La testimonianza del fanciullo “rapito” da Pio IX

Pio IX Articolo pubblicato su Tempi n.37
20 settembre 2000

Una chicca per gli amici del libero pensiero non separato dai fatti. La testimonianza (a verbale) del fanciullo ebreo “rapito” da Pio IX, il quale (morto Pio IX) da teste al processo di beatificazione (del “rapitore”) dichiara: “Sono intimamente convinto che il mio augusto Protettore e Padre era un santo”

In margine alle aspre polemiche che sulla stampa nazionale ed estera hanno accompagnato la beatificazione di Pio IX (e, dopo aver lanciato ciò che gli uomini di mondo hanno considerato un sasso sulla strada del dialogo, gli uomini della Santa Sede non hanno certo tirato indietro la mano, tanto che a Roma, il 14 settembre, hanno organizzato un “Simposio internazionale sul beato Pio IX” con la partecipazione di studiosi ai massimi livelli, come Walter Bradmuller, Presidente del Comitato Pontificio di Scienze Storiche e il professor Yves Bruley, della Sorbona di Parigi), pubblichiamo qui di seguito stralci di una testimonianza storica che, oltre ai nostri gentili lettori, forse potrebbe interessare qualche commentatore che volesse ragionare a freddo su uno dei fatti che, sulla stampa nazionale ed estera, è servito per dipingere Pio IX come un Papa becero e oscurantista, e cioè la cosiddetta conversione forzata del fanciullo ebreo Edgardo-Levi Mortara, narrata da lui medesimo davanti alla “Sacra Rituum Congregatione”, proprio nel corso del processo di istruzione della beatificazione e canonizzazione di papa Mastai Ferretti.

Naturalmente il testimone racconta vicende accadute più di un secolo fa, molto lontane dalla nostra sensibilità e cultura contemporanea. Ma i fatti salienti restano tali e la domanda di stretta attualità a cui tali fatti forse aiuteranno a rispondere è la seguente: di cosa parlano i giornali quando parlano di Pio IX?

«Mi chiamavo al secolo Edgardo Levi-Mortara, in religione Pio Maria. Sono nato in Bologna dai furono Salomone e Marianna Padovani nel 27 agosto 1851. Nell’età di 13 anni entrai come aspirante presso i Canonici regolari di S. Pietro in Vincolis; fui ammesso al noviziato il 6 ottobre 1866 a S. Agnese fuori le mura, nella cui Basilica pronunziai i voti semplici il 17 novembre 1867; feci poi la professione solenne nella Canonica di Nova Cella nel Tirolo austriaco presso Bressanone il 31 dicembre 1871. Ho insegnato in Italia e all’estero scienze sacre e profane; ma specialmente mi sono dedicato alla predicazione in varie lingue».

Battezzato in segreto dalla fantesca

«Nato da genitori israeliti, all’età di circa diciassette mesi fui sorpreso da una grave malattia, neurite, che mi ridusse all’estremo, e riconosciuto il caso gravissimo dal medico, ora defunto, come credo. Accortasi del pericolo la fantesca, Anna Morisi, cristiana e ottima giovane di sedici o diciotto anni, che i miei genitori, malgrado le leggi allora vigenti nello Stato Pontificio ritenevano al loro servizio, prese la determinazione di amministrarmi il Santo Battesimo. Colto il momento, in cui mia madre m’avea lasciato solo nella culla, si avvicinò con un po’ d’acqua, e mi battezzò per aspersionem, pronunziando la formula sacramentale. Terminato quest’atto, comparve mia madre, che di nulla s’accorse. Tutti questi dettagli risultano in sostanza dai documenti annessi al Processo svolto a Bologna nel 1859, a carico del P. Gaetano Feletti, che era stato Presidente del Tribunale della Sacra Inquisizione di Bologna, prima dell’annessione delle Romagne al Regno d’Italia”.

A Roma, “adottato” dal Papa

«Il fatto fu mantenuto nel più assoluto segreto dalla Morisi, sorpresa della mia pronta guarigione. Sei anni dopo, un mio fratellino di nome Aristide, cadde gravemente ammalato. Sollecitata con istanze la Morisi da una sua amica, a battezzare il bambino in extremis, essa si ricusò a farlo allegando per ragione la mia sopravvivenza al Battesimo, e così fu rivelato il segreto. Giunta in tal modo la notizia del mio battesimo a conoscenza dell’Autorità Ecclesiastica Ordinaria, questa giudicando che, il caso era troppo grave per essere della sua competenza, ne riferì direttamente alla Curia Romana.

Per quanto risulta dal Processo (e io non so altro) il Santo Padre per mezzo di una Congregazione Romana, incaricò il Feletti della mia separazione dalla famiglia, la quale ebbe luogo, cum auxilio brachii saecularis, cioè intervenendo i gendarmi dell’Inquisizione, che io ricordo, il giorno 24 giugno del 1858. Fui condotto dai gendarmi a Roma e presentato a Sua Santità Pio IX, il quale mi accolse con la più grande bontà, e si dichiarò mio padre adottivo, come di fatti lo fu, finché visse incaricandosi della mia carriera e assicurando il mio avvenire. Mi affidò al Canonico D. Enrico Sarra, Rettore dell’Istituto dei Neofiti a S. Maria dei Monti, diretto dalle Figlie del S. Cuore».

Senza “la più lieve velleità di tornare in famiglia”

«Pochi giorni dopo il mio arrivo in Roma, ricevuta l’istruzione religiosa, mi furono supplite le cerimonie del Battesimo dal Cardinal Ferretti, nipote di Sua Santità; e questo porse occasione all’equivoco storico, che io sia stato battezzato a Roma dopo la mia separazione dalla famiglia, come racconta il De Cesare in una delle sue opere. Otto giorni dopo si presentarono i miei genitori all’Istituto dei Neofiti per iniziare le pratiche onde riavermi in famiglia. Essendosi data loro piena facoltà di vedermi e trattenersi meco, prolungarono la loro residenza in Roma per un mese venendo tutti i giorni a visitarmi. E’ superfluo il dire che adoperarono ogni mezzo per riavermi, carezze, lagrime, preghiere e promesse. Ad onta di tutto ciò io non mostrai mai la più lieve velleità di ritornare in famiglia; del che io stesso non so rendermi ragione, se non mirando alla forza soprannaturale della grazia».

 Il “ratto Mortara

Una campagna (mediatica) contro la Chiesa, che si ripete (uguale) da un secolo “Intanto nella stampa di tutta l’Europa e si potrebbe dire di tutto il mondo si menava gran chiasso sul ratto del fanciullo Mortara, che diventò celebre come quello delle Sabine. Nei pubblici ridotti, nelle locande, nei caffè di altro non si parlava, e perfino fu eseguito al Teatro reale di Parigi una tragedia col titolo “Le petit Mortara”. La Comunità Israelitica di Alessandria (Piemonte) fece appello a tutte le sinagoghe del mondo, ed organizzò una vera campagna contro il Papa e la Chiesa Romana, interpellando le potenze e supplicandole di intervenire e protestare diplomaticamente.

Di fatto furono inviate proteste, insomma per sei mesi durò questa polemica violenta e appassionata nella quale si davano convegno tutti i nemici del Papato e della Chiesa Romana. Non mancarono però dei prodi nel campo Cattolico, che con eroico coraggio e con ammirabile costanza difesero il magnanimo Pio IX, che come diceva egli stesso in mezzo a quella furiosa tempesta, ad esempio del Divino Redentore tranquillamente dormiva: ‘Ipse vero dormiebat’”.

 “La benedizione di Pio IX mi accompagnò dappertutto” 

«La paterna sollecitudine del Santo Padre si palesò sopra tutto ad occasione degli sconvolgimenti politici del 1870. Dopo l’entrata delle truppe Piemontesi a Roma in quei giorni di anarchia che precedettero la costituzione del nuovo governo, la ciurmaglia che la polizia era incapace di raffrenare, dopo aver strappato a viva forza dal Collegio degli Scolopi il neofito Coen si dirigeva a San Pietro in Vincoli per rapire anche me; il che poi provvidenzialmente non si effettuò.

Pio IX, inquieto del mio avvenire, domandò più volte, se ero stato allontanato da Roma. All’essere poi informato della mia evasione, disse queste precise parole: ‘Ringraziamo il Signore, che il Mortara è partito’. La benedizione di Pio IX mi accompagnò dappertutto. Anzitutto essa mi ottenne la forza e il coraggio per non cedere alle ingiunzioni e alle minacce delle autorità liberali, che volevano costringermi, ad onta dei voti religiosi, a tornare in famiglia, esposto al pericolo di diventare spergiuro e forse anche apostata»

Minacce dalla polizia. E protezione dal generale Lamarmora

«Il Signor Berti, Prefetto di Polizia, si recò a S. Pietro in Vincoli, facendomi rimostranze e sollecitandomi a dar soddisfazione alla opinione pubblica, irritata dalle esorbitanze del potere teocratico e a rientrare in famiglia. Dietro la mia osservazione, che non v’era luogo a soddisfazione di sorta, avendo io dato testé a mio padre presente a Roma tutte le prove del più tenero filiale affetto. ‘Come che sia, riprese il Prefetto, per il suo bene e per quello della sua Comunità, io l’esorto a tornare in famiglia’. La polizia seguiva tutti i miei passi, e ogni sera si postavano delle guardie nelle adiacenze del Convento per impedire una fuga.

Onde mettermi al coperto da queste vessazioni, mi fu consigliato, di rivolgermi a Sua Eccellenza il Generale Lamarmora, allora Luogotenente del Re Vittorio Emanuele a Roma. Domandata l’udienza che mi fu subito ottenuta, Sua Eccellenza mi ricevette nei termini più benevoli. Esposto a Sua Eccellenza il caso, egli mi disse: ‘Ma insomma, che cosa si vuole da lei?’. ‘La polizia, risposi, vuole costringermi a tornare in famiglia’. ‘Ma lei quanti anni ha?’ mi domandò. ‘Diciannove, Eccellenza’. ‘Dunque lei, soggiunse, è libero. Faccia quel che vuole’. ‘Ma Eccellenza, sono minacciato di rappresaglie’. ‘In questo caso lei si rivolga a me e io la proteggerò» .

 La stampa “liberale” e le calunnie dello “sfregio” ai familiari

«Intanto la stampa liberale si scatenava contro i Clericali e specialmente contro i Gesuiti, accusandoli di avermi suggestionato colo loro fanatismo papalino e d’aver così provocato una evasione, che risultava uno sfregio per la mia famiglia. Per ribattere queste infondate accuse scrissi una protesta, che fu pubblicata dal cattolico “Journal de Bruxelles” e riprodotta da altri giornali cattolici e liberali. Si sparse così la voce del mio supposto domicilio a Bruxelles, mentre io mi dedicavo tranquillamente agli studi Teologici nel Seminario Vescovile di Brixen.

Il Sommo Pontefice degnandosi di non dimenticare il suo figlio adottivo, mi mandò più volte la sua benedizione a mezzo il Generale dell’Ordine in riscontro ai miei indirizzi di felicitazioni ed auguri. Si vorrà sapere quali furono i miei rapporti con i genitori dopo la loro partenza da Alatri. Io non ebbi più notizie di loro. Scrissi bensì più volte delle lettere parenetiche, trattando di religione e adoperandomi di convincerli della verità della Fede Cattolica. Si capisce che tali lettere, quantunque fossero espressione della mia convinzione personale assai viva, non potevano essere opera esclusivamente mia, e per questo restavano senza risposta.

Solo nel maggio 1867, essendo Novizio, ricevetti la prima lettera dei miei genitori, nella quale, dopo avermi assicurato della loro immancabile affezione, notavano, che se finora non avevano risposto alle mie lettere, egli era perché di mio non avevano che il nome e la firma, ma che ormai si lusingavano potere io corrispondere con loro senza controllo. La prima volta che rividi mio padre fu a Roma ai primi di ottobre 1870. Affettuosissimo fu il primo incontro; si rinnovarono le visite a S. Pietro in Vinculis nei termini più espansivi e, al prender congedo, prima del suo ritorno a Firenze, allora Capitale del Regno, accettò volentieri dei ricordi e regali per i miei fratelli»

“Un pretesto poco onesto” per chiudere la questione romana

«Riguardo alle relazioni di Pio IX coi governi, quello, che posso dire è, che Pio IX, resosi pubblico il fatto della mia separazione dalla famiglia, si trovò involto in gravissime complicazioni diplomatiche e officiali con la Francia (consultare le Mélanges di Luigi Veuillot, dalle quali io stesso l’ho appreso). In conferma di quanto dico posso addurre le parole che raccolsi dalle labbra stesse del Generale Latour, membro dello Stato Maggiore di Napoleone III: ‘Come si esprimeva l’imperatore riferendosi al mio caso?’ gli domandai. Egli rispose: ‘Ma come! Io mantengo i miei soldati a Roma e lui mi fa tali bétises’.

Come si esprimeva il celebre polemista Veuillot, alludendo alle dette complicazioni: ‘Il fatto del piccolo Mortara fu come una palla di legno lanciata per far dello strepito e un pretesto poco onesto per accelerare lo svolgimento della questione romana’. E difatti il sillogismo era ovvio. Il fatto Mortara non sarebbe avvenuto senza il potere temporale: dunque bisogna sopprimere quest’ultimo. Il che bene era noto al Pontefice e risultava dalle rimostranze poco rispettose e dalle minacce che riceveva, ad onta delle quali egli si manteneva fermo e costante, ripetendo all’occasione quel sublime ‘non possumus’, di fronte al quale cedono tutte le forze umane. Insomma il dilemma era questo: ‘o si restituisce il fanciullo o noi non rispondiamo della sicurezza del Papa nei suoi Stati’. So, che una volta, esclamò, che neppure tutte le baionette del mondo l’obbligherebbero a restituire il fanciullo»

“Desidero vivamente la Beatificazione e Canonizzazione di Pio IX”

«Null’altro ho da aggiungere, togliere o mutare alla fatta deposizione. Soltanto aggiungerò quel che segue. Sono intimamente convinto non solo per la deposizione, che ho fatto, ma per tutto l’insieme della vita del mio augusto Protettore e Padre, che il Servo di Dio era un Santo; ed ho la convinzione quasi istintiva, che un giorno sarà elevato all’onore degli altari»

Tratto dalla deposizione resa da Edgardo Levi-Mortara presso il tribunale ecclesiastico per la causa di beatificazione di Pio IX, pubblicata in “Romana seu Senogal Spoletana seu Imolensi et Neapolitana, Beatificationis et canonizationis servi dei PII IX summi pontificis, Vol.I,tabella testium et summarium, Super Introductione Causae, Sacra Rituum Congregatione”, stampato a Roma,Tipografia Guerra e Belli, Via Milano 57, anno 1954.

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