Vincere le guerre

soldati_afghanistanIl Foglio 17 agosto 2006

Perché l’occidente (Israele compreso) non è più in grado di combattere conflitti veri

Gianandrea Gaiani

Roma. L’occidente è ancora in grado di combattere guerre “vere”? Guerre nelle quali il conseguimento degli obiettivi ha la priorità sulle altre considerazioni, anche di carattere morale e umanitario, e nelle quali la forza impiegata non è “proporzionale” alle capacità di offesa del nemico, ma è concentrata per ottenere una superiorità tesa a conseguire nel più breve tempo possibile la vittoria?

Il fallimento della campagna israeliana nel Libano meridionale conferma il paradosso di un occidente che dispone di una potenza militare senza precedenti, ma è incapace di vincere guerre contro avversari più deboli. Le guerre aeree condotte dalla Nato in Bosnia e in Kosovo ci avevano illuso che la vittoria potesse essere conseguita solo dall’aria con raid di precisione su centri di comando e controllo, infrastrutture e difese antiaeree, sufficienti a indurre il nemico a ritirarsi, arrendersi, firmare la pace.

Illusioni nate da vittorie in realtà parziali, considerato che per evitare che i conflitti etnici tornino a esplodere la Nato e l’Unione europea mantengono truppe in Bosnia da undici anni e in Kosovo da sette. Illusioni tramontate nelle campagne post 11 settembre, caratterizzate da brevi fasi simmetriche, seguite da lunghe fasi asimmetriche che richiederebbero strumenti militari simili a quelli dell’epoca coloniale, protesi al presidio del territorio con l’ausilio di forze locali.

La “guerra umanitaria” degli anglo-americani in Afghanistan e in Iraq ha inferto danni limitati alle forze avversarie, che hanno avuto la possibilità di disperdersi, riorganizzarsi e riprendere l’iniziativa, dopo la caduta dei regimi del mullah Omar e di Saddam, e l’impiego massiccio della forza è ostacolato da considerazioni umanitarie, dalla necessità di non colpire i civili in mezzo ai quali si nascondono e si rafforzano i guerriglieri.

La conquista di “cuori e menti” nei paesi occupati è sempre stato un obiettivo post bellico, oggi è una priorità durante la guerra, ma annientare il nemico e incutere timore per ottenere rispetto e fiaccare ogni resistenza hanno sempre costituito strumenti indispensabili per conseguire la vittoria, anticamera della pacificazione.

L’occidente ha perso la percezione del concetto stesso di guerra, come evidenziò già nel 1999 un sondaggio della SWG: il 51 per cento degli oltre mille intervistati era favorevole a una guerra contro la Serbia a “costo zero”, cioè senza vittime da entrambe le parti.

L’ossessione di una pace intesa come valore assoluto, e non più come condizione mutevole della storia, ha determinato l’effetto paradossale e perverso che impone l’uso della parola “pace” per definire tutte le tipologie di guerra (dagli internazionali peacekeeping e peace enforcing all’italiana “missione di pace”).

I mass media (non sempre onesti e imparziali) ingigantiscono l’impatto delle vittime civili, delle perdite militari, dei danni collaterali e del fuoco amico, che in realtà la tecnologia ha ridotto ai minimi termini rispetto alle guerre del passato. Il risultato di tutto questo è che oggi si discute su chi abbia vinto in Iraq, in Afghanistan o in Libano perché non vi sono vittorie certe ed evidenti.

Per l’occidente è giunta l’ora di preoccuparsi se neppure Israele, che pure sa accettare perdite elevate e combatte con ampio consenso popolare, è più capace di mettere da parte tentennamenti e ricatti moralistici per vincere una guerra nella quale è in gioco la difesa del territorio nazionale.

Anche se la guerra è fatta di atrocità, è certo giusto limitare i danni tra i civili, risparmiare per quanto possibile vite innocenti (caratteristiche che tra l’altro ci differenziano dai nostri nemici che dei civili si fanno scudo), ma occorre essere consapevoli che il nemico considera queste attenzioni umanitarie utili debolezze da utilizzare in battaglia.

Lanciare volantini sui villaggi, annunciando che entro poche ore saranno attaccati, bombardati od occupati significa anche dare tempo a Hezbollah di nascondersi, ritirarsi o prepararsi al meglio a combattere. Evitare di colpire le moschee, per non irritare la sensibilità islamica, quando al loro interno vengono depositate armi e munizioni, non aiuta a sconfiggere i miliziani né scoraggia la popolazione che li aiuta.

Scatenando l’offensiva terrestre, peraltro limitata, molti giorni dopo l’inizio dei raid aerei, Israele ha consentito a Hezbollah di riprendersi dalla sorpresa iniziale e di far affluire rinforzi nel sud, dove per snidarli dai bunker Tsahal ha dovuto perdere un centinaio di soldati e 25 carri armati.

Dopo oltre un mese di guerra, Israele non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi: non ha liberato i soldati catturati, non ha scongiurato il lancio di razzi sulle sue città e non ha annientato militarmente Hezbollah, che né il governo libanese né la forza dell’Onu osano disarmare, mentre in tutto il mondo islamico i miliziani di Nasrallah sono diventati esempi da imitare. Come in Iraq e in Afghanistan, anche in Libano le perdite tra militari e civili sono state limitate, ma la guerra non è finita e neppure vinta.