«L’Italia prima dell’Italia». Roma e lo Stato Pontificio

In un’ampia sintesi, Marina Formica ricostruisce genesi, vicende, fine dello Stato Pontificio. Lo fa in modo competente ed equilibrato, non tacendo ovviamente le ombre (che ci furono , come ovunque, ma qui furono amplificate da una struttura unica, politico- sacrale), eppure lontana dalla faziosità di certe “leggende nere“ sul governo dei Papi.

prefazione al volume di Vittorio Messori

Il Patrimonio di San Pietro prima, lo Stato della Chiesa poi, infine lo Stato Pontificio: malgrado la successione dei nomi e la variazione della superficie, si è sempre trattato della fascia centrale della Penisola. In latitudine, dal Tirreno all’Adriatico, da Civitavecchia ad Ancona. In longitudine, dal confine con il Regno del Sud sino al Po, attraverso il corridoio orientale, marchigiano-romagnolo.

Uno Stato, dunque, troppo piccolo per unire attorno a sé l’Italia intera e abbastanza grande, e influente, per impedire che altri tentassero quell’unione. Questa, come si sa, l’accusa che -da Machiavelli a Guicciardini- fu lanciata contro l’anomala formazione territoriale di cui i sovrani erano inevitabilmente dei vecchi, chiamati a impugnare al contempo la chiave d’oro del dominio spirituale e quella d’argento del dominio temporale.

L’Ottocento risorgimentale diffamò i Borboni delle Due Sicilie, combatté gli Austriaci del Lombardo Veneto, ridicolizzò come operettistici i Ducati; ma , soprattutto, raccolse dal passato rinascimentale e poi illuminista l’odio e la volontà di distruzione del “governo dei preti“.

In nessun’altra città della Penisola se non Roma gli “Italiani“ dovettero entrare a cannonate mentre il popolo, malgrado sforzi e soldi per provocare anche solo una simbolica insurrezione, se ne stava chiuso in casa, aspettando tra l’indifferente e il beffardo . Strano modo per darsi una capitale.

E modo disastroso –anche se, forse, storicamente obbligato– per completare un processo di unificazione nazionale che si accanì proprio con quel collante cattolico che era il solo che tenesse insieme un mosaico, che sembrava inconciliabile, di etnie, tradizioni, linguaggi, economie.

Proprio lì, costretto a farsi prigioniero in Vaticano, stava quel papa la cui voce –attraverso il tessuto fittissimo delle parrocchie che presidiavano il territorio con ben maggiore efficacia di Prefetture, Questure, Comandi di Regi Carabinieri – era la sola che giungesse alla “Italia reale“, cioè “vera“, come non a torto la chiamava la pubblicistica cattolica.

Il pezzo di Penisola su cui punta l’attenzione questo volume della bella Collana del Touring è stato –e in qualche modo è tuttora: le polemiche “nordiste“ contro Roma Capitale!– una sorta di segno di contraddizione. A tal punto che i buzzurri , come i romani chiamarono subito gli alieni che avevano fatto irruzione da Porta Pia , decisero di costruire la loro Capitale sui siti stessi di quella papale, cancellando quanto più fosse possibile della Roma cattolica. Invano urbanisti di tutta Europa consigliarono di edificare la città nuova sui vasti terreni liberi, e tra l’altro più salubri, che si estendevano dentro e fuori le Mura Aureliane.

La furia settaria si dedicò agli sventramenti del tessuto antico, distruggendo decine di chiese venerande , demolendo migliaia di “madonnelle“, trasformando i conventi in ministeri, erigendo la montagna di spaesato botticino bresciano del Vittoriano come contraltare (nel senso pieno: «L’altare della Patria») alla basilica di San Pietro.

Quando costruirono al di fuori, faranno come in Prati. Secondo un piano urbanistico, cioè, disegnato in modo che l’orientamento delle strade non creasse croci ma allusivi triangoli e che, soprattutto, non mostrasse sullo sfondo il Cupolone michelangiolesco.

Ma sulla Roma medievale, intollerabilmente papalina, si accanirà poi anche il piccone fascista perchè i “secoli bui“ e le loro opere architettoniche –fossero pure, ed erano, capolavori– dovevano sparire affinchè le rovine della romanità imperiale giganteggiassero nel vuoto. In un’ampia sintesi, nelle pagine che seguono Marina Formica ricostruisce genesi, vicende, fine dello Stato Pontificio. Lo fa in modo competente ed equilibrato, non tacendo ovviamente le ombre (che ci furono , come ovunque, ma qui furono amplificate da una struttura unica, politico- sacrale), eppure lontana dalla faziosità di certe “leggende nere“ sul governo dei Papi.

Ebbene, al proposito vorremmo dire qui qualcosa . Unicamente per giustizia e per amore di verità storica, non certo per qualche anacronistica nostalgia che la Chiesa stessa, da decenni, non solo non coltiva ma respinge, vedendo anzi la mano della Provvidenza (Paolo VI , 1970) nello svolgersi degli eventi che portarono alla fine del Papa-Re.

L’ultimo dei quali, Pio IX, va compreso in quel suo rifiuto di non cedere se non alla violenza. Innanzitutto, a Vittorio Emanuele II e ai suoi che volevano succedergli nella sovranità e lo minacciavano perché si facesse da parte, ricordava di non essere il proprietario ma solo l’amministratore di un patrimonio che gli era stato affidato perchè lo passasse, come sempre era avvenuto, al suo successore.

Ma la necessità di quel possesso era ben più religiosa che politica . «Il governo temporale è una gran seccatura, eppure il bene della Chiesa esige che non me ne liberi», ripetè più volte Pio IX a coloro che lo invitavano a un accordo come quello che il Parlamento italiano offerse con la Legge detta delle “Guarentigie“ e che fu ignorata ancor prima che respinta dalla Curia pontificia.

Una serie di garanzie unilateralmente e “benignamente“ concesse dallo Stato, che riconosceva solo a se stesso la sovranità e, così come adesso permetteva, domani poteva, a suo arbitrio, rinnegare gli impegni.

La Chiesa, invece, era convinta che la sua libertà di amministrare il depositum Fidei a servizio della Chiesa universale fosse garantita soltanto da un territorio proprio, dove fosse in casa sua, non soggetta ai condizionamenti di un Principe o di un Governo altrui.

La storia offriva precedenti che confermavano una simile convinzione: il trasferimento ad Avignone si era rivelato davvero una “cattività“, una prigionia esercitata dal Dominus loci, il re di Francia, che incombeva non solo sul piccolo territorio ma anche sulla gestione ecclesiale e persino sulle scelte teologiche, oltre che sulla elezione di pontefici “graditi“.

Ma un altro esempio drammatico non era dimenticato né da Pio IX n dai suoi successori, sino alla Conciliazione con l’Italia: il Patriarca delle Chiese ortodosse, ospite a Bisanzio del Basileus e senza sovranità su un suo territorio, aveva finito per non essere altro che un personaggio eminente, ossequiato ma in ostaggio, della corte imperiale.

I Pontefici, dunque, si ostineranno a rifiutare qualunque soluzione di scioglimento della “questione romana“ sino a quando l’Italia non accetterà la formula della Città del Vaticano: lo Stato più piccolo del mondo e della storia, meno di mezzo chilometro quadrato, ma con una sovranità intera, con istituzioni in miniatura (tribunali, esercito, zecca , poste , radio, stazione ferroviaria, persino prigione) di fronte alla quale, però, si arrestarono persino i paracadutisti tedeschi della divisione Goering che passeggiavano, mordendo il freno, sulla linea gialla che indicava il confine.

Conferma significativa che, da Pio IX in poi, non era stata sbagliata l’intransigenza: domus parva, sed apta nobis…. Ma, sempre per giustizia e per verità storica. Al Machiavelli delle Istorie fiorentine («I pontefici hanno tenuto e tengono l’Italia disunita e inferma») , replicava due secoli dopo il fondatore stesso della moderna storiografia, Ludovico Antonio Muratori.

Documenti alla mano, il grande studioso, prete ma insospettabile in quanto tacciato di simpatia per i Lumi, poteva spingersi ad affermare: «Non havvi dubbio che, senza la presenza del papato a Roma, l’Italia sopra gli Appennini sarebbe divenuta una provincia tedesca, la Suedmark del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica, come in parte già avvenne per lunga tratta a sud del Brennero. E la parte peninsulare della regione italica, sarebbe da gran tempo una provincia musulmana, seguendo le sorti della Seconda Roma, Costantinopoli, trasformata per sempre in Istanbul ».

In effetti, apparentemente debole sul piano politico, quasi imbelle sul piano militare, con la sua immensa forza morale la Roma pontificia riuscì a tenere a bada l’Impero che desiderava una germanizzazione dei padani come quella che trasformò gli slavi in austriaci e in prussiani ; e riuscì a tenere a bada le flotte islamiche, coalizzando al suo fianco la Spagna cattolica e ripulendo il Mediterraneo con le galere dei monaci-guerrieri che avevano a Malta la loro base imprendibile.

Dispute e problemi storici, comunque, che rendono ancor più coinvolgente il progetto di questo libro che, alla pari dei precedenti, si affida anche a uno straordinario corredo illustrativo. Immagini assai belle ma rese possibili, non lo si dimentichi, dal fatto che i pontefici furono tra i più grandi mecenati della storia .

Della Roma ridotta a poche migliaia di miserabili accampati tra le rovine, dove i Fori Imperiali erano divenuti  il “Campo Vaccino“ , il colle del Quirinale il “ Monte Cavallo”, il Pantheon “la Rotonda“, rifecero una metropoli mondiale , la piazza del mondo dove gli artisti migliori erano convocati, onorati , pagati sontuosamente e, infine, minacciati e magari imprigionati se per caso manifestassero l’intenzione di andarsene.

Molto denaro, di molti popoli fu attratto qui da questi anomali Monarchi: ma anche molta bellezza ne scaturì. Non solo, il libro lo mostra, nella maestosa Metropoli ma anche nelle Province sotto il dominio di un Triregno cui non va alcuna anacronistica nostalgia ma deve andare , crediamo, il rispetto dovuto a ogni grande avventura della Storia.