizzata dal costante richiamo dei suoi pensatori all’ispirazione originaria della Costituzione di quella Repubblica) ha evidenziato e continua, giorno dopo giorno, a evidenziare, i pericoli delle derive interpretative-creative di quella Corte Suprema.

La dottrina originalista pone al centro della propria indagine il rapporto fra legge e potere giudiziario, esprimendo l’esigenza che il giudice nell’interpretazione del testo costituzionale (l’attenzione è rivolta, inevitabilmente in un sistema di common law, alle norme costituzionali e alla Corte Suprema, i cui componenti non sono elettivi, ma nominati a vita dal presidente) sia rispettoso del ruolo della legge, si pronunci su ciò che la legge è e non su ciò che, secondo, il giudice, dovrebbe essere.

In sintesi, il potere giudiziario deve, al pari di ogni altro potere, rispettare i limiti fissati dalla legge. Il che significa non che si debba mettere in dubbio il sacrosanto principio dell’indipendenza del giudice, ma che la contropartita di questa indispensabile indipendenza è l’obbligo di esercitare il potere attribuitogli in modo restrittivo.

Il giurista statunitense Robert Heron Bork ritiene che se questo obbligo non viene osservato «la democrazia americana corre il rischio di essere governata da una classe di giuristi non eletta e non rappresentativa». Difatti, se il potere giudiziario debordasse dalle aree assegnategli dalla Costituzione «non vi sarebbe legge diversa dalla volontà del giudice e la legge sarebbe la volontà del giudice»  (1).

II primato li della legge

A differenza che in America (e in Gran Bretagna), tuttora legata, nonostante alcuni recenti strappi, ai principi della common law, nell’Europa continentale e, quindi, in Italia il sistema vigente è quello della civil law, che, in linea di principio, attribuisce una posizione centrale al primato della legge anche non costituzionale, ritenuta l’espressione tipica e irrinunciabile della sovranità popolare.

Di conseguenza molto più ristretti sono, o dovrebbero essere, gli spazi di autonomia lasciati, così come a ogni altro potere, al giudiziario, pur senza arrivare all’estremo illuminista, che vorrebbe il giudice semplice «bocca della legge». Ciò nonostante, in particolare in Italia, l’opera della magistratura, e non solo di quella costituzionale (le cui cosiddette sentenze additive sono, in concreto, veri e propri atti legislativi), ma anche dell’ordinaria, si caratterizza, all’opposto del self-restraint suggerito dal Bork, per un costante ampliamento del proprio campo d’azione.

Il fenomeno non è recente (da tempo la dottrina conosce la «funzione innovativa» dell’autorità giudiziaria e la sua cosiddetta «supplenza legislativa»), ma le sue iniziali manifestazioni non hanno turbato un’opinione pubblica non in grado di valutare i tecnicismi con i quali le si giustificavano e, soprattutto, scarsamente interessata ai settori nei quali si sbizzarriva la creatività giudiziaria.

Insomma finché ci si è limitati (per attenersi ai casi di genesi giurisprudenziale forse maggiormente rilevanti, anche perché di più frequente applicazione) in penale al concorso esterno in associazione mafiosa e, in civile, all’occupazione espropriativa (o accessione inversa) le critiche sono state limitate all’ambiente dei tecnici del diritto, anche se l’istituto dell’occupazione espropriativa è stato poi dichiarato illegittimo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la decisione 9 febbraio 2006 in causa Prenna e altri vs Italia (il che, oltre tutto, la dice lunga sulla bontà di queste creazioni normative-giurisprudenziali).

Da ultimo però la tendenza dei giudici a interventi che, uscendo dai limiti loro assegnati, invadono di fatto le competenze del legislativo si è estesa a campi di grandissimo impatto sull’opinione pubblica, che, in bene o in male, si sente direttamente coinvolta. Coinvolgimento in sé e per sé non degno di considerazione per i giuristi, chiusi nella torre d’avorio del tecnicismo puro, ma tutt’altro che politicamente (e, quindi, anche giuridicamente) irrilevante.

Non per nulla anche autori che pure non rifiutano in via di principio la «supplenza legislativa» dell’autorità giudiziaria scrivono che se questa è «accettabile e anche utile per problematiche condivise, o avvertite tali, non sembra esserlo parimenti per questioni complesse e dirompenti, caratterizzate da profonde fratture ideali e di fede, soprattutto in una materia […] che tocca diritti personalissimi e non delegabili, come quello alla vita» (2).

In simili casi, quanto meno in un sistema che voglia continuare a definirsi democratico, solo il potere legislativo, diretta emanazione della sovranità popolare, è legittimato a intervenire.

Le procedure utilizzate per realizzare queste forme di interventismo giudiziario (in Italia o realizzate nei fatti o supportate e giustificate da argomentazioni da tecnicismo giuridico, ma in America apertamente teorizzate anche da alcuni giudici della Corte Suprema [3]) seguono percorsi ormai consolidati.

Per esempio, nel caso dell’occupazione espropriativa la Corte di Cassazione si è proposta il fine (non voluto o trascurato dal legislatore) di evitare che le norme sull’accessione degli immobili costruiti su terreno altrui trovassero applicazione nei confronti (ai danni) della Pubblica amministrazione e, non rinvenendo una norma che consentisse di discriminare questo caso per sottrarlo alla regola generale contenuta nel Codice civile, ha supposto l’esistenza di un vuoto legislativo e ha provveduto a colmarlo (fino alla smentita della Corte europea dei diritti dell’uomo).

In altri casi ci si adegua al modus procedendi della Corte Suprema americana, la cui giurisprudenza è da tempo orientata a estrarre nuovi diritti non espressamente previsti da quelli sanciti dalla Costituzione.

Nell’opera sull’originalismo curata da Steven G Calabresi vengono citate due sentenze della Corte Suprema separate nel tempo da oltre un secolo e in apparenza opposte (almeno secondo la corrente vulgata della cultura liberai, che condanna, giustamente, la schiavitù e considera, ingiustamente, l’aborto un progresso), ma in realtà identiche e ugualmente aberranti, quali esempi estremi di prevaricazione dell’uomo sull’uomo.

La prima, del 1857 (caso Dred Scoti vs, Sandford) scoprì il diritto di importare schiavi nella clausola del giusto processo di cui al V emendamento della Costituzione federale. La seconda, del 1973 (caso Roe vs. Wadé), ha ricavato il diritto all’aborto dalla clausola del giusto processo di cui al XIV emendamento sulla tutela della privacy.

È attraverso questo procedimento che, in particolare nell’ultimo quarto del secolo ven-tesimo, si è ricavata dai fondamentali diritti umani, universalmente riconosciuti, una serie sempre più numerosa di cosiddetti diritti civili, che, distinguendo e parcellizzando, o distorcono o distruggono, capovolgendola, la matrice dalla quale si pretende di estrarli (4).

Sentenze ordinarie & «superleggi»

Ovviamente vi sono differenze negli esiti fra le sentenze di natura costituzionale e quelle emesse dalla magistratura ordinaria. Le prime, sia che si limitino ad abrogare in tutto o in parte una legge vigente, sia che, manipolando l’esistente, ne completino o modifichino il contenuto (sentenze additive), conseguono direttamente un risultato legislativo.

Meglio, sono produttive di provvedimenti qualificabili come «superleggi», in quanto non di rado finiscono con l’espropriare il legislatore del potere di disciplinare diversamente la materia (si pensi ai vani tentativi dei parlamenti statali americani e dello stesso governo federale di intervenire sulle conseguenze della sentenza Roe-Wade per vietare le pratiche abortive).

Le seconde hanno un’operatività ridotta per l’impossibilità di superare il limite che ne circoscrive l’efficacia al caso concreto esaminato. Tuttavia, anche al di là dell’influenza che ogni decisione, in particolare se innovativa e se pronunciata dagli organi di vertice della giurisdizione, esercita sui casi successivi (pur senza arrivare alla vincolatività del principio anglosassone dello stare decisis, anche in Italia gli «arresti» della Cassazione hanno assunto un’autorevolezza e un peso via via crescenti, che saranno consolidati dalle riforme in corso di approvazione), attraverso queste sentenze i giudici esercitano di fatto, e con particolare vigore proprio nei casi di maggior rilievo e, quindi, di maggior contrasto, una sorta di iniziativa legislativa extra ordinem.

È difatti inevitabile che sentenze di questo genere sollecitino, anche indicandone in un senso o nell’altro il contenuto, l’intervento del potere legislativo o per confermare il principio innovativo affermato (e indubbiamente l’autorevolezza dell’organo gioca a favore di questa soluzione) o per impedirne la propagazione e stabilizzazione.

Il più recente esempio è costituito dalla sentenza della Corte di Cassazione che ha autorizzato il padre di una giovane donna in coma, Eluana Englaro, a interromperne la nutrizione e l’idratazione (5) attraverso un lavoro ermeneutico che ha portato all’affermazione di un nuovo principio «formulato come un vero e proprio comma di legge (una sorta di esimente o di deroga alle ipotesi di reato previste» (omicidio del consenziente e assistenza al suicidio) non solo «in una situazione di vuoto legislativo, ma in presenza addirittura di norme penali di segno opposto» (6).

Nonostante la sua diversa efficacia diretta, la sentenza Englaro è a rischio di essere per la fine della vita quasi altrettanto disastrosa della sentenza Roe-Wade per il suo inizio. Difatti all’affermazione giurisprudenziale, per quanto infondata, dell’esistenza di un vuoto legislativo in una materia che concerne direttamente la vita umana e alla sostanza con la quale si è inteso colmarla, non può che seguire la generale sollecitazione a un immediato intervento del legislatore.

Tuttavia questa riappropriazione di competenze resta inevitabilmente e pesantemente condizionata dall’esistenza e dal contenuto della sentenza, che finisce così per assumere, di fatto, il ruolo politico di un vero e proprio disegno di legge.

* * *

1) Le citazioni sono tratte da Originalismo. Venticinque anni di dibattito. Una recensione di Mauro Ronco («Cristianità» n. 347-348, Piacenza 2008, pp. 17 ss.). L’a. recensisce il volume Originalism: A Quarter-Century of Debole, con prefazione del giudice della Corte Suprema Antonin Scalia; a cura di Steven G Calabresi; Regnery Publishing Inc., Washington 2007. Il curatore del volume è co-fondatore e presidente del Consiglio Direttivo della Federalist Society for Law and Public Policy Studies.
2) Stefano Spinelli, Perché mai non dovrebbe rilevare il «diritto alla vita» nella richiesta di interruzione dell’alimentazione forzata?, in «lustitia» n. 3/2008, Giufrrè, Milano, p. 361.
3) Fra questi in primo piano Harry Blackmun, autore dell’opinione di maggioranza nella sentenza Roe vs Wade.
4) Per un maggiore approfondimento sul punto mi permetto di richiamare il mio L’Europa fra diritti umani e ’68, Fede & Cultura, Verona 2008.
5) Nonostante che con la sua ultima decisione la Cassazione si sia limitata a dichiarare improponibile il ricorso della Procura Generale di Milano avverso il decreto 9/7/2008 di quella Corte di Appello (che costituisce, quindi, il titolo autorizzativo alla soppressione), è alla Cassazione che va riportata la sostanza del provvedimento. Difatti un primo ricorso proposto dal padre di Eluana venne dichiarato inammissibile sia dal tribunale di Lecco che dalla Corte di Appello milanese. Analoga pronuncia in tribunale, Appello e Cassazione per un secondo ricorso. Il terzo, dopo un’identica dichiarazione di inammissibilità in primo grado, fu ritenuto ammissibile, ma respinto nel merito in appello. Provvedimento cassato però dalla Cassazione, che, fissando le linee-guida cui attenersi, dispose il rinvio ad altra sezione della Corte di Appello, che nel suo decreto conclusivo non ha fatto che applicare il principio di diritto fissato dalla Cassazione con la sentenza n. 21748 del 16/10/2007.
6) Cfr S. Spinelli, op. cit, p. 364.