La famiglia? «Un patto suicida…»

sessantottodi Francesco Agnoli

A chi voglia capire l’atmosfera culturale dell’epoca in cui stiamo vivendo può tornare utile un richiamo alla rivoluzione del 1968: in quel periodo un decadentismo elitario, che aveva caratterizzato personaggi di spicco di tutta Europa – da Baudelaire a Verlaine, da Huysmans a D’Annunzio, a Oscar Wilde – esplode a livello di massa. Le esperienze più stravaganti, più narcisistiche, più autodistruttive, per sfuggire allo spleen di una vita senza senso, avevano portato queste illustri figure dell’Ottocento a trascinare rabbiosamente la propria vita alla ricerca delle esperienze più inverosimili, come bramosi cacciatori di sensazioni da consumare.

Ma il decadentismo rimaneva un fenomeno di pochi, di coloro che si ritenevano «albatri con le ali da giganti», ma che preferivano poi razzolare nel fango delle cose mondane, per paura dell’altezza. Forse un cantautore di sinistra come Francesco Guccini avrebbe potuto rivolgersi proprio a loro con quei bellissimi versi di una sua canzone: «…e voi materialisti/ col vostro chiodo fisso/ che Dio è morto/ e l’uomo solo in questo abisso/ le verità cercate/ per terra, da maiali/ tenetevi le ghiande/ lasciatemi le ali…».

Questi personaggi, materialisti pratici in ogni espressione della loro vita, avevano però una consapevolezza profonda del sentiero che avevano intrapreso: non a caso molti di loro, dopo aver sperimentato il fallimento di una scelta estrema, si avvicinarono poi alla fede divenendone in qualche caso strenui difensori.

Ma i loro eredi, la generazione del Sessantotto, non ebbero molto spesso la medesima coscienza: quel movimento fu l’esplosione di un senso di disgusto, certo motivato, di horror vacui non senza ragione. Ma in realtà molti fuggirono dallo spirito borghese che li soffocava, per finire poi, nella realtà, tra le braccia stesse del mostro da cui scappavano. Proprio come molti giovani che nella prima Guerra mondiale si erano tuffati nella battaglia, quella delle trincee e dei mitragliatori, perché credevano così di fuggire alla società industriale.

Distruggere tutto ciò che c’era: questo fu il motto del 1968. Era più difficile ricostruire ciò che rimaneva di buono del passato, ritornare alle radici profonde di una tradizione umana, sofferta, secolare, duratura, al dunque buona.

Ed era forse difficile riconoscere qualcosa di bello in una generazione di adulti che spesso non aveva tramandato ciò che aveva ricevuto, per pigrizia, perché in altro affaccendata, perché troppo grigia nel suo modo di vivere freddamente tradizioni antiche e piene di senso. Si ritenne che fosse meglio segare l’albero, tutto intero, senza pensarci, spinti da un odio brutale, irrazionale. Vennero così gli anni di piombo e i giovani uccisi in nome di qualcosa che sembrava un ideale. Il nemico diveniva il senso stesso della vita, sino a cercare la morte.

Ciò che andava distrutto era il principio di autorità, il richiamo alla responsabilità di dover crescere e costruire: la figura del padre entrò in crisi, anche per effetto di libri come «La morte della famiglia» di D. Cooper (Einaudi, 1972), in cui il matrimonio è presentato come un «patto suicida» che porta a dimenticare l’io, mentre noi «apparteniamo solo a noi stessi». Si parlava molto di operai, di lotta di classe, di Marx.

Ma come testimonia un protagonista eccellente di quegli anni, Mauro Rostagno, gli interessi erano spesso altri: lo spiritismo, il sesso libero, l’abuso di droghe, l’annullamento nirvanico, il vuoto zen, la new age… Scriveva Rostagno: «A questi discorsi sulla droga associai quello sulla liberazione sessuale […]. Vai in giro a predicare ogni sorta di liberazione e poi, distrutto, torni a casa a picchiare tua moglie e i tuoi figli».

Nascono in questi anni le comunità new age di Big Sur in California, Findhorn in Svezia (1962), Auroville (1968) e Poona (1974) in India. Nasce uno spirito, quello underground, che adesso qualcuno vorrebbe dimenticare ma che almeno appariva più chiaro rispetto a tanta ipocrisia di oggi: occorre «far capire al vecchio proletario che la musica, l’erba, la comune… sono roba comunista… Noi dovremo diventare i genitori che dovranno sentirsi in grado di prendere l’acido coi propri figli».

Sono parole di Andrea Valcarenghi, amico di Marco Pannella, nel suo «Underground: a pugno chiuso» in un’epoca in cui si parlava schietto. Cos’è la famiglia? si chiedevano molti giovani. Una struttura oppressiva, come aveva scritto Engels ne «L’origine della famiglia»? Oppure una egoistica proprietà privata degli affetti, come avevano spiegato Tommaso Campanella, o gli illuministi Morelly e dom Deschamps, o il socialista utopista Fourier, veri antesignani dei moderni centri sociali?

Si pensava cioè che quella vecchia struttura, in cui loro erano nati, non fosse più attuale: tutto muta, tutto diviene, significa che nulla è vero, che nulla è sacro, che nulla ha il diritto di rimanere.

Fu un’illusione vissuta con passione, ma soprattutto senza ipocrisia, almeno nell’uso delle parole, da Cohn Bendit, Lidia Ravera, Rossana Rossanda… Scriveva quest’ultima che nell’ottica «di una energica liberazione sessuale… un movimento comunista deve battersi per la fine della famiglia» («Cinque lezioni sul ’68», supplemento al n.34 di Rossoscuola, Torino, 1987).

La famiglia tradizionale, si diceva ancora, «è solo un cancro al cuore, l’origine della maggior parte delle alterazioni, perturbazioni e malattie mentali di cui soffre l’adulto; della sua incapacità di amare e della sua sfiducia nei confronti degli altri» («Arcobaleno: un popolo senza confini», Terra Nuova). Il responsabile editoriale di «Terra Nuova» era un tale Marcello Baraghini, il quale – guarda caso – risulta essere poi divenuto responsabile di una sezione dell’editrice «Stampa alternativa», vicina ai radicali.

Bastano alcuni titoli del catalogo per comprenderne lo stile: «Eresie psichedeliche», «Marijuana in cucina. 101 ricette», «Cannabis, non solo fumo», «Vita morte visioni. Il profeta dell’Lsd si racconta», «Diario di un pedofilo»… Sulla rivista «Quarto mondo» (n.1, marzo 1971), per fare un altro esempio, si leggeva: «La famiglia… non è una “società naturale”; è un prodotto storico come qualsiasi altro tipo di famiglia esistita o esistente in altri tempi o in altri luoghi (famiglia poligamica, famiglia poliandrica, famiglia di gruppo, famiglia matrilineare, famiglia patriarcale)».

Queste erano le letture, le idee, le innovazioni a cui qualcuno affidava la speranza di una vita più bella. Da qui, da questa atmosfera culturale, e non da altro, nascono le battaglie di oggi per l’adozione ai gay, per l’aborto reso cosa banale, per l’eutanasia, per le droghe libere, per i Pacs…

In questo spirito, mentre a suo tempo si urlava che non occorreva un pezzo di carta per volersi bene, oggi si chiede che la società “sacralizzi” per legge ciò che è per sua stessa scelta precario e provvisorio. Al punto ormai che la nostra civiltà rischia di vedersi deprezzare anche una conquista come la monogamia, che significa pari dignità tra uomo e donna.

È di questi giorni, infatti, la notizia che in Canada c’è chi medita di abolire il reato di poligamia, di fatto riportando le donne a una condizione di minorità. Del resto, se il matrimonio monogamico tra uomo e donna non è più riconosciuto come qualcosa di naturale, di buono, perché corrispondente all’essenza dell’uomo, in nome di quale principio allora sarebbe vietato aprire le porte a famiglie gay, poligamia, poliandria, scambismo e quant’altro?