Il partito della destra c’est Fini

Gianfranco FiniLibero, 10 febbraio 2007

Antonio Socci

Che Gianfranco Fini voglia capovolgere l’identità di An è chiaro. Molti sospettano che la demolizione punti a una narcisistica “Lista Fini”. Ma che bisogno c’è di stravolgere – per questo tragicomico suicidio politico – 2.700 anni di storia patria come viene fatto nel surreale documento riservato che sta circolando tra i vertici del partito?

S’intitola “Il modello italiano”, è stato inviato da Fini e dal responsabile culturale di An, Granata. Sarà discusso il 12 febbraio e rappresenta la traccia di un “Manifesto per l’Italia” che verrà lanciato a breve. Esprimerà la “nuova” identità ideologica di An. Il documento intende fornire una cornice “culturale” (si fa per dire) ai ripetuti ammiccamenti di Fini verso il mondo dell’immigrazione islamica ed extracomunitaria. Dunque è in nuce il “manifesto ideologico” del finismo multiculturale.

E’ costruito su una “rimozione” che si può solo definire comica. Per spiegare cos’ha dato al mondo “il genio italico” infatti il documento Fini-Granata spazza via Roma. Fa un excursus degli ultimi 2.500 anni di storia della penisola nel quale Roma semplicemente non esiste. Non c’è neanche la parola. Nulla. Totalmente ignorata.

E’ vero che il mito della “romanità” è stato il fondamento ideologico del fascismo che ne fece una caricatura. Ma la storia non la inventò Mussolini. La storia d’Italia è innanzitutto Roma e la cultura classica romana è stata la culla della civiltà occidentale. Portano a Roma non solo le strade d’Europa, ma le lingue europee, le letterature, il diritto e la stessa idea di Europa come scrive – fra gli altri – un ministro dell’attuale governo, Tommaso Padoa Schioppa nel libro “Europa, forza gentile” (Il Mulino). Ancora più decisamente lo spiega Rémi Brague, professore di Filosofia araba alla Sorbona, nel volume “Europe. La voie romaine“. Perfino la Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico si richiamarono ampiamente a Roma (per non dire del Risorgimento italiano con il mito laico della terza Roma).

Per riconoscere la centralità di Roma non solo nella nostra storia nazionale (che è addirittura banale), ma nella storia europea e mondiale, non bisogna affatto essere “fascisti”, ma solo mediamente alfabetizzati. Del resto il partito che ha avuto più classicisti fra i suoi dirigenti è stato il più antifascista, il Pci (Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi, Paolo Bufalini). Gramsci in una pagina dei “Quaderni dal carcere” sottolineò addirittura l’unicità formativa della cultura classica.

Pensare gli ultimi 2.500 anni della nostra storia, pensare ciò che il “genio italiano” ha dato all’umanità, senza neanche rammentare Roma è come fare la storia degli arabi dal VII secolo ad oggi senza mai nominare Maometto e l’Islam. Un’impresa più che spericolata: ridicola. Oltretutto prima di Roma l’Italia neanche esisteva. E’ Roma che l’ha partorita. La storia di Roma – nella sua versione scolastica – comincia poco prima del 700 a.C e la fine del suo impero, che abbracciava tutto il Mediterraneo e andava da Londra a Gerusalemme, si data solitamente al 476 d.C. . Sarebbero già così 1.200 anni difficili da ignorare. Ma non finisce qui.

L’impero romano d’Oriente (quello bizantino) prosegue fino al XV secolo e si richiama alla “terza Roma” perfino lo Zar di tutte le Russie (Czar viene da Caesar) fino al 1917. Nel IX secolo poi in Europa era rinato il Sacro Romano Impero che sarà la culla dell’Europa medievale, Sacro Romano impero come “comunità di popoli” che nella sua ultima versione – l’Impero asburgico – tramonterà solo con la Prima guerra mondiale, nel 1918.

Di tutta questa tracimazione di “romanità” nel tempo e nello spazio, non si trova traccia nel documento Fini-Granata. Il quale passa dalla colonizzazione greca di alcune coste del Sud Italia (fra VII e II secolo a.C.) al Rinascimento che sarebbe – a loro dire – l’inizio del “made in Italy“. In quei duemila anni che stanno nel mezzo, stando al documento di Fini, non è successo niente che sia degno di nota.

Né Roma e il suo impero, né la nascita dell’Italia, né il grande Medioevo dei monaci benedettini che hanno civilizzato l’Europa, il Medioevo romanico e gotico delle cattedrali, delle università, della teologia e della filosofia, degli ospedali, della grande pittura, di San Francesco, dell’architettura, dei Comuni, il Medioevo che ha partorito la prima democrazia, la prima economia capitalista e il primo pensiero tecnico-scientifico.

Evidentemente il Fini-pensiero, oltre alla rimozione di Roma, ha un problema con il cattolicesimo che nel documento è rammentato solo una volta e come aspetto marginale della storia italiana. Questa la frase testuale: «culla del cristianesimo e quindi del cattolicesimo, sotto il profilo culturale ed etico l’Italia è però anche l’erede di un’antropologia intimamente “politeista” ».

Quasi non si crede ai propri occhi. Il cristianesimo per il quale da duemila anni Roma è il centro spirituale del mondo, il cattolicesimo che definisce “romani” oggi un miliardo di uomini in tutto il globo (pure l’indigeno della Nuova Zelanda, se battezzato, è cattolico apostolico romano) qui sembra una piccola cosuccia. E cos’è mai l’ «antropologia intimamente politeista» che permea l’italianità?

Da due millenni l’Italia è il Paese cattolico per antonomasia. Le due minoranze religiose che vi sono state (le comunità ebraiche per antico radicamento e gli islamici per le invasioni della Sicilia) sono per eccellenza religioni monoteiste e rigorosamente antipoliteiste. Quando mai e dove Fini ha conosciuto un’Italia politeista?

Oltretutto il documento prosegue così: «proprio per la qualità di questo suo carattere (politeista?, ndr), in Italia in nessuna epoca hanno mai attecchito, né in ambito religioso, né in campo politico, forme gravi di intolleranza e razzismo».

A parte il fatto che le leggi razziali volute dal fascismo degli anni Trenta furono (eccome!) una forma grave di razzismo, e Fini non dovrebbe dimenticarlo, qui sembra si attribuisca l’assenza di razzismo proprio alla fantomatica «antropologia politeista» e non al cattolicesimo (per sua natura universalista e antirazzista).

Ma l’altro errore, che riempie quasi tutto il documento, sta nel demolire ogni idea di identità nazionale e poi nel confondere “multirazzialità” e “multiculturalità”. Inizia così: «da sempre crocevia di genti e di storie, di lingue e di costumi diversi, l’humus della civiltà italiana è ricco e fecondo in quanto, fin dalle sue origini, ibrido, meticcio, contaminato. La terra italiana disegna non tanto un assemblaggio biologicamente multietnico quanto piuttosto il passaggio di una civiltà pluriculturale».

Che il popolo italiano abbia amalgamato diversi ceppi etnici è certo, anche se non nei modi estremi che il documento tratteggia (perfino i nostri tratti somatici comunque sono omogenei), ma che qui sia fiorita una «civiltà pluriculturale» è un’assurdità. E’ vero il contrario. Prima la Roma imperiale e poi, ancor più, la Roma cattolica hanno fatto confluire in un’unica identità le culture più diverse (da quelle dei popoli italici a quella etrusca, da quella greca a quella ebraica, da quella longobarda alla normanna).

La riflessione potrebbe farsi molto più approfondita. Ma è chiaro che al leader di An interessa la politica. Sembra che Fini sia approdato alle idee estreme del multiculturalismo della Sinistra. Dovrebbe ribattezzare il suo partito “Alleanza anazionale”. Con una simile svolta il partito della destra democratica italiana – per dirla alla francese – “c’est Fini“. Che vuol dire “è Fini” e anche “è finito”.