I padroni del vapore

capitali_esteroEditoriale il Domenicale 1 aprile 2006

Perché i poteri forti e gli oligarchi preferiscono la sinistra. Tassare le rendite, come vorrebbe l’Unione, danneggia soli i piccoli risparmiatori. Quelli grandi già preservano i loro capitali all’estero. E così saranno ancora più ricchi.

La nostra società ha subito nell’ultimo cinquantennio cambiamenti epocali. Nelle condizioni di vita, nel lavoro, nei redditi, nella cultura, nei valori stessi dell’esistenza. Ciò che sorprende di questi mutamenti è che vi sia nel cittadino scarsa consapevolezza, e scarso orgoglio per essere egli stesso stato protagonista di tali successi.

Molti italiani non hanno colto il senso sociale profondo delle trasformazioni intervenute e vivono ancora nell’Ottocento, come se fossimo in piena lotta di classe e in una situazione pre-scientifica e pre-industriale. È mancata una spiegazione filosofica che fosse comprensibile da parte di tutti i cittadini.

I richiami al pensiero liberale e riformista sono stati sempre marginali o emarginati. In questi ultimi anni “tutto cambiava per nulla cambiare” nella testa di troppi italiani.  Molti intellettuali e cronisti “ancienne régime” continuano così a descrivere una società che non c’è più. Rimpiangono la “lotta di classe” e rimangono fautori di un pensiero conflittuale che spinge verso estremismi fuori dal tempo e dalla logica del sistema nel quale viviamo.

Tutto è cambiato, perché si sono completamente trasformate la ricchezza e la struttura del reddito della famiglia. La remunerazione del lavoro (sia dipendente che autonomo) è una componente del reddito familiare e non sempre la più importante. Basti riflettere sui seguenti dati: i valori patrimoniali delle abitazioni sono cresciuti del 34,4% (in termini reali dal 1996 al 2004) con una ricchezza così distribuita: il 40%, più povero, è proprietario di immobili per valori intorno ai 110mila euro; il 40% centrale intorno ai 450mila euro; il 20% più ricco intorno ai 930mila euro. L’81% degli italiani è proprietario della casa nella quale vive.

Nel programma della Casa delle Libertà si prevede di aumentare tale già elevata quota: attraverso la vendita agli affittuari (con mutui a basso tasso d’interesse e con valori ridotti almeno del 30%) di tutti gli immobili pubblici e con parte del ricavato verrebbero finanziate le giovani coppie per l’acquisto della casa.

Pronti via, capitali all’estero

Com’è noto il Centrosinistra attraverso la revisione del catasto vuole invece aumentare l’Ici per destinare il prelievo (o parte di esso) a sostenere i poteri forti (industriali, bancari, assicurativi), e le nuove oligarchie, che lo appoggiano in questa campagna elettorale. Nel libro di Geminello Alvi, economista della sinistra riformista, Una repubblica fondata sulle rendite, (Mondadori 2006) si calcola che «il 50% della ricchezza degli italiani è fatta di mattoni; un 9% di beni durevoli, la restante quota è composta, quasi per intero, di titoli di stato, azioni, fondi d’investimento e liquidi».

Non ci piace peraltro la definizione “rendita” per definire “i risparmi”, ma l’accettiamo per comodità di linguaggio. La ricchezza media corrente (per famiglia) era nel 2004 di 321mila euro (con una crescita netta del 15% dal 2001; dati sempre di Alvi).

È evidente che l’aumento delle imposte sui titoli di Stato ipotizzato dalla sinistra dal 12,5% al 20% punirebbe pesantemente le famiglie con gravi conseguenze: il trasferimento all’estero di ingenti masse di capitali (essendo oggi libero lo spostamento dei capitali nell’Unione Europea sarebbero le stesse banche a consigliare gli investimenti esteri anche ai piccoli e ai piccolissimi risparmiatori-investitori); l’impoverimento delle famiglie, perché ridurrebbe la quota spendibile o reinvestibile e determinerebbe l’erosione del capitale.

Immaginare un’imposta solo per i redditieri più ricchi è un assurdo. Gli oligarchi e i grandi capitalisti non temono questo tipo di tassazione, perché già hanno i loro fondi all’estero. A cominciare dal presidente della Confindustria Montezemolo che ha il suo fondo d’investimento in Lussemburgo.

Le proposte della sinistra di nuove o maggiori tasse con annunci e smentite fanno tornare alla mente alcuni insegnamenti universitari. Un notissimo docente di scienza delle finanze usava dire, già nei primi anni del secolo scorso, che nuove imposte o l’aumento di quelle esistenti non si annunciano né si smentiscono mai da parte dei governanti (o di coloro che aspirano a diventarlo).

Se si annunciano si crea timore tra i contribuenti e sul mercato, se si smentiscono si genera un gravissimo allarme, perché ciò sta a significare che il prelievo sarà così pesante da non poter essere neppure annunciato. Che la questione resti sul tappeto lo dimostra l’attenzione che sulla materia viene dedicata dagli articolisti del quotidiano Il Sole 24 Ore.

Il giornale della Confindustria ipotizza infatti «un lieve aumento dei rendimenti dei titoli di Stato a causa degli inasprimenti fiscali». Questa situazione, aggiunge l’autorevole quotidiano, porterebbe un vantaggio per gli investitori esteri che riceverebbero una maggiore remunerazione del capitale continuando a pagare nel paese di origine le imposte rimaste inalterate.

Alla Confindustria sembrano piacere gli aumenti fiscali che, determinando l’aumento dei tassi, farebbero gravare gli oneri sul debito pubblico con beneficio soltanto per gli investitori esteri. Si può ragionare in questa maniera aberrante e contrastante con gli interessi nazionali soltanto se si posseggono fondi di investimento all’estero attraverso i quali operare (e lucrare) in Italia.

Alle famiglie non i bot ma le botte

Alle “rendite” descritte vanno sommate le pensioni incassate dai baby pensionati. Sono circa 5 milioni (tra i 40 e i 60 anni) che squilibrano pesantemente i conti della previdenza sociale. Lo Stato nel 2004 ha trasferito 48,9 miliardi di euro all’Inps per pagare queste rendite. è corretto aggiungere che l’ultima riforma del sistema pensionistico (introdotta dal governo Berlusconi) riporterà la spesa sotto controllo.

In questi ultimi anni, in attesa degli effetti della riforma pensionistica e di quella sanitaria, la spesa pubblica è così aumentata. Protezione della vecchiaia e difesa della salute sono state giuste priorità del governo che ha garantito i ceti più deboli della nostra società.

La riduzione degli oneri derivanti dalla diminuzione dei tassi d’interesse sul debito pubblico (il vero beneficio dell’euro) è andata così a vantaggio delle spese sociali (pensioni e sanità) e a favore dei miglioramenti salariali di 3,5 milioni di dipendenti pubblici che hanno firmato contratti con una crescita superiore ai tassi di inflazione.

Da questo quadro emergono evidenti alcune sofferenze (anche gravi), che riguardano innanzitutto coloro che sono “senza rendite” e in secondo luogo i lavoratori dipendenti che hanno visto la crescita dei loro salari limata dall’aumento dell’inflazione. L’aumento del costo della vita (l’aspetto negativo dell’euro al cambio di circa duemila lire) ha così punito le famiglie che nono godono di “rendite” e che sono monoreddito.

Queste ingiustizie vanno eliminate sia con i provvedimenti prima ricordati per l’acquisto della casa che attraverso una riduzione del prelievo fiscale sul lavoro e sulle famiglie. Nella nuova legislatura bisogna avere il coraggio di portare a compimento quegli obiettivi di riforma che in materia fiscale e finanziaria si sono soltanto avviati nella legislatura ora conclusa.

Per raggiungere questi traguardi bisogna, ripetiamo: ridurre drasticamente la spesa pubblica di parte corrente e “fare cassa” vendendo il patrimonio disponibile dello Stato alle famiglie e alle imprese. Ci sarebbero così gli spazi finanziari sia per ridurre il prelievo fiscale che per diminuire il debito pubblico. Siamo tutti sulla stessa barca.

Se crescono le imprese aumentano i valori di borsa, se l’Italia è più stabile politicamente ed economicamente i titoli pubblici e le obbligazioni dei privati sono più appetibili, se migliora il livello di competitività per le aziende cresce l’occupazione e la ricchezza della nazione. Tutti gli italiani che godono di una rendita (patrimoniale, mobiliare e pensionistica) o di un salario fanno parte dello stesso sistema.

Pietro Ichino (A che cosa serve il sindacato, Mondadori 2005), sottolineando i mutamenti nella struttura produttiva e sociale del Paese scrive: «Se vogliamo tirar fuori l’economia dalle secche, imprenditori e lavoratori debbono evitare i costi dei conflitti» ed elaborare strategie comuni «con progetti concordati anche sulla ripartizione comune dei costi e dei benefici».

Ritornare al Patto per l’Italia

La “lotta di classe” e lo scontro sindacale-ideologico vanno contro i reali interessi di chi li pratica, contro le famiglie e contro le nuove generazioni. Se un’azienda è in difficoltà, il Paese è in difficoltà. Il sindacato in questa realtà è chiamato a svolgere una funzione partecipativa dalla quale può ricavare maggiori vantaggi sia per le categorie che rappresenta sia per l’intero sistema Paese.

Il Patto per l’Italia, sottoscritto due anni fa da tutte le organizzazioni imprenditoriali e dai sindacati (escluso la Cgil) va ripreso, integrato e sviluppato. Il lavoratore dipendente “patrimonializzato” sa che molteplici sono i suoi interessi e le fonti che accrescono le sue entrate ed è certamente favorevole a partecipare alla crescita del “sistema Italia”.

Tutte le categorie sociali hanno interessi economici comuni. Questa è la novità del nuovo millennio. Il Centrosinistra ha presentato un programma economico antico e contraddittorio. Giovanni Sartori, lo ha definito sul Corriere della Sera «un indigeribile pasticcio cucinato da troppi cuochi» (undici per l’esattezza) che «non firmerebbe». Il professor Sartori aggiunge che voterà contro Berlusconi, perché il deficit dello Stato negli ultimi anni è salito. (Era cresciuto anche nel quinquennio precedente e tutto questo enorme debito pubblico è stato creato dai governi di Centrosinistra che si sono succeduti negli anni).

Naturalmente il professor Sartori (personaggio curioso per il suo settarismo: si vanta di non ascoltare, né leggere i discorsi e gli scritti di chi ragiona diversamente da lui, in primis Berlusconi… per timore d’essere convinto) si guarda ben dal ricordare che la riforma delle pensioni votata dal Governo del Centrodestra ci ha ridato credibilità in Europa, perché ha dimostrato nel concreto la volontà del governo italiano di ridurre la spesa pubblica.

Né rammenta che contro questa riforma ha votato compatto il suo Centrosinistra.  Senza la nuova legislazione pensionistica il debito pubblico sarebbe fuori controllo Un pericolo per la nuova politica di concertazione è rappresentato dai vecchi e nuovi gruppi oligarchici che hanno vissuto e sono cresciuti con una forte protezione da parte dei passati governi del Centrosinistra.

Montezemolo e le sue pensioni

Montezemolo non ha detto a Vicenza (come Sartori, il guru della sinistra) una parola sull’epocale riforma delle pensioni (con innalzamento dell’età a 65 anni). Non lo ha fatto perché sta chiedendo i prepensionamenti per la Fiat. A questa dirigenza della Confindustria interessano poco le imprese italiane (al 95% medie e piccole): sono i grandi gruppi che dominando badano fondamentalmente ai loro interessi.

Queste oligarchie (assistite e foraggiate dallo Stato) hanno bisogno che al potere ci sia la “sinistra”. Era una convinzione più volte manifestata da Gianni Agnelli che «per fare una politica favorevole alla destra ci vuole la sinistra al governo». L’Avvocato considerava trasformista e corruttibile la sinistra italiana. Le lodi sulla grande stampa e pezzi di potere statuale l’avrebbero ripagata dei bei soldini che regalava agli oligarchi.

Nel libro-intervista di Roberto Colaninno (uno dei nuovi oligarchi, preda e predatore delle liberalizzazioni-liquidazioni) Primo Tempo. Olivetti, Telecom, Piaggio: una storia privata di dieci anni di capitalismo italiano (Rizzoli, Milano 2006) si racconta un episodio di alto valore simbolico. Racconta Colaninno che incrociò, poco tempo fa, al largo delle coste della Sardegna con la sua barca il lussuoso yacht di Carlo De Benedetti.

Si chiamarono per radio e l’Ingegnere lo invitò a cena. Trovò a tavola (erano in crociera ospiti del padrone del vascello) il presidente dell’Espresso, Carlo Caracciolo e l’on. Piero Fassino. Racconta sempre Colaninno che parlarono dell’affare Olivetti-Telecom e che De Benedetti si congratulò con lui per la conclusione della vendita che sottolineò era stata «l’affare della vita» (a spese del popolo italiano, ndr). Gli oligarchi (la presenza del leader post-comunista è perfetta) brindarono e poi scherzarono sulla possibilità di acquistare la Fiat.