Turchia, testa di ponte per l’Islam?

TurchiaStudi Cattolici n 542, aprile 2006

Di Massimo De Leonardis

Il negoziato per l’eventuale ammissione della Turchia nell’Unione Europea durerà molti anni, nel corso dei quali la situazione internazionale potrebbe cambiare in maniera anche drammatica. Tra l’altro un sondaggio del 2005 segnala una parallela diminuzione dei favorevoli all’ingresso sia in Europa sia nella stessa Turchia, dove, pur raggiungendo il 63%, sono calati del 10% rispetto al 2004.

Per fugare i dubbi dei molti oppositori europei è stata quindi usala anche l’argomentazione della lunga durata del negoziato, dall’esito, si assicura, non predeterminalo. Affinchè questa non si riveli una semplice manovra per preparare l’opinione pubblica ad accettare una scelta che oggi respingerebbe è bene mettere in evidenza tutte le ragioni che militano contro un’ammissione della Turchia nell’Unione Europea.

 I drammatici avvenimenti dello scorso febbraio, l’uccisione il giorno 6 a Trebisonda di don Andrea Santoro e l’aggressione tre giorni dopo a Smirne di Padre Martin Kmctec, francescano sloveno, sfuggito di poco al linciaggio, inducono a iniziare dalla questione religiosa. Alla tradizione storiografica di chi come Fernand Braudel vede nell’Impero ottomano «un’anti Europa, un controcristianesimo», se ne contrappone un’altra che idealizza tale Impero.

Un recente e suggestivo libro sulla storia di Costantinopoli (1) s’inserisce in questa linea, parlando ampiamente della tolleranza religiosa vigente nell’Impero. Non può, però, tacere fatti ben diversi, come la pubblica decapitazione, ancora nel 1843, di un armeno ritornato cristiano dopo essersi convertito all’islam, il cui cadavere fu gettato in pasto ai cani, nonostante le proteste di cinque ambasciatori. Poi la legge, ci viene detto, «cadde in disuso».

I patriarchi» greco-ortodossi di Coslantinopoli seguirono sempre una linea collaborazionista con il Sultano. Quando per esempio nel 1821 scoppiò la rivoluzione greca, il Patriarca Gregorio V accettò di lanciare contro i rivoltosi la scomunica e di farla leggere solennemente alla vigilia di Pasqua. Subito dopo però le guardie del Sultano lo arrestarono e lo uccisero lasciandolo agonizzare per molte ore. Il suo cadavere restò appeso per ire giorni e fu poi gettalo in mare. Contemporaneamente furono impiccali tre vescovi e due cappellani.

Quale laicità?

Come una certa storiografia idealizza l’Impero ottomano, oggi si sopravvaluta anche la laicità della Turchia musulmana. In realtà c’è minore tolleranza religiosa nello Stato nazionale turco di quanta ve ne fosse nel multinazionale Impero ottomano. Proprio perchè una minoranza assai consistente della popolazione dell’Impero era costituita da cristiani, sulla cui sorte esercitavano una certa vigilanza le Potenze occidentali attraverso il sistema delle Capitolazioni, il Sultano era costretto a riconoscere formalmente lo status delle loro comunità, anche se i cristiani erano considerati sudditi di seconda classe.

La tolleranza religiosa crebbe progressivamente e nel 1856, con il trattato di Parigi successivo alla guerra di Crimea, il Sultano comunicò alle Potenze europee di voler migliorare la sorte dei suoi sudditi «senza distinzione di religione ne di razza», ed espresse «le sue generose intenzioni verso le popolazioni cristiane del suo Impero».

Alla vigilia della prima guerra mondiale a Costantinopoli (l’odierna Istanbul) i musulmani costituivano solo il 49% della popolazione; nei primi anni dello Stato kemalista erano il 65%, oggi, dopo un incremento costante, sono il 99.99%.

Questa drastica diminuzione dei cristiani (e degli ebrei) la dice lunga sulla vera natura dello Stato turco, ben descritta da Padre Bernardo Cervellera, Direttore di Asianewa, su Il Foglio del 10 febbraio scorso: «Storicamente il governo turco, kemalista, laicista, non ha trattato le religioni allo stesso modo. Ha sempre avuto un atteggiamento tollerante con l’islam e molto più duro con i cristiani. Che tuttora scontano la mancanza di personalità giuridica, il divieto di proselitismo, l’impossibilità di educare i propri stessi giovani. I cristiani vivono in una situazione di dhimmitudine [..,]. Il problema della Turchia sta nel suo tipo di laicità, che è solo apparente, perché nega le libertà religiose. Così conculca i diritti dei cristiani, e allo stesso tempo è connivente con i musulmani».

In altre parole, la sorte dei cristiani non è affatto migliorata con il passaggio dal governo del Califfo-Sultano allo Stato kemalista. Sono cronaca di tutti i giorni le denuncie di prelati cattolici sulla mancanza di una vera libertà religiosa in Turchia.

In un’intervista  ad Avvenire del 7 febbraio il presidente della Conferenza episcopale turca, mons. Ruggero Franceschini, affermava: «Formalmente vige la libertà di culto ma in pratica dobbiamo fare i conti con molte limitazioni. Si può celebrare la Messa solo all’interno delle chiese, eventuali riunioni religiose che si svolgono in abitazioni private vengono guardate con sospetto. Ma soprattutto, la mancanza di personalità giuridica rende di fatto impossibile alla Chiesa di possedere gli edifici nei quali viene officiato il culto come pure altri tipi di immobili. Non si possono fare operazioni di restauro né costruire nuove chiese, è vietato aprire seminari… Le vocazioni religiose che nascono qui devono poi essere sviluppate all’estero, […] non possiamo aprire scuole né formare gruppi di aggregazione giovanile, perché questo verrebbe visto come una forma di proselitismo che metterebbe in pericolo l’ordine pubblico […] ai cristiani […] è precluso l’accesso alla carriera militare e alle alte cariche pubbliche».

In un’intervista all’agenzia Ansa nel giugno 2005, l’allora nunzio apostolico mons. Edmond Farhat affermava che «in Turchia, la libertà religiosa esiste solo sulla carta» e denunciava una «cristianofobia istituzionale non molto dissimile da quella esistente in altri Paesi musulmani». Sempre nel 2005 vi fu lo «schiaffo diplomatico» nei confronti del Papa e del Patriarca ecumenico di Costantinopoli con il rifiuto del governo di Ankara di permettere il viaggio in Turchia di Benedetto XVI, invitato da Bartolomeo I nella ricorrenza della festa di sant’Andrea (30 novembre), considerato il patrono dei cristiani d’Oriente.

Una situazione opposta a quella della Russia, dove Giovanni Paolo II era stato invitato dal governo, ma era la Chiesa a opporsi. Il fatto che il Papa sia poi stato invitato per quest’anno dal governo di Ankara non cancella il precedente atto contrario alla libertà religiosa.

La società turca è certo ancor meno laica e tollerante dello Stato. È dello scorso anno l’episodio delle ragazze di una scuola lasciate annegare in mare perché gli insegnanti impedirono ai bagnini maschi di intervenire a salvarle. Possiamo crocifiggere Buttiglione perché sostiene le posizioni della Chiesa in campo morale e far finta di nulla sul fatto che l’islam e la Turchia hanno per esempio sull’omosessualità posizioni ben più drastiche? Più in generale possiamo essere intransigenti nel rifiutare le radici cristiane dell’Europa e al contempo fare sconti sulla laicità all’islàm?

Idiosincrasie & contraddizioni

Un’argomentazione forte dei fautori dell’ingresso della Turchia è che esso porterebbe anche a progressi della libertà religiosa. Allora bisognerebbe fare appunto di questa uno dei punti cardine del negoziato, perché la linea dell’Unione Europea, e della Nato, riguardo all’ammissione di nuovi membri dopo la fine della guerra fredda (non ha quindi valore l’argomentazione sulla Turchia ammessa nella Nato nel 1952, in un contesto del tutto diverso da oggi che guardava solo agli aspetti strettamente militari), è sempre stata che essi devono risolvere le loro contraddizioni maggiori rispetto ai principi e alle regole delle due organizzazioni prima di entrarvi e non dopo.

Invece il 15 dicembre 2005 il Parlamento europeo, nel votare a larga maggioranza l’avvio dei negoziati sull’ammissione della Turchia, ha bocciato un emendamento che sollecitava Ankara a conferire al più presto personalità giuridica alle Chiese cristiane e a sopprimere la direzione degli affari religiosi, l’organo di Stato che controlla il culto e impedisce la costruzione di nuove chiese.

Commentando tale episodio, Avvenire ha lamentato «il manifestarsi nella maggioranza degli eurodeputati di un qualche pregiudizio anticristiano», ammonendo che «non si potrà condurre un’efficace trattativa con la Turchia se si abdica a singhiozzo, secondo le proprie idiosincrasie, all’identità europea». Va poi rilevata una contraddizione non secondaria. I parametri dell’Unione Europea impongono infatti alle Forze Armate di rinunciare a un ruolo politico; ma proprio i militari hanno sempre rappresentato in Turchia la barriera più forte contro il fondamentalismo islamico.

Un recente volume racconta la vicenda di un giovane turco che iniziò negli anni ’90 del secolo scorso il cammino di conversione al cattolicesimo. Mentre il padre minacciò di ucciderlo, trovò comprensione proprio tra i suoi superiori durante il servizio militare di leva, che gli imposero solo di non indossare la divisa quando si recava in chiesa (2). Sempre riguardo agli aspetti militari, alcuni osservano che per l’Unione Europea, alla ricerca della sua autonomia nel campo della difesa, l’Esercito turco, il più numeroso di tutti, sarebbe utilissimo. Si dimentica però che la Turchia non condivide affatto la ricerca di un’autonomia militare dell’Europa dagli Stati Uniti e un conseguente indebolimento del ruolo della Nato.

Veniamo ad altre questioni. Destano sorpresa non solo il persistente rifiuto del governo di Ankara di ammettere che vi è stato un genocidio degli armeni, ma anche la persecuzione giudiziaria di chiunque osi accennare al problema. Il genocidio degli armeni fu opera dei «giovani turchi», i diretti predecessori della Turchia kemalista, che, conquistato nel 1908-9 il potere nell’Impero ottomano, abbandonarono i loro precedenti proclami inneggianti alla «armonia tra le varie componenti etniche e religiose dell’Impero», abrogarono tutti i diritti civili da poco concessi ad armeni, ebrei e arabi, proclamarono la «turchizzazione» dell’Impero e la «ghettizzazione» di tutte le minoranze, a cominciare da quella cristiana armena.

Forse solo i cristiani devono pentirsi ogni momento? Perché l’assassinio di don Santoro dev’essere minimizzato come «gesto di uno squilibrato che non può essere imputato a un intero Paese», come ha scritto un autorevole commentatore sul grande quotidiano milanese ex indipendente, mentre le vignette di un giornale danese possono infiammare le masse musulmane contro governi che nulla hanno a che fare con esse?

La dinamica demografica della Turchia, che dal 1927 a oggi ha visto la sua popolazione raddoppiare ogni 35 anni, è molto sostenuta, mentre nei Paesi dell’Unione Europea il tasso di natalità è in costante e accentuato declino. Nel 2020, secondo proiezioni dell’Istituto Nazionale di Statistica turco, la popolazione della Turchia conterà 100 milioni di abitanti. Nel 2030 la popolazione turca costituirebbe il 17% dei cittadini dell’Unione Europea e già nel 2020, grazie all’ingresso della Turchia, i musulmani sarebbero più del 10% sul totale degli «europei» (ovviamente non calcolando gli immigrati irregolari).

Quali sono poi i due ragionamenti di fondo dei fautori dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea? Il primo, di carattere storico, è stato esposto più volte da Sergio Romano, che ha ricordato come, nell’età moderna e contemporanea, l’Impero ottomano sia stato più volte inserito nel gioco diplomatico europeo.

I «cristianissimi» Re di Francia furono più volte «alleati» del Sultano in funzione anti-asburgica. Nel secolo XIX Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna si allearono con il Sultano contro la Russia nella guerra di Crimea. Una rete di rapporti commerciali mai s’interruppe; ai vertici dell’Impero ottomano e al governo delle sue province si trovavano molti europei.

A quest’ultima osservazione si può facilmente rispondere che si trattava di cristiani, o ebrei, convertiti all’islàm con la violenza o apostati per opportunismo e che suona strano un elogio di quello che, nella seconda guerra mondiale, si chiamava collaborazionismo. È poi vero che nel 1856 l’Impero ottomano fu ammesso al «concerto europeo», peraltro organo informale. Era però visto non come una risorsa, bensì come un problema: l’«uomo malato» d’Europa. In forme diverse il problema esiste ancora oggi. Il punto fondamentale è però un altro.

Soprattutto nel cosiddetto sistema westfaliano fondato sull’equilibrio degli Stati sovrani, che si andava formando appunto dalla fine del secolo XV con il tramontare della Respublica christiana, l’essenza della politica internazionale è la lotta per il potere e gli aspetti ideologici, la concezione del mondo e di un ordine internazionale «giusto», sono a essa nettamente subordinati. In quel contesto non sorprende che sovrani cristiani inserissero nel loro gioco diplomatico e militare un attore islamico, anche se ciò suscitò scandalo (quella franco-ottomana del 1528 fu definita la «empia alleanza»).

Peraltro Francesco I e Luigi XIV di Francia strinsero temporanee intese con il Sultano, ma non si sognarono mai di rendere la Francia multietnica e multiculturale e quando, nel ‘500, le basi navali accordate ai turchi nel sud della Francia crearono problemi con le popolazioni, il sovrano revocò le concessioni. Oggi però l’Unione Europea prefigura un sistema internazionale diverso, almeno per il nostro continente. Non più guerre, politica di equilibrio e Stati sovrani in senso assoluto, ma assenza di conflitti armati e politica estera e di sicurezza comune.

L’Unione Europea è ben diversa dal «concerto europeo» del secolo XIX. Chi aderisce a essa è un partner che deve condividere ben di più di un temporaneo interesse diplomatico dettato dalla politica di equilibrio. L’adesione della Turchia a un’Europa «leggera», una zona di libero scambio o poco più, presenterebbe difficoltà che lascio agli economisti valutare; vedo però ostacoli insormontabili se l’Europa vuoi essere un soggetto protagonista sotto tutti gli aspetti della politica mondiale.

Ciò richiede qualcosa che l’Europa e la Turchia non condividono: un patrimonio comune di civiltà. È questo precisamente il pensiero espresso più volte dall’allora cardinale Ratzinger, per esempio nell’intervista a Le Figaro Magazine del 13 agosto 2004 («L’Europa è un continente culturale e non geografico. È la sua cultura che le dona una identità comune. Le radici che hanno formato e permesso la formazione di questo continente sono quelle del cristianesimo… In questo senso, la Turchia ha sempre rappresentato nel corso della storia un altro continente») e nel discorso alla sua diocesi di Velletri il successivo 18 settembre: «Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa: sarebbe un errore grande inglobarla nell’Unione Europea».

Un «mantra» tutto da dimostrare

II secondo ragionamento riguarda il rapporto con l’islàm. Si ripete continuamente un mantra: la Turchia è uno Stato laico e democratico con popolazione musulmana; come tale può costituire un modello per l’islàm in generale. La Turchia non dev’essere respinta perché potrebbe abbracciare il fondamentalismo. Tutte affermazioni di dubbia validità. Per esempio un recente sondaggio del German Marshall Fund rileva che solo l’8% dei turchi concorda che l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea sarebbe auspicabile perché «rafforzerebbe l’islàm moderato come un modello nel mondo musulmano».

È poi tutto da dimostrare che gli arabi, che si liberarono dal dominio ottomano, accetterebbero la Turchia come modello. Come è noto l’idea di un ruolo militare della Turchia in Iraq ha suscitato viva opposizione in tale Paese.

Comunque, la domanda fondamentale è: vale la pena introdurre nell’Unione Europea uno Stato di grandi dimensioni che sicuramente non condivide lo stesso patrimonio di storia, cultura, religione, in sintesi di civiltà, degli europei e il cui ingresso certamente imporrebbe un’ulteriore rinuncia a quanto resta della nostra eredità cristiana, nella speranza, tutta da verificare, che ciò rafforzi la nostra resistenza al pericolo islamico?

Dobbiamo veramente credere che gli indubbi problemi provocati sul piano interno dall’ingresso della Turchia sarebbero compensati da vantaggi nel rapporto con l’islam e che l’ulteriore perdita di identità cristiana rafforzerebbe l’Europa nello «scontro di civiltà» che, lo si voglia o no da parte nostra, è comunque in atto?

Per usare categorie usate in passato a proposito del socialismo e del comunismo (3), la Turchia sarebbe una barriera contro il fondamentalismo islamico, o non piuttosto una testa di ponte dell’islàm? L’Impero romano, la Respublica christiana medievale, l’Impero asburgico, se si vuole gli Stati Uniti con il loro melting pot, potevano integrare facilmente etnie e culture diverse. L’Unione Europea, priva delle radici cristiane, come potrà farlo?

Note

1) P. Mansel, Costantinopoli. Splendore e declino della capitale dell’Impero ottomano 1453-1924, Mondadori, Milano 2003, pp. 253-254 per l’episodio.

2) G. Paolucci – C. Eid, I cristiani venuti dall’islàm. Storie di musulmani convertiti, II ed., Piemme, Casale Monferrato 2006, pp. 77-94.
3) P. Corrèa de Oliveira, O socialismo autogestionario: em vista do comunismo, barriera ou cabeca-de-ponte?, Manifesto diffuso nel 1981 -82 in 53 Paesi per un totale di quasi 35 milioni di copie.