Un errore parlare di derby con Benedetto

Martini

card. Martini

Corriere della Sera 17 marzo 2007

di Vittorio Messori

«Il cardinal Martini: strappo sui Dico» : così, ieri, i titoli di alcuni quotidiani. In realtà, leggendo gli articoli si constatava che dei Pacs à l’italienne l’arcivescovo emerito di Milano non aveva parlato, almeno esplicitamente, e il suo discorso era partito dal commento a un brano biblico per le messa dei pellegrini ambrosiani a Gerusalemme.

Se si fosse basato solo sulla titolazione, qualche lettore avrebbe potuto pensare al caso recentissimo delle «leggi contro natura » (con le virgolette, come si addice alle citazioni testuali) che Benedetto XVI avrebbe diffidato dal votare nella sua esortazione post-sinodale sull‘eucaristia.

Nei giorni scorsi, siamo stati assediati da editoriali pensosi e da sfoghi umorali a commento di quell’uscita del papa. Reazione adeguata: ma solo per chi non avesse letto le 138 pagine di quella Sacramentum caritatis, dove l’espressione «leggi contro natura» non c’è; non c’è proprio. E dove il riferimento ai soliti Dico esiste solo per chi possa pensare che il pontefice della Chiesa universale, sintetizzando i risultati di un sinodo mondiale di due anni fa sull’eucaristia, volga il suo pensiero ad ammonimento per qualche politico nostrano.

In realtà, per tornare ai titoli di ieri, si potrebbe osservare che, da molto tempo, l’informazione rischia forse una sorta di dialettica “da derby”: come se l’antagonismo tra Milan ed Inter, tra Roma e Lazio (o anche tra Prodi e Berlusconi), fosse trasposto nel duello Martini-Wojtyla e, ora, Martini- Ratzinger. Per più di vent’anni il bisogno, alla Carl Schmitt, di trovare ovunque lo schema “amico-nemico“, ha portato certo sistema mediatico ad immaginare l’arcivescovo di Milano come il bellicoso referente dei “progressisti“, contro la falange dei dogmatici “papisti“. Uno schema che trova spazio anche ora che Giovanni Paolo II è passato a miglior vita e che l’ottantenne presule emerito, gravato dal Parkinson, si è ritirato a Gerusalemme in attesa –lo ha detto egli stesso– dell’ “ultima chiamata“.

C’è da restare perplessi leggendo di sfide martiniane al magistero papale, dopo quasi un quarto di secolo di parole che dimenticavano che fu proprio Giovanni Paolo II a snidare il professor Carlo Maria dagli studi biblici e a volerlo –mantenendovelo sino al pensionamento- alla guida della più importante diocesi europea.

Mi disse una volta, sorridendo, il cardinale, pranzando nel palazzo di piazza Fontana: «Da quando sono qui, decine di libri portano il mio nome ma io, in realtà, non ne ho scritto neanche uno. Sono tutte sbobinature di cose che ho detto nelle più varie occasioni». E poi, facendosi serio: «Sfido chi mi vuole in contrasto con papa Wojtyla a trovare in quelle pagine una frase che sia di discordia con il magistero pontificio».

Uno stile personale, certo, un temperamento diverso, ma nulla che abbia mai messo in discussione obbedienza e ortodossia. Quanto a Ratzinger: ciò che è filtrato sul Conclave parla di un Martini che, rifiutando i voti che inizialmente erano confluiti su di lui, invita i porporati a dirottarli proprio sul Prefetto dell’ex-Sant’Uffizio. Tra i due vecchi “operai nella vigna del Signore“, è corsa sempre la stima che c’è tra confratelli e studiosi. Ciascuno, poi, ha accettato le naturali differenze caratteriali e ha compreso le esigenze del ruolo dell’altro.

Ratzinger, chiamato ad essere custode dell’ortodossia –prima alla Dottrina della Fede e poi sul seggio di Pietro- e, dunque, tenuto a ribadire con fermezza dogmi e principi etici. Martini, chiamato a pascere un gregge di cinque milioni di battezzati, preoccupato della pastorale, dell’incontro, del dialogo, per far passare il Vangelo in una metropoli postmoderna.

La chiarezza dei principi del Magistero, d’accordo; ma anche la flessibilità, il realismo, la pazienza del pastore avveduto. Questo il significato di parole che, più che uno “strappo“, volevano –per come, almeno, le leggiamo– essere un richiamo alle strategie per un annuncio etico tanto esigente da sembrare duro se non incomprensibile a molti, oggi.