La Turchia nel Rapporto 2006 sulla libertà religiosa nel mondo

Rapporto _Acs_2013Agenzia Zenit 27 novembre 2006

Pubblichiamo di seguito la scheda riguardante la Turchia tratta dal Rapporto 2006 sulla libertà religiosa nel mondo, che è stato redatto dall’organizzazione “Aiuto alla Chiesa che Soffre”.

Molti passi avanti sono stati compiuti verso il riconoscimento di maggiori diritti alle comunità religiose cristiane. Nel mese di giugno del 2005 è stato approvato dal Parlamento un pacchetto di riforme che riafferma il rispetto della libertà religiosa, istituendo il reato di impedimento all’espressione del credo religioso, punito con una pena fino a tre anni di carcere. È stata invece bloccata dal Presidente della Repubblica, Ahmet Necdet Sezer, una legge, promossa e approvata dal Parlamento su iniziativa dal partito di maggioranza Akp, che avrebbe depenalizzato il reato di predicazione del Corano fuori dai luoghi attualmente consentiti.

Quest’ultima limitazione – che si affianca al divieto alle donne di indossare il velo islamico nei luoghi pubblici, classica espressione del secolarismo a cui si ispirano le istituzioni repubblicane – sembra dimostrare che nemmeno i musulmani godono di pieni diritti e come sostiene Otmar Oehring, in uno studio del dicembre 2004 per il gruppo cattolico tedesco Internationales Katolisches Missionwerk-Missio, «la variante turca attuale della laicità non sembra davvero essere sinonimo di libertà religiosa».

Rimangono favorevoli alla completa separazione tra la sfera religiosa e quella politica alcuni gruppi di musulmani aleviti che hanno raccolto un milione di firme per una petizione volta a far cessare l’istruzione religiosa obbligatoria nelle scuole, perché ispirtata all’islam sunnita.

Il quadro costituzionale

Manca ancora il riconoscimento della personalità giuridica delle Chiese e da anni il Parlamento discute, senza però approvare, una nuova legge sul diritto di proprietà delle comunità religiose, considerata necessaria per l’ammissione di Ankara nell’Unione Europea. In Turchia infatti solo alcune minoranze religiose non islamiche possono avere beni, tramite le cosiddette “fondazioni della comunità”.

La nuova legge – in discussione dal 2002 dietro pressione dell’Unione Europea – dovrebbe consentire a tutte le comunità religiose non islamiche di mantenere le proprietà attuali (spesso detenute in modo precario) e di recuperare quelle tolte negli ultimi 70 anni. Ma – osservano le minoranze religiose – la Direzione generale per le Fondazioni sostiene che esistono solo 160 fondazioni oggi riconosciute dallo Stato, tra cui non rientrano, per esempio, quelle di Chiesa cattolica, Chiese protestanti, Testimoni di Geova e Bahai, il che non contribuisce a rendere chiaro che destino avranno i beni di queste comunità.

Il Governo ha difficoltà a riconoscere le fondazioni anche perché dovrebbe restituire le molte proprietà tolte alle comunità religiose fin dagli anni ‘30, specie quelle cristiane ed ebraiche: luoghi di culto, scuole, ospedali, terreni, molti dei quali sono stati venduti e per i quali dovrebbe pagare un indennizzo. Per attuare davvero la libertà religiosa in Turchia – aggiunge Oehring – occorre «cambiare la stessa Costituzione», riconoscere questo diritto «sia agli individui che ai gruppi» e «approvare una legge che lo renda effettivo», senza accontentarsi di cambiamenti secondari che peraltro consentono al Governo di evitare un reale riconoscimento di questo diritto.

L’attuale art. 24 – osserva – riconosce il diritto di professare e praticare una fede, ma non garantisce la possibilità di cambiare fede o di riunirsi con altri fedeli in una comunità. Le comunità religiose non hanno il diritto di organizzarsi come credono, di possedere di beni e di gestirli, di ottenere riconoscimento legale. Occorre anche – aggiunge – dare attuazione all’art. 9 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (Cedu) che garantisce piena libertà di religione. Diritto che comprende, come recita la norma, anche «la libertà, sia del singolo che della comunità, di professare la propria religione, in pubblico e in privato».

La Commissione Europea, nella Proposta per l’ammissione come partner della Turchia, ha specificato che Ankara deve: riconoscere piena «libertà di religione», concetto che comprende «l’adozione di una legge» che rimuova gli ostacoli che oggi colpiscono «le minoranze religiose non musulmane e le loro associazioni, in linea con gli elevati standard europei»; «sospendere le confische e le vendite dei beni» degli enti religiosi non islamici, in attesa di una nuova legge in materia; riconoscere e attuare quanto necessario per consentire «l’effettiva libertà di pensiero, coscienza e religione sia per l’individuo che per le comunità, in linea con la Cedu» e considerando le raccomandazioni del Consiglio della Commissione europea contro razzismo e intolleranza; stabilire le condizioni per consentire la vita di queste comunità, in accordo con quanto praticato negli Stati membri, compresa la protezione legale e giudiziale delle comunità, dei loro membri, del clero e delle proprietà.

Occorre riconoscere l’effettivo diritto delle comunità di organizzarsi in forme diverse dalla fondazione e di scegliersi i loro dirigenti, liberi dalle intrusioni dello Stato che spesso li ha rimossi, specie per le fondazioni delle comunità apostolica armena e greca-ortodossa.

«Ci sono indizi – conclude Oehring – che parte della dirigenza del governativo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) possa comprendere l’importanza della libertà religiosa», anche se «non osa dirlo, per paura di provocare i potenti ambienti militari». Eppure nel mese di gennaio è partita una campagna mediatica che ha avuto come protagonista Ilker Cinar, un 35enne turco che ha annunciato alla televisione nazionale la propria “rinuncia” alla conversione al cristianesimo e il ritorno all’islam.

Da allora Cinar, oltre a sporgere alcune denunce nei confronti di personalità protestanti, ha pubblicato due volumi e ha rilasciato numerose interviste alla stampa in cui sostiene l’esistenza di «attività missionarie sovversive» che perseguirebbero scopi politici.

Su un piano diverso e più ufficiale, ha fatto seguito un convegno organizzato dalla Direzione per gli Affari religiosi – la Diyanet che dipende dall’ufficio del Primo ministro – presso l’Università di Çanakkale, tra il 15 e il 17 marzo, allo scopo di presentare studi e ricerche sulle attività missionarie in Turchia, così come tra i turchi residenti in Kirghizistan, Bulgaria, Francia e Germania.

Non una riga è apparsa sulla stampa nazionale a proposito dell’evento, visto dagli organizzatori anche come un argomento relativo alla sicurezza con diversi professori dell’accademia di polizia sul palco dei relatori, sebbene uno dei partecipanti abbia affermato che «lo scopo apparente non era di aprirlo al pubblico, ma soltanto alla cerchia degli accademici».

Pochi giorni più tardi si sono registrate alcune allarmanti posizioni ufficiali del Governo, espresse ufficialmente in Parlamento dal ministro per gli Affari religiosi Mehmet Aydin: «I missionari minacciano l’unità della nazione», ha riferito il 27 marzo, aggiungendo che «lo scopo di queste attività è di mettere in pericolo l’unità culturale, religiosa, nazionale e storica del popolo turco» anche se, negli ultimi cinque anni, risulta allo stesso Ministro che vi siano state in Turchia appena 368 conversioni al cristianesimo.

Secondo l’agenzia «Anatolia», Aydin ha accusato anche gli operatori umanitari: «Queste non sono soltanto attività religiose e non sono svolte soltanto dal clero cristiano. Abbiamo osservato medici, infermiere, ingegneri, funzionari della Croce Rossa, difensori dei diritti umani, attivisti pacifisti e insegnanti di lingue straniere svolgere attività missionaria».

Tra le contromisure da adottare per fronteggiare la propaganda missionaria che «ha un retroterra storico ed è condotta in modo pianificato con motivi politici», il Ministro consiglia alla Diyanet di «illuminare il popolo turco, sradicare l’ignoranza e sostenere i princìpi morali e le credenze dell’islam». In seguito, il 15 giugno, nel corso di un incontro con il Primo ministro Recep Tayyp Erdogan, gli ambasciatori dell’Unione Europea hanno protestato contro le affermazioni di Aydin definendole «esagerate e foriere di divisioni».

Ciò nonostante, anche i servizi segreti sono stati incaricati di indagare sul tema della penetrazione di gruppi religiosi sul territorio nazionale.

In un rapporto dal titolo «Elementi reazionari e rischi», gli analisti dell’intelligence hanno concluso che le attività missionarie hanno un secondo fine, parallelo alla propaganda della fede. Secondo il quotidiano «Cumhuriyet» dell’11 giugno, il documento indica i missionari stranieri come i promotori di divisioni etniche, in particolare tra la popolazione curda.

A tale scopo, si utilizzerebbe il “turismo religioso” per focalizzare l’azione in alcune regioni in particolare, dove sarebbero prese di mira le fasce di cittadini dal reddito più basso, i giovani, le donne e i bambini. Da notare che l’analisi, che prende in esame i corsi di formazione biblica e la distribuzione di stampa religiosa, è stata pubblicata contemporaneamente a un aggiornamento sulle attività dei gruppi terroristici islamici e dei loro leader in Turchia.

La fobia antimissionaria delle autorità è stata messa in rilievo anche dal parlamentare europeo Paul Van Buitenen in un’interrogazione alla Commissione di Bruxelles, in vista dei negoziati per l’adesione di Ankara all’Unione Europea. Nell’atto di controllo si cita una predica – preparata dalla Diyanet per essere ripetuta nelle moschee l’11 marzo – nella quale si descrivono i missionari come «l’incarnazione moderna dei Crociati» e le potenze europee come «impegnate a sciogliere i legami del popolo turco con l’islam perché li vedono come l’ostacolo maggiore al loro dominio».

Aprendo i lavori di una conferenza per la cooperazione inter-religiosa, il 29 settembre, il premier Erdogan ha stemperato i toni: «Le nostre differenze non stanno inevitabilmente spingendoci verso uno scontro, non devono. A coloro che desiderano un conflitto tra civiltà dobbiamo essere in grado di dire: no a un conflitto tra civiltà, sì a un’alleanza di civiltà».

La questione armena

Benché nel 1987 il Parlamento europeo abbia stabilito, tra le pre-condizioni per l’eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea, il riconoscimento del genocidio del popolo armeno, il 17 dicembre 2004 il Consiglio dei ministri comunitari ha deciso di fissare l’inizio dei negoziati di adesione al 3 ottobre, nonostante nulla sia stato fatto ad Ankara in tal senso, come ricorda Ninni Radicini, sul sito della comunità armena italiana.

Il Parlamento ha infatti stabilito che terrà una seduta con all’ordine del giorno le contromisure da adottare nei confronti della campagna per il riconoscimento del genocidio del popolo armeno. La questione si coniuga alla lentezza con cui la Turchia procede ad adeguare i propri standard a quelli dell’Unione Europea.

Lo ha sottolineato, all’inizio di marzo, Hansjorg Kretschmer, inviato della Unione Europea, sostenendo che la Turchia sta “scivolando” sul terreno delle riforme ed evidenziando le vessazioni a cui è sottoposta la minoranza religiosa alawita; le restrizioni nei confronti del patriarcato greco ortodosso; l’eccessivo ricorso alla forza contro i dimostranti, come avvenuto in occasione della manifestazione delle donne per l’8 marzo.

Anche se ormai una larga parte della opinione pubblica ha potuto conoscere quanto avvenuto 90 anni fa e molti Stati, con atti votati dai rispettivi Parlamenti, hanno riconosciuto il genocidio del popolo armeno, l’atteggiamento della autorità rimane ostruzionistico, perfino in ambito artistico, come nel caso del film «Ararat», di Atom Egoyan, la cui distribuzione nelle sale cinematografiche è stata, nemmeno troppo velatamente, osteggiata.

Nel mese di marzo il premier Erdogan aveva proposto la formazione di una commissione di storici che stabilissero se vi è stato oppure no – come sostiene Ankara – il genocidio. Le autorità armene hanno fatto prontamente notare che gli storici si sono già pronunciati sulla questione, riconoscendo il genocidio e portando a prova la relativa documentazione.

Ma la Turchia non ha relazioni diplomatiche con l’Armenia e nel 1993 ha chiuso il confine tra i due Stati, a seguito del conflitto nel Nagorno Karabakh, che Ankara considera parte dell’Azerbaigian, determinando gravi danni all’economia armena.

Cattolici

Il 15 settembre il Presidente della Repubblica Ahmet Necdet Sezer, ha invitato Papa Benedetto XVI a recarsi in Turchia nel 2006, perché «possa rendersi conto di persona del clima di tolleranza culturale» che vige nel Paese. Il viaggio – ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri, Namika Tan – «favorirà i suoi sforzi tesi a intensificare il dialogo fra le religioni e la reciproca comprensione fra le civiltà a livello globale».

In realtà il primo invito rivolto al Pontefice era giunto dal Patriarca greco-ortodosso Bartolomeo I, sulla scorta di una tradizione ormai consolidata – iniziata con papa Paolo VI e proseguita da Giovanni Paolo II – tra il Patriarca ecumenico ortodosso e la maggiore autorità del mondo cattolico. Proprio questa iniziativa – riporta «AsiaNews.it», scavalcando le autorità civili, avrebbe creato irritazione negli ambienti della diplomazia turca che, ancor prima di considerare il Papa un capo religioso, lo ritiene il capo di Stato del Vaticano.

Non può essere dimenticato – anche se si colloca successivamente al 2005, periodo considerato in questo Rapporto – che, il 5 febbraio 2006, nella città di Trebisonda un ragazzo musulmano ha ucciso a colpi di pistola, nella chiesa di Santa Maria, il sacerdote cattolico italiano don Andrea Santoro.

Nei suoi confronti, anche dopo il martirio, continua un’opera di dengrazione dei giornali turchi, della destra nazionalista e di quella islamica che lo accusano di aver svolto proselitismo. «Il motivo vero dell’uccisione di don Santoro è l’esaltazione religiosa, motivata dal clima anticristiano» che si respira nella regione, «in famiglia, a scuola, nelle letture», ha affermato l’8 febbraio monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, in un incontro con i giornalisti in sala stampa vaticana.

Quanto alla situazione dei cristiani in Anatolia, monsignor Padovese la definisce «non semplice: le notizie che vengono diffuse sulla Chiesa cattolica sono o notizie denigratorie sul cristianesimo o banalità». Perfino il cimitero cattolico di Trebisonda è stato spianato dalle ruspe, le tombe sono state profanate, «ed ora non restano che tre lapidi.

Don Andrea, alcuni giorni fa, aveva preso contatti col sindaco perché provvedesse ad una recinzione di quello che ormai è un campo di sterpaglie». Il successivo 9 febbraio alcuni musulmani hanno aggredito a Smirne il sacerdote cattolico sloveno don Martin Kmetec, al grido di «vi ammazzeremo tutti; Allah è grande».

Ortodossi

Agli ortodossi di rito siriaco del paese di Bardakci sta per essere definitivamente tolto un terreno che un tempo ospitava la loro chiesa di Santa Maria. Come riporta «The Economist» il 25 giugno, il Governo intende concedere quell’area a una comunità di curdi per la costruzione di una moschea, nonostante le proteste della minoranza cristiana.

Un nuovo episodio di violenza ha coinvolto il 3 agosto il quartiere di Sarilar, nel paese di Altinozu, abitato in prevalenza da greci ortodossi e perciò attaccato da una folla di 100 musulmani del paese di Karsu, che cantavano: «Qui non c’è posto per gli infedeli». Cinque persone, compresa la moglie del parroco Spir Bayrakcioglu, sono state ferite mentre 10 case risultavano danneggiate dopo l’assalto.

A scatenare gli scontri, era stata una rissa avvenuta la sera stessa tra giovani dei due paesi che aveva portato all’arresto di due ortodossi accusati di aver usato un rasoio per colpire due musulmani.

Protestanti

Per quanto dispongano di 55 luoghi ufficiali di culto nelle maggiori città del Paese, le comunità protestanti non sono ancora riuscite a ottenere per le loro strutture lo status legale di edifici ecclesiastici a causa di numerosi ostacoli amministrativi e burocratici. Il pericolo non è soltanto giuridico, ma riguarda la stessa incolumità fisica delle persone, come ha ricordato l’ambasciatore statunitense ad Ankara in due proteste ufficiali rivolte nei mesi di aprile e di giugno alle autorità turche competenti, in cui riportava 10 incidenti avvenuti nel corso degli ultimi 10 mesi.

Nessun atto di violenza, sostiene «Compass Direct» il 19 maggio, è stato riportato però dalla stampa nazionale, in parte anche perché i cristiani del luogo ammettono soltanto con difficoltà le malversazioni contro di loro, per timore di essere identificati e ulteriormente fatti oggetto di maltrattamenti. «Ma – osserva l’Alleanza delle Chiese protestanti in una dichiarazione a Compass Direct – se non c’è risposta a questi episodi di violenza e ai giovani che la mettono in atto, continueranno».

A fare le spese del clima di scontro culturale è stato, l’8 gennaio, pastore della chiesa di Adana, Kamil Kiroglu, percosso selvaggiamente fino a quando ha perso i sensi da cinque uomini che gli intimavano di abiurare la fede cristiana e convertirsi all’islam, se non voleva essere assassinato. Nella ricostruzione dell’accaduto fornita da «Compass Direct» il 20 gennaio, emerge che gli aggressori si erano presentati nel luogo di culto gestito da Kiroglu, spacciandosi per cristiani neo-convertiti del Turkmenistan e chiedendogli di essere meglio istruiti sui princìpi della fede cristiana.

Una volta riusciti a entrare, avevano preso a calci e pugni il pastore, gridando: «Non vogliamo cristiani in questo Paese» e, puntandogli un coltello alla gola, lo minacciavano: «Rinnega Gesù o ti uccido». Ma, prima di perdere conoscenza, Kiroglu continuava a rispondere: «Gesù è il Signore». Altri casi di persecuzione, riportati il 25 giugno da «The Economist», riguardano un pastore protestante di Izmit, a cui è stata recapitata una lettera minatoria ed è stata dipinta una svastica rossa sulla porta di casa, mentre a Tarso un missionario neozelandese è stato percosso e invitato ad andarsene dal sindaco della cittadina.

Anche sul lavoro, le discriminazioni sono evidenti. Bektas Erdogan, stilista di moda convertito da 11 anni al cristianesimo, è stato percosso per due ore dal proprio datore di lavoro che lo accusava di svolgere opera missionaria e “lavaggio del cervello”. L’accaduto, che risale ai primi di agosto, è stato riportato da «Compass Direct» il giorno 30 dello stesso mese, insieme ad altri casi di maltrattamenti subiti da due convertiti protestanti poco più che ventenni che hanno acconsentito a fornire soltanto i loro nomi di battesimo – Umit e Murat-Can – picchiati da agenti di polizia perché «non potevano essere allo stesso tempo turchi e cristiani».

La stessa fonte riferisce del pestaggio subito dal cristiano evangelico Salih Kurtbas a Kanli Kavak per opera di tre uomini che gli avevano chiesto di parlare del cristianesimo e poi hanno minacciato di morte chiunque frequentasse un uomo d’affari amercano che essi accusavano di diffondere propaganda cristiana. L’aggredito ricorda a «Compass Direct» che le autorità locali hanno ignorato le richieste della comunità evangelica per ottenere il permesso di aprire un luogo di culto.

Da evidenziare che l’apertura delle chiese non è garanzia di tranquillità per le comunità cristiane. I fedeli della congregazione di Agape, nella città di Samsun, hanno denunciato di essere stati sorvegliati e filmati con telecamere all’ingresso e all’uscita dalle funzioni, in particolare il 27 novembre, da un automezo della polizia con i vetri oscurati.

E nel frattempo, il giorno successivo, come riporta «Compass Direct» del 2 dicembre, ad Antalya, centro balneare del Mediterraneo, sono andate a fuoco per un incendio doloso le finestre del centro culturale San Paolo. Sempre il 28 novembre Kamil Moussa, un esponente della Chiesa protestante di Efeso, che si trova a Selcuk, era chiamato a rispondere davanti al tribunale di Tarso di “minacce” non meglio specificate contro uno studente di una scuola biblica. Ad accusare Moussa è Ilker Cinar, protagonista di un’ampia campagna denigratoria contro i cristiani in Turchia.

Più delicato è invece il processo dove è parte lesa Yakup Cindilli, un cristiano picchiato fino a rimanere in coma, due anni fa, mentre per strada distribuiva il Vangelo. Nonostante un parziale recupero, la vittima dell’aggressione ha riportato danni irreversibili sia dal punto di vista fisico sia psicologico, secondo le conclusioni dei periti nominati dal tribunale.

Cindilli non si è presentato a ben tre successive udienze fissate l’8 luglio, il 6 ottobre e il 15 dicembre. Non si è ancora conclusa definitivamente, intanto, la vicenda della famiglia di quattro iraniani convertiti al cristianesimo e minacciati dalle autorità turche di rimpatrio. Il 26 ottobre – riporta «Compass Direct» – la signora Zivar Khademian e i suoi tre figli Hossein, Kazem e Fatemeh Moini hanno ottenuto il rinvio del provvedimento di espulsione originariamente fissato per il 20 ottobre. Una volta tornati nel loro Paese d’origine, i quattro dovrebbero affrontare un processo per apostasia, reato per il quale è prevista la pena capitale.