L’ Impero colpirà ancora

impero_UsaCorriere della Sera 29 marzo, 2007

Una lettura controcorrente della storia smentisce le teorie sul «tramonto dell’ Occidente»

L’ America non è in declino e continuerà a conquistarci Hobsbawm non l’ ha capito IDEOLOGIA E REALTA’ Gli Stati non sono organismi viventi, il loro destino è legato a scelte individuali, al giorno per giorno, o semplicemente al caso

di Macry Paolo

L’ ultimo romanzo di Ian McEwan inizia con la visione notturna di un aereo in fiamme che attraversa a bassa quota l’ orizzonte londinese (Sabato, Einaudi 2005). Chi l’ osserva dalla finestra di casa è un neurochirurgo, al quale la scienza permette ormai di decifrare i processi chimici che stanno dietro ogni minimo frammento dell’ agire umano. Ma quell’ immagine è invece imperscrutabile. Il segno di un futuro fuori controllo. Dopo decenni caratterizzati dalla solidità quasi immobile del quadro geopolitico, le opinioni pubbliche europee riscoprono l’ incertezza.

Minacce più o meno realistiche sembrano insidiare la stessa legittimità del loro mondo. Quel che sta diventando senso comune è l’ idea della decadenza. Stretto tra i fuochi di Al Qaeda e i numeri sconcertanti dell’ Asia, il destino dell’ Occidente appare segnato. O meglio, il destino dell’ impero americano. Una prognosi infausta che Eric Hobsbawm argomenta nelle pagine dense del suo ultimo saggio (Imperialismi, edito quest’ anno da Rizzoli) e che Luciano Canfora, recensendo l’ opera sul «Corriere della Sera» del 22 marzo scorso, sembra condividere.

A dire il vero, non si tratta di una novità. Da Gibbon a Eisenstadt, gli storici hanno spesso letto le vicende degli imperi alla luce della categoria di decadenza, finendo per assumerla come una sorta di fatalità. Un piano inclinato, lento, talvolta lentissimo, ma inarrestabile. In quest’ ottica, sono squilibri geopolitici e interni lungamente coltivati a condannare i Romanov, gli Asburgo d’ Austria o gli Ottomani. Il crollo dei loro imperi, tra 1917 e 1923, diventa l’ esito prevedibile di un declino maturato nel secolo precedente.

Quasi che la stessa forma dell’ impero, il suo carattere prevalentemente militare e fiscale, il debole controllo del centro sulle province, il pluralismo di popoli ed etnie, ne avesse fisiologicamente compromesso le capacità di sopravvivenza.

Non diversamente, la fine dell’ Unione Sovietica è spesso interpretata come il punto finale di un processo che affonderebbe le radici in strozzature politiche e strutturali già presenti al momento della sua formazione, settant’ anni prima del 1991. Ed è significativo che, oggi, la coppia impero-decadenza venga applicata anche al caso americano. Sebbene gli Stati Uniti appaiano come un impero molto sui generis. Senza periferie assoggettate, né istituzioni assolutistiche.

Piuttosto, come recita il titolo del bel volume di Victoria De Grazia, un «impero irresistibile», che si fonda sull’ esportazione di risorse materiali e culturali, dalla Coca-Cola ai Rotary Club. Un soft power (Joseph Nye) che, da F.D. Roosevelt a Bush jr, crede fermamente di avere un mandato messianico nei confronti del mondo. Costruito con i rigorosi artifici dello storico, il paradigma della decadenza imperiale tradisce dosi massicce di ideologia, come la presunta superiorità dello Stato-nazione rispetto agli imperi continentali, o, nel caso dell’ Unione Sovietica, della democrazia e del libero mercato rispetto all’ autoritarismo e alla pianificazione.

Per non dire delle cupe previsioni sugli Stati Uniti, non di rado viziate da interessi antiamericani, europei o extraeuropei. Un pregiudizio anti-imperiale (sia detto tra parentesi) particolarmente opinabile in quel Vecchio Continente, che sta scommettendo su forme politiche, come l’ Unione Europea, più vicine al modello dell’ impero che allo Stato-nazione. Ma c’ è di più. Edulcorare in processi sociali ed economici di lungo periodo la fine degli imperi, facendone poco meno che un destino, rischia di mortificare la ricchezza dei processi storici. I quali, malgrado ogni speculazione ex post, sono sempre aperti. Tutt’ altro che fatali.

Alan Sked, per dirne una, ritiene che, ancora nel primo Novecento, l’ impero asburgico non sia affatto destinato a morte certa. Anzi, goda di ottima salute. Né mancano gli storici che addebitano il crollo dello zarismo alle vicende della Grande Guerra e alle ingenuità politiche del 1917, più che ad una malattia lungamente covata nei decenni precedenti. Quanto all’ Unione Sovietica, c’ è chi ne addebita la dissoluzione alle singolari coincidenze che porteranno al potere, nel 1985, un leader come Gorbaciov, incapace di una riforma più decisa del bilancio militare ma, al tempo stesso, pronto a distruggere l’ apparato coercitivo del partito-Stato. Detto altrimenti, l’ onda lunga della decadenza rischia di occultare il gioco del giorno per giorno, il ciclo sincopato della politica, il ruolo delle scelte individuali, gli errori. E, magari, la buona o la cattiva sorte.

Il che vale, storiograficamente, per Nicola II e, in prospettiva, per la Casa Bianca. Assumere che il futuro sia della Cina, come se quel grande Paese fosse scevro da imprevedibili variabili politiche, o che gli Stati Uniti appaiano votati alla débacle degli imperi, come se si trattasse dell’ ennesimo «grande malato», sembra un inutile rischio ermeneutico. Oltre che, per le inquiete opinioni pubbliche occidentali, un veleno.