Il silenzioso calvario degli armeni

turchi-armeniAvvenire 24 gennaio 2007

editoriale

Antonia Arslan

In un recente articolo, il giornalista e scrittore turco-armeno Hrant Dink, assassinato a Istanbul venerdì scorso, scriveva, a proposito del crescente clima di intimidazione e di minaccia che lo circondava, come una nube oscura che s’infittiva sempre di più: «Ciò che trovo realmente insopportabile è la tortura psicologica in cui mi trovo a vivere, come un piccione, continuando a ruotare la testa in su e in giù, a destra e a sinistra», non sapendo da dove arriverà il colpo. E il colpo è arrivato.

Non era inatteso; e non è un conforto rileggere oggi il suo ultimo scritto, il meticoloso e terribile articolo pubblicato sulla rivista «Agos» il 12 gennaio 2007, in cui Dink cominciava a raccontare la sua odissea, rendendo pubblico il memorandum che stava scrivendo, in vista del processo d’appello contro la condanna a sei mesi che gli era stata inflitta a causa del famigerato articolo 301 del codice penale turco, quello che condanna le offese alla “Turkishness”, la “turchicità”, e che serve per esercitare un’occhiuta censura sugli scrittori e gli intellettuali. È una pagina commovente. Dink era e si sentiva turco, e – come scrive – non poteva immaginare nessun’altra patria.

Ma era un cittadino turco di etnia armena, appartenente cioè a quell’esiguo gruppo di circa sessantamila persone che ancora vivono nel paese, quasi tutte ad Istanbul. Era un orfano, che aveva duramente combattuto per farsi strada nella vita, ed era diventato il portavoce della piccola, timorosa comunità armena, fondando una rivista, «Agos» appunto, che in armeno vuol dire “solco”, il solco che traccia l’aratro.

Significativamente, la rivista era bilingue, usciva con pagine sia in armeno che in turco: voleva essere un ponte, indicare un ambito di condivisione fra cittadini di uno stesso paese, tra i quali era scorso un fiume di sangue. «Perché – si chiede Dink fin dal titolo – sono diventato un bersaglio?».

E ripercorre quello che è il silenzioso calvario degli armeni di Turchia, trattati sempre come cittadini di seconda categoria, invitati, con le buone o con le cattive, a non mettersi in vista, a non avere pretese, a farsi da parte, a non prendere troppo posto, perché altrimenti… l’ombra oscura della violenza del passato incombe senza mezzi termini. E racconta di come pianse per due ore quando, durante l’obbligatorio servizio militare, solo a lui non venne dato il titolo di soldato scelto; e si pone l’inevitabile domanda sul perché, fra i tanti intellettuali indagati e rinviati a processo per l’articolo 301, solo lui è stato davvero condannato, mentre molti altri casi, fra i quali i processi al premio Nobel Orhan Pamuk e alla scrittrice Elif Shafak, si sono conclusi con un nulla di fatto, con svariate “soluzioni tecniche”.

L’origine etnica armena gioca spesso un ruolo discriminatorio nella vita dei cittadini di Turchia. Ma come ogni armeno di grande testa e di grande cuore, Hrant Dink amava proprio la sua terra d’Anatolia, voleva essere un cittadino come tutti gli altri, anche se il sangue che gli scorreva nelle vene proveniva dalla “razza maledetta”, anche se era “giaurro”.

L’armeno vorrebbe solo che venisse riconosciuta, senza restrizioni mentali o limitazioni burocratiche, la sua appartenenza a questa terra, come cantava, nel lontano e terribile 1915, il poeta Daniel Varujan, che imprigionato e poi ucciso, teneva in tasca le poesie del suo «Canto del Pane», il canto epico del contadino d’Anatolia che era in lui. Né odio né maledizioni, per lui come per il coraggioso giornalista ucciso, ma l’insopprimibile desiderio di una patria comune.

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