Accoglienza, occhio all’equivoco

immigratiIl Timone n.144 giugno 2015

 Arrivano a decine di migliaia sulle nostre coste. Giusto pensare all’accoglienza, ma con certe regole e secondo giustizia. Ai cattolici il compito di incontrarli e di offrire loro il messaggio di Cristo

di Riccardo Cascioli

Guardando agli accadimenti degli ultimi mesi e mettendo a confronto quella che è stata definita “emergenza sbarchi” e la risposta dei governi europei, Italia in testa, si ha la sconsolante impressione di impotenza davanti a un fenomeno che resta ampiamente sottovalutato.

Da una parte infatti si assiste a un crescendo di arrivi sulle coste italiane, che mette in crisi tutti i sistemi di accoglienza, dalle strutture di primo asilo ai controlli sanitari fino ai tentativi di distribuzione sul territorio. Nel 2014 si è registrato il numero record di 170mila arrivi, più dei tre anni precedenti sommati insieme, e il triplo del 2011 quando ci fu l’emergenza Nord Africa. E il 2015 si annuncia anche peggiore: 70mila arrivi nei primi 4 mesi. Senza parlare delle migliaia di morti in mare, molti dei quali durante le operazioni di soccorso, come è accaduto nella notte tra il 18 e 19 aprile scorso, la peggiore tragedia della storia nel Mar Mediterraneo, con un numero di vittime tra le 700 e le 900.

Sul fronte politico, invece, dopo la discussa sostituzione dell’operazione italiana Mare Nostrum con quella europea Triton), in Europa si litiga su tutto e le iniziative sono minime. L’unico dato positivo è che sempre più Paesi dell’Unione Europea hanno almeno cominciato ad accettare l’idea di parlarne e di affrontare il problema a livello europeo, ma sulle misure da prendere è notte fonda.

Il 18 maggio i ministri degli Esteri e della Difesa hanno dato il via libera alla missione navale per colpire gli scafisti, ma si dovrà aspettare il voto favorevole del Consiglio di sicurez­za dell’Onu per poter diventare operativi, e in ogni caso sono da chiarire le modalità d’intervento. Nello stesso tempo il responsabile europeo della politica estera, Federica Mogherini, ha annunciato il piano di distribuzione per 20mila richiedenti asilo nei 28 paesi europei, misura che però incontra molte resistenze e la cui attuazio­ne resta quindi un’incognita. Quindi, bene che vada ci sarà da aspettare un bel po’ per vedere attuate delle misure che peral­tro appaiono inadeguate rispetto alla gravità del problema.

È ormai chiaro infatti che la situazione da gestire non può più essere definita un’emergenza, è casomai una gravissima e drammatica normalità. Contrariamente a quel che viene fatto credere da gran parte dei politici e della stampa, i profughi che vengono soccorsi nel Mediterraneo in massima parte non fuggono dalla guerra, ma da situazioni economiche e sociali disagiate. Nulla di male, ovviamente, nel desiderare di trovare condizioni di vita migliori, ma se questo è il caso bisogna essere consapevoli che – come ha dichiarato a La Nuova Bussola Quotidiana il demografo Giancarlo Blangiardo – «ci sono 100 milioni di giovani nell’Africa subsahariana che potrebbero arrivare nei prossimi dieci anni».

Basterebbero già questi dati per consigliare un affronto serio del problema, che invece è perlopiù affrontato in modo strumentale per non dire elettoralistico. Da una parte ci sono quelli del “tutti dentro” – presidente della Camera in testa – e dall’altra quelli del “tutti a casa loro”, slogan che sta facendo la fortuna della Lega. In campo cattolico, invece, la parola d’ordine è “accoglienza”.

Purtroppo però questa parola è generalmente intesa in senso molto riduttivo, ovvero nel senso di trovare una sistemazione in Italia e in Europa a tutti coloro che prendono la via del mare, senza porsi nessun’altra domanda. Posizione certamente generosa nelle intenzioni, ma estremamente pericolosa nei fatti, sia per i migranti sia per i cittadini europei.

È pericolosa anzitutto per chi cerca di arrivare sulle nostre coste, perché i fatti dimostrano che la causa delle morti in mare è proprio nel salire su uno di questi barconi. Per quanti se ne possano salvare c’è sempre una consistente parte che purtroppo muore in mare, senza contare tutte quelle migliaia che si perdono – muoiono di stenti o vengono uccisi – nel viaggio dai paesi d’origine alle coste libiche. E proprio qui è il punto nodale. “Accoglienza” andrebbe infatti intesa come capacità di farsi carico di tutti i fattori che costituiscono le persone che intendiamo accogliere.

Accogliere tutto l’uomo, con le sue esigenze più profonde, senza ridurre il tutto a garanzia di vitto e alloggio. Non si può non considerare come parte dell’accoglienza, ad esempio, anche il diritto di ogni persona a vivere nel proprio paese, quindi aiutando a porre le condizioni nei paesi di origine perché i rispettivi cittadini possano vivere lì. La cosa che viene normalmente ignorata è che il primo diritto che viene leso è proprio quello di non potere vivere nel proprio luogo. Inoltre, non si può non fare i conti con il fatto che queste persone nel tragitto dal proprio paese alla Libia attraversano diversi paesi dell’Africa, compreso il deserto.

Ci si commuove e indigna – giustamente – per coloro che finiscono i propri giorni nel Mediterraneo, ma nessuno rivolge un pensiero ai molti di più che non sono riusciti nemmeno ad arrivare sulle coste libiche. Quelli che sopravvivono poi cadono inevitabilmente nelle mani di trafficanti di esseri umani che gli garantiscono sì un passaggio ma a caro prezzo, e non solo nel senso economico del termine.

Una vera accoglienza poi non può essere in contraddizione con la giustizia, che è molto di più che non la semplice obbedienza alle leggi. Chi arriva in modo irregolare, certamente ha diritto ad essere comunque rispettato come persona, quindi soccorso e assistito per quel che c’è bisogno, ma non è giusto che resti in un paese se non ha alcun titolo per restarci. Altrimenti si creano delle discriminazioni al contrario, che sono poi fonte di tensioni e conflitti.

È come se una persona fosse colta da malore davanti alla porta della nostra casa: certamente lo porteremmo dentro per soccorrerlo, farlo distendere, dargli un bicchiere d’acqua, chiamare un medico. Ma reagiremmo se poi pretendesse di insediarsi nella nostra camera da letto semplicemente perché è un senzatetto o non ha parenti da cui andare. Ci preoccuperemmo di trovargli una sistemazione, ma non accetteremmo di trovarci la casa “occupata”. Non sarebbe giusto.

E ancora: anche per chi ha il diritto di restare in Italia o di spostarsi in un altro paese europeo, è parte dell’accoglienza chiedere il rispetto di elementari norme che regolano la vita di chi ospita. L’accoglienza implica un incontro, un comunicarsi reciprocamente la propria cultura, ed è per questo che è giusto far rispettare regole e consuetudini italiane anche a chi nel proprio paese ne ha delle altre. Così come noi andando all’estero troviamo giusto adeguarci a regole e consuetudini del Paese in cui ci troviamo. Chi troverebbe strano pretendere che l’invitato in casa nostra per un pranzo non si metta a mangiare per terra o rovesci i resti del pranzo sulla tavola?

Se non c’è rispetto reciproco non c’è accoglienza. Invece, oggi prevale l’idea buonista che accogliere sia permettere alla persona accolta di fare quel che vuole, di permettere di dettare legge in nome di un presunto rispetto dell’altro. E qui si insinua un’altra questione che riguarda in particolare i cattolici.

Tante delle strutture di accoglienza sono infatti gestite da associazioni cattoliche, e cattolici sono gran parte dei volontari impegnati. Ma quanti sentono importante comunicare anzitutto la fede cristiana alle persone che arrivano in Italia? Chi pensa davvero che questa situazione sia comunque un’occasione di missione? E che far conoscere e amare le nostre regole sia parte di un lavoro di evangelizzazione? Non è un problema di sfruttare la situazione per fare proselitismo, è semplicemente chiarirci se crediamo davvero che rincontro con Gesù Cristo sia la cosa più bella e importante che possa capitare a ogni uomo.