Il totalitarismo di massa

Hitler_StalinCseo documentazione n.151-1980
(Rivista del Centro Studi Europa Orientale)

Il tratto più vistoso delle dittature del XX secolo è il loro totalitarismo, il cui strumento è il movimento di massa, insieme all’uso violento di elementi di democrazia caricaturalizzati. Per vincerle, occorre creare strutture democratiche nuove, che ne riducano il carattere totalitario.di

Jan Tesař

Considero le dittature totalitarie un fenomeno del XX secolo non soltanto perché ne sono state un elemento caratteristico e i loro urli reciproci e le lotte di opposizione ad esse hanno costituito tanta parte della storia del nostro tempo, ma anche in considerazione della loro essenza sociale che si differenzia nettamente dalle forme di governo, incluse quelle antiche, precedentemente note, ad esempio le dittature militari.

Il tratto più vistoso della dittatura del XX secolo è il suo totalitarismo. La dittatura totalitaria non si limita alla sfera tradizionale del potere politico, ma interviene massicciamente in lutti i settori della vita sociale intromettendosi anche in sfere niente affatto politiche, nella vita privata dei cittadini.

Le dittature totalitarie di ogni tipo annullano il principio della libera iniziativa economica e ognuna di esse pratica in varia misura l’intervento dello stato nella vita economici.: la tipologia delle singole dittature è data appunto dalla misura e dal volume di questi interventi nonché dalle forme in cui essi si realizzano. Le dittature totalitarie cercano anche di acquisire il monopolio ideologico. Proprio questo totalitarismo è la componente più forte della loro sorprendente solidità e durata.

Questo dominio totalitario sulla società non avrebbe potuto realizzarsi con i mezzi convenzionali di cui disponevano le dittature classiche note dalla storia. Le dittature storiche che anche in questo secolo abbiamo incontrato in Europa, America Latina e Asia conoscevano di norma due strumenti fondamentali: la polizia con i suoi agenti e la burocrazia.

A questi le dittature militari aggiunsero, come terzo e forse più importante strumento, l’esercito. In questo caso però l’esercito finisce per svolgere solo la funzione di apparato poliziesco: quindi anche le dittature militari non escono dal campo dei sistemi dittatoriali tradizionali — con la differenza forse che, avendo a disposizione un apparato repressivo più potente, possono (ispirare ad un controllo più vasto sulla società interna.

Questi tre strumenti non possono però considerarsi sufficienti a costituire dittature totalitarie come nel corso di questo secolo nelle diverse forme concrete le ha conosciute per così dire tutta l’Europa. Per realizzare una dittatura totalitaria occorrono strumenti nuovi, moderni o, per meglio dire, tutto un nuovo sistema di strumenti.

Nell’ultimo trentennio del XIX secolo, l’idea della democrazia fece registrare decisivi progressi in tutta Europa. Passo dopo passo si realizzavano le idee del XVIII e XIX secolo sui diritti umani e civili, i cittadini si emancipavano e una volta emancipati entravano in numero sempre maggiore, con sempre maggiore veemenza e ampiezza di interessi, nella vita pubblica.

Applicarono in misura sempre crescente il conquistato diritto di associazione e diedero vita a svariate organizzazioni di categoria per tutelare i propri interessi di categoria. Nei paesi europei più evoluti, nell’America de! Nord (e poi anche in altri paesi), sorse gradatamente tutta una struttura di organizzazioni e istituzioni democratiche che io chiamo qui società civile.

Contemporaneamente sorsero, come nuovo fattore della vita politica, i movimenti dì massa. In concomitanza con essi acquistavano un’importanza anche qualitativamente nuova le ideologie di massa che cominciarono a dominare in proporzioni sempre più vaste le masse che facevano il loro ingresso nella politica e nella vita pubblica in genere. C’erano anche masse vissute fino a quei momento in uno stato di arretratezza, prive di una cultura democratica — mancava qui ancora una lunga tradizione democratica.

Proprio questi fattori, ideologie di massa e movimenti di massa, nati come conseguenza dell’avanzata dell’idea democratica, divennero il punto di partenza della ricaduta nel XX secolo del principio dell’assolutismo. Nel secolo dell’emancipazione del cittadino, della politicizzazione generale e dei movimenti di massa, il principio dell’assolutismo era realizzabile unicamente nel rispetto di tutti questi nuovi elementi della vita politica; riuscì tuttavia ad affermarsi anche in queste circostanze, anzi le sfruttò, fondando proprio su di esse la sua esistenza e la sua forza.

Il principale strumento nuovo della dittatura del XX secolo diventò proprio il movimento di massa. Questo è il tratto caratteristico più tipico delle dittature totalitarie del XX secolo.

Paradossalmente incontriamo qui un preciso elemento della democrazia che in alcuni casi può essere talmente marcato da nascondere anche ad osservatori attenti la sostanza assolutistica del sistema. Molto spesso questo è accaduto soprattutto nel momento decisivo dell’installazione di una nuova dittatura. Questo indubbio elemento democratico (anche se in forma caricaturale, disumanizzata) viene poi in tutti i casi, messo in rilievo dall’ideologia.

Di regola succede prima ancora che si installi la dittatura, nel periodo in cui il movimento tende solamente a un violento machtergreifung. Di norma si mette in risalto l’ostilità verso il vecchio sistema politico, che talvolta è un sistema democratico (come ad esempio la repubblica di Weimar o la repubblica russa prima dell’ottobre) ma che può anche essere un sistema dittatoriale di tipo diverso; a questa ostilità viene data volutamente una forte caratterizzazione popolare.

La vecchia élite sociale viene attaccata e dopo la presa del potere, decimata non meno delle vecchie istituzioni sociali. Il loro destino dipende in genere dal tipo di movimento e di nuovo regime — loro elementi più o meno conservati o intatti vengono incamerati nelle nuove strutture. Ogni regime totalitario senza eccezione si caratterizza per una spiccata demagogia sociale già al momento della nascita del «movimento», per tutto il periodo in cui si prepara alla «conquista» o alla «presa» del potere, nel momento in cui arriva al potere e dopo.

Una volta installato il regime totalitario non si accontenta di una mera demagogia verbale e in ogni caso prende provvedimenti sociali più o meno radicali a seconda del tipo di dittatura. Soprattutto il periodo dell’ascesa del movimento è accompagnato da una forte sottolineatura dell’idea rivoluzionaria nella sua forma estrema, fanatica — e qui di nuovo la demagogia non si ferma alle parole.

È sintomatico che la dittatura totalitaria si installi di regola percorrendo la strada violenta della rivoluzione. È vero che quasi ogni dittatura, incluse le dittature classiche, ad esempio quelle militari, si è installata in modo violento, però l’installazione della dittatura totalitaria è di norma l’affare di un movimento di massa.

Questi — in breve e il più astrattamente possibile — i tratti fondamentali comuni a tutti i movimenti di massa generatori di regimi totalitari anche se talvolta questi singoli movimenti sono divisi tra loro da un odio mortale, soprattutto quando sono in concorrenza per affermare il proprio potere in un determinato paese. Essi hanno in comune anche la forte propaganda di massa e la demagogia, anche se le ideologie utilizzate allo scopo sono di diverso tipo.

Ecco un altro paradosso che caratterizza le complesse vicende della democrazia nel XX secolo: per dare una motivazione ideologica alle dittature totalitarie del XX secolo sono state utilizzate forse tutte le grandi correnti ideali del XIX secolo.

L’idea del riscatto della nazione, la più tipica durante tutto il XIX secolo, diventò nella sua forma estrema la base per la definizione ideologica del regime totalitario in Germania ad esempio, in Italia e, in forma meno accentuata anche in altri paesi.

L’idea di un cattolicesimo politico formulata nelle encicliche di Leone XIII fu il punto di partenza che portò direttamente allo stato autoritario di Franco o al regime clerico-fascista installatesi, in Slovacchia con l’aiuto di Hitler.

L’idea del socialismo — dopo la spaccatura del movimento socialista e nella sua versione bolscevica — portò alla creazione di un sistema statale che, unico fra tutti gli altri tipi e anche primo, portò a una completa statalizzazione di tutta la vita sociale (inclusa la completa statalizzazione dell’economia) e a poderosi interventi nella sfera della vita privata (la proprietà, ecc…). Qui si potrebbe davvero parlare non di dittatura totalitaria, ma di dittatura totale. Si potrebbe dire che questo totalitarismo che si accompagna a un uso violento di elementi di democrazia caricaturalizzati «disumanizzati è la ragione principale della durata e della forza delle dittature di tipo bolscevico.

Le differenze apparentemente abissali nella stilizzazione ideologica delle singole dittature non possono impedirci di fare una panoramica critica in cui appare evidente l’affinità tipologica fra tutte queste varianti della medesima forma storica di stato. (Analoghi erano del resto i rapporti reciproci e la diversità delle posizioni ideologiche nelle monarchie assolutistiche del XVII e XVIII secolo). È innegabile come in tutti i movimenti totalitari fra loro ostili, prima ancora della presa del potere, esistano importanti tratti caratteristici convergenti. Questo risulta ancor più evidente se si analizza il sistema del potere politico nelle dittature totalitarie già installate.

Il principio fondamentale è la categorizzazione dei cittadini in due o tre classi: gli uni hanno pienezza di diritti in campo politico, gli altri no. Questo sistema è stato realizzato per la prima volta nella Russia bolscevica; le altre dittature totalitarie di tutte le sfumature ideologiche hanno assunto questo principio, anche se non sempre nella sua forma più marcata.

Questa trovata, che, dobbiamo considerare una geniale invenzione di Lenin, indipendentemente dal rapporto positivo o negativo che si può avere con lui, si è logicamente sviluppata da principio organizzatore prerivoluzionario del partito bolscevico chiamato centralismo democratico: il principio è stato esteso a tutto lo stato e lo stato e tutti i suoi organi sono stati sottomessi alle istituzioni del partito.

I seguaci i di questo partito dominante — gli unici i cittadini ad avere pienezza di diritti — sono ufficialmente riconosciuti come «i migliori» (aristoi avrebbero detto gli antichi Greci); i sistemi totalitari che dispongono di costituzioni ribadiscono questo principio anche a livello costituzionale. Il partito in quanto organizzazione politica dei cittadini di prima categoria viene proclamato la forza guida della società, mentre ai cittadini di seconda categoria come pure a ogni istituzione sociale, incluso lo stato, vengono affidati «compiti» che il partito assegna loro e su cui chi non fa parte del partito non può ovviamente esercitare alcuna influenza.

Vale la pena notare che questo sistema, semplice nella sua genialità, funziona senza che la classe dei privilegiati debba essere necessariamente ricompensata del fatto di essere strumento della repressione totalitaria degli altri cittadini. Anzi, il sistema lavora tranquillamente, e forse ancor più perfetta-1 mente, anche nella generale indigenza della società.

Inoltre, anche l’indipendenza politica dei «migliori» è molto relativa — se ne può parlare solo in rapporto ai cittadini di seconda categoria. In effetti anche questi «migliori» sono solo soggetti della «burocrazia» (uso questo termine non avendone altri a disposizione, ma senza alcuna associazione con la burocrazia dei regimi borghesi) di partito la quale, a sua volta, è solo un potente strumento della volontà di alcuni e, in ultima istanza, solo di un unico capo.

Il compenso che tocca a questo fondamentale strumento di ogni dittatura totalitaria è soprattutto la superiorità che ognuno dei «migliori» può avere su chiunque degli altri, spesso simbolicamente espressa con la consegna del fucile e la partecipazione all’addestramento su come reprimere le rivolte degli «iloti».

Questo semplice fattore socio-psicologico è latente quasi in ogni società, soprattutto in quelle cui manca una sufficiente cultura democratica; esso viene ridestato con un intervento chirurgico con cui è possibile asservire la società e adattarla (come nel caso del regime bolscevico nei suoi anni più duri) fino ad arrivare ad una restaurazione della schiavitù nelle sue forme medievali (servitù della gleba, impossibilità di scegliere liberamente il luogo di lavoro e di muoversi liberamente, scelta d’ufficio per la professione dei figli, sistema generalizzato di lavoro forzato con remunerazione in natura, ecc…).

Altro importante attributo del sistema totalitario è la legalizzazione della violenza di alcuni cittadini su altri; se ne conoscono due varianti fondamentali: «di classe» e «di razza»; dietro entrambe, la consapevolezza che l’oppressione di un concittadino sotto la guida di un capo è, anche per l’uomo moderno, un’esperienza spesso più ghiotta della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza.

Un tratto caratteristico molto importante di ogni dittatura totalitaria è l’assunzione di un partito, con tutte le organizzazioni, istituzioni e associazioni affiliate o subordinate, come strumento per dominare i singoli settori della vita sociale. Solo questo meccanismo offre la possibilità pratica di un dominio totale su tutta la società e su tutte le sfere della sua vita. Per questo anche nelle teorie politiche delle dittature totalitarie vi si dedica un’attenzione primaria.

Nel suo insieme questo meccanismo è proprio il «movimento» hitleriano. Stalin lo chiamò «sistema delle cinghie di trasmissione» e vi incluse l’intero organismo statale. In un sistema totalitario questo meccanismo sostituisce tutta la ricca struttura che chiamiamo società civile ed è — in ogni caso — il punto più sensibile di ogni dittatura totalitaria.

II principio della categorizzazione dei cittadini che trasforma tutta una parte sostanziale della società in un sostegno politico ed anche poliziesco della dittatura, suscita anche un caratteristico clima spirituale tipico soltanto della società sottoposta a una dittatura totalitaria: il clima della paura e del consenso generale forzato per paura. In questa società il cittadino non ha paura del poliziotto, del militare o dell’agente di polizia, ma ha paura «dei suoi vicini, dei suoi amici più intimi», come canta una canzone di protesta boema; non hanno paura solo quelli che non sono d’accordo, ma ne hanno forse ancora di più quelli che sono d’accordo o che erano originariamente d’accordo, hanno paura anche i più alti funzionari del regime, ognuno ha paura di ognuno.

Anche la paura è totale. E per paura tutti fanno a gara nel simulare il consenso. Il regime totalitario (anche qui a differenza delle dittature classiche) impone continue manifestazioni di condenso; anche il consenso deve essere totale. (E se il consenso, anche se coatto, non è più totale e la paura non è più totale, il regime non è più totalitario nel vero senso della parola!). La paura, persino quando non ha più motivo, è la maggior inibizione dell’attività sociale e quindi del progresso, anche politico.

La dittatura totalitaria rappresenta quindi una ricaduta del principio dell’assolutismo nell’epoca dell’ascesa decisiva dell’idea dio democrazia ed è possibile proprio solo grazie allo sfruttamento di alcuni principi democratici. Questo è il tipo di dittatura più forte conosciuto dalla storia, un tipo di dittatura che da oltre mezzo secolo si presenta come il più efficace e geniale, capace dì sconvolgere anche le strutture democratiche più avanzate e di resistere a tutti i tentativi di cambiamento.

La storia dimostra che nessuna società è immune davanti all’attacco del totalitarismo. È però anche evidente che sono esistite ed esistono società che nei confronti dell’installazione di sistemi politici totalitari si rivelano più adatte di altre.

Se vogliamo definire in termini molto generali qual è la sostanza delle condizioni favorevoli al regime totalitario, quella che balza subito agli occhi è la crisi rivoluzionaria della società. Forse senza di essa mai nessuna dittatura totalitaria si sarebbe installata. Il fatto della crisi rivoluzionaria è di per se stesso una prova dell’instabilità del sistema che la dittatura totalitaria nega o a cui temporaneamente si ricollega.

Di norma l’instabilità ha radici nel mancalo sviluppo della struttura della società civile. In linea generale si potrebbe dire quindi che condizioni estremamente favorevoli alla dittatura totalitaria si determinano là dove «larghe masse» entrano rapidamente e improvvisamente nella vita politica senza che la struttura della società civile abbia avuto un sufficiente sviluppo — in cui le masse sono ancora una folla succube dei propri istinti e sfruttata dai demagoghi.

Questo fatto ha avuto una conferma anche dalle drammatiche vicende dei giovani stati africani negli ultimi due decenni. Prive di una propria tradizione politica e per così dire senza organizzazioni e istruzioni democratiche, queste società propendono spontaneamente a dividere i cittadini secondo il modello leninista, pur non avendo alcun legame ideologico con il bolscevismo.

Qui il principio dì un partito guida, il principio degli «aristoi», è quasi generale e in alcuni di questi paesi si sono create dittature totalitarie tipiche. Questo dimostra che i sistemi totalitari nascono soprattutto quando le idee politiche moderne vengono realizzate in società meno avanzate politicamente. Questo a sua volta getta luce sulla nascita, la restaurazione e lo scambio di sistemi delle dittature totalitarie nell’Europa orientale e sudorientale.

Dall’evoluzione dei sistemi totalitari si può trarre anche un’altra conclusione: nessuna società era totalmente immune nei confronti del totalitarismo e nessuna aveva la garanzia di potersi difendere. Tuttavia nelle società in cui la struttura della società civile era più matura, la resistenza contro il totalitarismo è stata più forte — benché anche in quei casi qualche volta Ì sistemi totalitari siano riusciti ad affermarsi, soprattutto ad esempio con l’aiuto di interventi stranieri.

Da questi due dati parziali deriva la prima conclusione del nostro studio. Se i sistemi totalitari, come ricaduta nel XX secolo dell’assolutismo, nascono più facilmente negli ambienti in cui non si è sufficientemente affermata la struttura della «società civile» — il sistema più sicuro di prevenzione è quindi lo sviluppo di questa struttura.

Questa conclusione non dice però nulla in merito al superamento del sistema totalitario là dove esso già esiste. Per affrontare questo problema occorre vedere se e come i regimi totalitari sono stati superati.

Sono stati superati per via interna? No, se si esclude l’unica eccezione della Spagna. Le dittature totalitarie sono cadute solo in seguito a un intervento esterno, in un conflitto militare. Questo particolare già da solo dimostra senza ombra di dubbio la straordinaria solidità di tali sistemi. Dobbiamo inoltre sottolineare che la guerra contro il regime totalitario è stata di norma una guerra totale in cui i regimi totalitari sono riusciti ad organizzare enormi forze umane e materiali non esitando a sacrificarle fino al totale esaurimento dell’intera società e alla disfatta finale.

Qualche sistema è stato capace di resistere fino alle ultime forze. In genere il regime totalitario non dispone di nessun correttivo umano e, poiché esso rappresenta anche per tutti i cittadini il valore supremo, non ci si chiede se vi sia un limite oltre il quale i mezzi usati in difesa del regime risultano sproporzionati. Il sistema totalitario di valori non conosce questo limite, neppure a livello teoretico.

Questo fatto esclude a priori dal calcolo delle probabilità di superare le dittature totalitarie un intervento militare democratico straniero. La caduta di una dittatura totalitaria attraverso un intervento militare esterno si può ottenere solo a un prezzo altissimo, spropositato, qualunque sia la forza militare di cui uno stato totalitario dispone. Questo vale anche nel caso si tratti di una potenza insignificante.

Quanto è finora accaduto, con la promettente eccezione della Spagna — ci fa essere estremamente scettici verso la possibilità di superare una dittatura totalitaria dall’interno. Tuttavia lo sforzo di operare un cambiamento dura tanto quanto la stessa dittatura totalitaria, è quindi possibile cercare di capire limiti e rischi delle singole strade.

Nessuna delle strade può essere scartata a priori solo perché finora non ha avuto successo. Si può però vedere quali scelte hanno prodotto effetti meno duraturi. Scarse probabilità sembra innanzitutto avere la classica «strada della rivoluzione» — la rivolta nel tentativo di rovesciare la dittatura totalitaria.

I numerosi tentativi in questo senso hanno portato al fallimento, anche nel caso, bisogna sottolinearlo, di un successo apparente della rivolta e della caduta del .dittatore. La caduta del dittatore non comporta necessariamente la caduta della dittatura e così anche rivolte riuscite hanno tutt’al più portato a un cambiamento di sfumatura della dittatura totalitaria, ma non a un cambiamento del sistema. (Anche questo si può considerare una caratteristica fondamentale che distingue la dittatura totalitaria dalla dittatura classica).

Qui si impone la domanda sulla causa, Perché rivolte apparentemente così radicali, così negatrici, hanno così poca presa e soprattutto perché tutti i cambiamenti ottenuti con la lotta hanno così breve durata? È degna qui di nota soprattutto la facilità del consolidamento del sistema dopo le rivolte. La causa è proprio la persistente insufficienza di strutture democratiche. La società civile non si è ancora sufficientemente consolidata, la sua forma immatura rende possibile il totalitarismo, ne facilita la restaurazione — e il totalitarismo, si sa, è un ostacolo alla creazione di strutture democratiche.

C’è comunque anche un’altra obiezione più grave alle speranze di superare un regime totalitario attraverso un’azione rivoluzionaria. Si è visto cioè che alcuni paesi in cui un sistema totalitario di un dato tipo, di un dato orientamento ideologico era stato abbattuto percorrendo la via rivoluzionaria (in genere dopo una guerra, quindi con il contributo straniero) sono facilmente passati dalla rivoluzione all’installazione di un sistema totalitario di altro orientamento ideologico.

Si potrebbe giustamente dire che l’intervento straniero è stato qui decisivo non solo per abbattere il vecchio sistema totalitario, ma anche per costituirne uno nuovo, però non si può non notare che in entrambi i casi la premessa, all’interno, è stata la scarsa maturità della società civile. Una conferma a questa deduzione viene anche dalle vicende storiche di quasi tutti i paesi balcanici. Tutto conferma che il puro rovesciamento violento, rivoluzionario, della dittatura totalitaria può ridursi a un circolo vizioso.

Un’altra via da prendere in considerazione è la possibilità di cambiamento grazie alla «rivoluzione dall’alto» — per volontà di un dittatore illuminato che si mette alla testa del sistema totalitario per modificarlo sostanzialmente valendosi del proprio potere. La storia di molte dittature totalitarie è lastricata di sempre nuove disillusioni della speranza nella «rivoluzione dall’alto».

Anche il cosiddetto esperimento cecoslovacco del 1968 era nel suo genere una «rivoluzione dall’alto» in quanto al suo inizio non era un’emancipazione della società ma piuttosto un «processo di rinnovamento» innescato, condotto e perduto «sotto la guida del partito», cioè, nel caso specifico, sotto la guida della sua dirigenza liberalizzatrice. Il sistema della dittatura fu in breve scosso dalle fondamenta e le «cinghie di trasmissione» cessarono di operare; la restaurazione del sistema era possibile solo con un intervento di forze esterne.

Nondimeno bisogna ammettere che la restaurazione fu straordinariamente facile e non ci si può non stupire per quanto facilmente e rapidamente dal «processo di rinnovamento» sotto la guida del PC si sia passati al «consolidamento» sotto la guida dello stesso partito, identico nelle istituzioni e talora addirittura nelle persone.

La causa del totale fallimento di Dubcek è nota e io non ho niente da aggiungere: del resto questo non è neppure il tema della mia riflessione; richiamo solo l’attenzione sull’estrema facilità del consolidamento della vecchio-nuova dittatura e ribadisco che la causa fondamentale sta nel fatto che il «processo di rinnovamento» in Cecoslovacchia, ma, ancor prima, tutto il lungo periodo di preparazione che lo precedette, diedero scarso peso alla necessità di creare strutture democratiche nuove. (Lo dissi già nel giugno 1968). Questo è l’unico modo .per rompere il circolo vizioso.

Una versione moderna della speranza dinastica medievale è irreale, così come illusoria è la via che si richiama al romanticismo rivoluzionario del XIX secolo. L’una e l’altra strada furono un tempo capaci di vincere il vecchio assolutismo e oggi sono sufficienti ad annientare una dittatura tradizionale tipo quella di Batista (il dittatore cubano abbattuto da Fidel Castro – ndt), ma una vittoria duratura sul totalitarismo non può avvenire né con una semplice rivolta popolare, né con una semplice «rivoluzione dall’alto» e ovviamente non abbiamo argomento neppure a favore della speranza in una semplice combinazione di entrambe le strade.

Potrebbe sembrare che l’unica negazione del totalitarismo finora realizzata per via interna e senza guerre smentisca le mie idee. In realtà, la via spagnola è un argomento a favore della mia tesi. Infatti prima che arrivasse il riformatore dall’alto, erano comparsi nella fase della lotta violenta gli elementi di una nuova struttura democratica (commissioni operaie, associazioni politiche attive) e la società si era spiritualmente emancipata al punto che aveva imparato a servirsi dei diritti democratici (libertà di creazione artistica, libertà, di espressione, diritto allo sciopero e più tardi anche diritto di associazione); il riformatore dall’alto arrivò solo quando i pluriennali sforzi dei democratici gli ebbero preparato il terreno ed ebbero creato una situazione il cui sbocco erano le riforme.

La risposta alla nostra domanda fondamentale potrebbe sembrare già contenuta qui.

In realtà c’è un “problema: la dittatura di Franco era solo un sistema totalitario imperfetto. Altri regimi di questo stesso tipo storico sono molto più perfetti. Non voglio mettere in discussione la brutalità del regime di Franco che potè (e forse non doveva) essere maggiore che in altre dittatore totalitarie ancora esistenti.

Quello che però qui è in esame non è la brutalità del regime, ma la totalità della dittatura. Si tratta di due cose distinte. Si potrebbe dire che la brutalità della dittatura è piuttosto un sintomo della sua imperfezione: una dittatura totalitaria perfettamente funzionante incatena l’intera società senza bisogno di scadere in alcun eccesso.

Se posso servirmi del termine con cui l’ho definita all’inizio di questo studio, la dittatura di Franco è stata estremamente totalitaria o totalizzante, ma non totale: questa dittatura non nazionalizzò l’intera vita economica e non tolse qualunque base economica al movimento d’opposizione, come avviene nei moderni tipi di sistemi totalitari. (Anche questo spiega perché ad esempio nei paesi dipendenti fu possibile una vasta attività antinazista e non invece un’opposizione più organizzata nei confronti di regimi molto più moderati).

La dittatura di Franco lasciò alla chiesa la sua autonomia e la sua autorità sulla vita privata dei cittadini — e anche se in questo caso la chiesa fu originariamente alleata della dittatura totalizzante, non fu identificata con il potere dello stato, non venne nazionalizzata. Il franchismo rispettò, almeno in certa misura, anche l’autonomia di alcuni settori della vita sociale, soprattutto nei confronti dell’ideologia dello stato.

Ma anche dopo aver valutato queste circostanze non possiamo non riconoscere che anche dopo la caduta del franchismo la vittoria sulla moderna dittatura totalitaria resta sempre un fatto più di fede che di certezza. Se è chiaro che l’unica via sicura per vincere il totalitarismo è lo sviluppo della società civile, questo è immaginabile nella realtà di una dittatura moderna, totale?

La vicenda della Spagna è interessante anche per un altro aspetto: per il giudizio sull’importanza del fattore straniero nel processo di liberalizzazione di una dittatura totalitaria. Si è dimostrato cioè che la guerra, l’intervento armato da parte delle potenze democratiche, non è l’unica forma possibile di contributo esterno alla vittoria sul regime.

I metodi utilizzati nel caso della Spagna in fin dei conti si sono dimostrati probabilmente più efficaci e in ogni caso più umani di un intervento armato. Certo si sono rivelati lenti, ma se fossero stati applicati in tempo, con coerenza e senza che le singole potenze democratiche cercassero di trame un utile unilaterale, certamente l’azione sarebbe stata più rapida.

E ancora: la pressione delle potenze democratiche per una liberalizzazione del franchismo non aveva avuto alcun risultato né nel 1945 (quindi quando esisteva ancora la coalizione antihitleriana) né all’inizio degli anni 50. Ha avuto invece i suoi effetti negli anni settanta e questo, da un lato, perché l’evoluzione del mondo non consentiva più alla dittatura di ignorare i paesi stranieri, dall’altro anche perché l’internazionalismo e i principi etici avevano cominciato ad avere un maggior peso nelle relazioni del mondo democratico con la Spagna.

Questi fatti sono fonte di speranza per la democrazia anche negli altri paesi. Anche gli altri sistemi totalitari saranno sempre più costretti a tener conto dell’opinione pubblica all’estero e soprattutto a preoccuparsi dei rapporti dei governi democratici con loro — e questo fattore sarà sempre più incidente grazie alla generale tendenza all’integrazione e tanto più importante quanto più l’era sarà «pacifica».

Dovremmo inoltre evitare di ragionare in termini di contrapposizione. Esistono indubbiamente ancora oggi potenti dittature totali in pieno vigore. Ci sono in Asia, nell’America centrale e forse anche in Africa. I sistemi totalitari europei sono oggi in tale decadenza (o, se vogliamo, il processo di emancipazione civile è in questi paesi in tale sviluppo) che (per il nostro tempo, per questa fase dello sviluppo) è discutibile nei loro confronti l’uso stesso di questo termine.

Infatti il sistema totalitario in cui il cosiddetto dissidente può levare la sua voce di protesta senza essere immediatamente messo a tacere, perde la propria totalità, cessa di essere una dittatura totalitaria nel vero senso «della parola. Siamo qui piuttosto davanti a sistemi di tipo più o meno di transizione, sistemi che, sotto la pressione soprattutto della loro società e dei suoi irrefrenabili bisogni e anche per effetto della pressione dall’esterno, si democraticizzano e si umanizzano o per lo meno fingono di farlo.

Pur lasciando sempre aperto il problema se sia possibile creare elementi di una società civile e preparare così il superamento del totalitarismo mentre esiste ancora una dittatura totalitaria in pieno vigore, è chiaro che è possibile nelle attuali dittature europee accelerare un simile processo.

Qualunque protesta anche solitaria «di dissidente» infrange la totalità del sistema e ha quindi un’importanza concreta e pratica, oltre che etica. Tuttavia questo non è ancora di per sé un lavoro costruttivo. Non crea infatti ancora le nuove strutture democratiche quali elementi della società civile il cui sviluppo è l’unica garanzia per impedire l’installarsi di una dittatura totalitaria e anche per riuscire a superarla.

Ogni voce di dissenso verso la dittatura fa trionfare le libertà democratiche e libera così il campo a nuovi sforzi costruttivi. Contribuisce a vincere la paura generalizzata che frena il progresso. Se però deve essere l’inizio di un cambiamento, deve a poco a poco trasformarsi in una corrente inarrestabile di emancipazione civile che userà tutti i fondamentali diritti democratici e costituirà proprie strutture democratiche quali elementi della società civile che col tempo comincerà a sostituire l’ormai degenerato «sistema delle cinghie di trasmissione», che è la forza principale della dittatura totalitaria nella fase dell’espansione e il suo tallone d’Achille al crepuscolo del totalitarismo.

È importante sottolineare qui l’assoluta differenza che esiste fra le forme di questa lotta politica e, ad esempio, i metodi caratteri-stici della tradizione radicai socialista e comunista: non bastano la critica della situazione e le utopie sul lontano futuro dopo la vittoria finale. II primo interesse di un’opposizione democratica antitotalitaria deve essere quello dello sforzo costruttivo.

La materia non è nessuna «organizzazione» né fine a se stessa, né al fine di preparare la rivoluzione vittoriosa, è invece la corrente spontanea di attività e di emancipazione civile, lo sviluppo degli elementi che costituiscono la società civile. La struttura della società civile sarà forse col tempo costretta a svolgere anche alcune funzioni dello stato dato che l’apparato statale della dittatura totalitaria in decadenza non è più in grado di garantire i bisogni elementari di una società.

Tutto quanto è stato detto comporta ovviamente anche l’accentuazione della lotta per i diritti umani e civili nei sistemi totalitari. Oggi per lo più nel mondo questa lotta viene intesa solo nel suo aspetto atemporale e genericamente umanitario. Ovviamente non penso né di negare né di sottovalutare questo aspetto.

La lotta per i diritti umani deve essere condotta ovunque nel mondo e rappresenta il significato supremo per qualunque attività politica, riguardi gli USA o la spaventosa dittatura cambogiana. Per i paesi liberi questa lotta ha in genere solo questo significato generale, atemporale. Per le dittature ha, oltre a questo, anche un significato concreto, poiché è contemporaneamente una lotta per superare il sistema che avendo accettato gli importanti documenti sui diritti civili presume di ingannare l’opinione pubblica internazionale.

Ritengo superfluo sintetizzare in conclusione quanto è stato detto qui e quali altri concreti risultati ne derivano. Sono consapevole di non aver risposto alla domanda se sia possibile superare una dittatura totalitaria nella sua fase espansiva, se questa fase possa essere abbreviata e se la solidarietà internazionale possa in qualche modo contribuire a questo, oppure se qualunque intervento straniero nei confronti di una dittatura totalitaria in espansione può solo rafforzarla, proprio come Hitler e Roosvelt rafforzarono lo stalinismo.

Non ho dubbi che la libertà in Cambogia sia una questione che riguarda tutti gli uomini del mondo, non riesco a dire nient’altro. La mia specialità è la dittatura totalitaria che vive i suoi ultimi anni. Ricordo solo che anche a queste situazioni bisogna riferire il principio, fondamentale per tutti gli uomini onesti del mondo: la libertà è indivisibile e la lotta per la libertà ovunque si combatta riguarda ognuno di noi.

NOTA

JAN TESAŘ è nato in Cecoslovacchia nel 1933. Dopo aver conseguito la maturità, negli anni 1951-1956 frequentò il corso di storia alla facoltà di Filosofia dell’Università Carlo di Praga. Da! 1956 al 1958 lavorò al Museo di storia militare di Praga, dal 1959 al 1962 diresse il Museo regionale della Boemia orientale a Pardubice. Dal 1962 al 1968 collaborò nell’Istituto di storia militare di Praga e nel 1969 iniziò a lavorare nell’Istituto di storia dell’Accademia delle Scienze a Praga.

Nel settembre 1969 venne arrestato per aver firmato una dichiarazione in occasione del primo anniversario dell’invasione sovietica. Dopo un’istruttoria durata 13 settimane, venne rimesso in libertà provvisoria, senza essere sottoposto a giudizio. Venne comunque privato del posto di lavoro e gli fu vietato di fare pubblicazioni.

Dall’ottobre 1970 al novembre 1971 fece il guardiano notturno.

Nel novembre 1971 fu nuovamente arrestato in seguito a un volantinaggio in occasione delle elezioni cecoslovacche e nel luglio 1972 fu condannato a sei anni di carcere per «sovversione». Fu rilasciato nell’ottobre 1976.

Nel gennaio 1977 firmò il primo documento di Charta 77 e in seguito fu uno dei promotori e membri del Comitato di difesa dei cittadini ingiustamente perseguitati (VONS). Nell’ambito di questa attività a favore dell’applicazione dei diritti civili in Cecoslovacchia fu nuovamente arrestato nel maggio 1979. Nella primavera di quest’anno ha chiesto e ottenuto il permesso di emigrare in Occidente. Attualmente vive in Germania.

Tesař. appartiene a quel gruppo di storici cecoslovacchi (comprendente anche Jan Křen, Vàclav Kural, Kaiel Bartošek) che con il loro lavoro critico negli anni sessanta hanno dato un notevole impulso al rinnovamento della storiografia nel loro paese e hanno anche contribuito a creare il clima della primavera di Praga. Fra i suoi studi, degni di nota quelli relativi all’esperienza della Cecoslovacchia durante l’ultimo conflitto mondiale e sotto l’occupazione nazista.

I suoi lavori più recenti sono stati diffusi attraverso l’editoria clandestina. Fra questi ricordiamo uno studio sull’uso della psichiatria come strumento di repressione politica nei regimi totalitari, pubblicato anche in Italia con il titolo Diagnosi 301.7 («CSEO outprints»/2, 1980).