Chi ha paura della libertà?

Tratto da www.stranocristiano.it

E mentre si disquisisce sull’ora di Corano a scuola, c’è chi a scuola non può neppure pregare, a ricreazione. E’ successo a Milano, all’Istituto Professionale Paolo Frisi: alcuni ragazzi hanno chiesto il permesso di recitare l’Angelus tre volte la settimana durante l’intervallo, e in nome della laicità della scuola e della libertà delle persone il collegio dei docenti, a maggioranza, ha detto no.  Due docenti della scuola hanno scritto un volantino, a proposito, raccontando il fatto e facendo qualche domanda, come, ad esempio “Chi ha paura della libertà? Chi ha paura del pluralismo? Chi ha paura dell’educazione? Chi ha paura dell’ideale? Il volantino è molto bello. 

Segue la risposta al cardinale Martino pubblicata dal Corriere

CHI HA PAURA DELLA LIBERTA’?

Ieri 7 marzo, alla fine di una interminabile seduta, il Collegio dei docenti dell’Istituto Professionale “Paolo Frisi” di Milano ha espresso parere sfavorevole riguardo la proposta dei rappresentanti degli studenti al Consiglio d’Istituto e alla Consulta Provinciale di recitare la preghiera dell’Angelus tre volte la settimana, durante l’intervallo, all’interno della scuola. Il che equivale alla richiesta di sostare in un luogo dell’edificio per circa 8 minuti alla settimana in un gruppo di persone che a stento si immagina possa raggiungere le 10 unità.

Ma tant’è.Il collegio ha recepito questa richiesta come una grave minaccia alla libertà delle persone e alla laicità della scuola e, nonostante l’intervento ragionevole e pacato di diversi colleghi a favore della richiesta degli studenti, ha votato contro, a larga maggioranza.

Premesso che il problema sta all’origine, nel senso che non solo tale richiesta non costituisce materia di collegio, ma nemmeno necessita dell’autorizzazione di alcuno, essendo la possibilità di esprimere pubblicamente la propria fede religiosa anche attraverso gesti comunitari, ampiamente tutelata dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato italiano, il fatto merita qualche considerazione e suscita qualche domanda.

1. Chi ha paura della libertà? Le scomposte reazioni che si sono viste ieri in collegio ci paiono francamente sproporzionate alla richiesta, del tutto libera, avanzata dagli alunni. Perché degli studenti che preferiscono radunarsi nel tempo libero dell’intervallo, condividendo un gesto che ritengono costitutivo della loro amicizia, piuttosto che parlare di calcio, andare al bar, fumare in cortile… o altro, non possono farlo? E’ semmai impositiva e gravemente lesiva della libertà personale la pretesa del collegio di vietare un simile gesto.

2. Chi ha paura del pluralismo? La paventata minaccia alla laicità della scuola ci pare altrettanto infondata. Una scuola è laica se è veramente pluralista, ovvero se consente a tutto tondo l’espressione della tradizione, religiosa e culturale, di ciascuno. Questo è un contributo e una ricchezza. Se altri, di diversa appartenenza religiosa e culturale, avessero avanzato la stessa richiesta, avremmo forse avuto, finalmente, l’opportunità reale di un dialogo e di un confronto multiculturale.

Perché il dialogo vero si crea ed esiste laddove ciascuno è seriamente impegnato con la propria tradizione e la propria storia, laddove la persona si spende per qualcosa che incide sulla propria vita, la propone e la mette al vaglio della ragione nel presente. Viceversa l’apertura alla diversità ha i confini che gli diamo noi, censurando ciò che ci disturba o non rientra nei nostri schemi, divenendo così vuota retorica, argomento di scuola che non suscita più il minimo interesse.

3. Chi ha paura dell’educazione? Come adulti ed educatori che lavorano in una scuola pubblica, finanziata con il denaro di tutti i contribuenti italiani abbiamo il compito e il dovere di promuovere, valorizzare e difendere l’espressione ideale e la proposta culturale di tutti. Nessuno escluso. In particolare se l’iniziativa viene dagli studenti. Il compito dell’educatore è quello, ne siamo certi, di accompagnare gli studenti ad andare a fondo della tradizione cui appartengono e a verificare l’adeguatezza o meno di quest’ultima alla loro esperienza umana, anche se il loro credo non coincide con il nostro. Negare a degli studenti la possibilità di riconoscere pubblicamente la loro appartenenza religiosa è un fatto altamente diseducativo.

4. Chi ha paura dell’ideale? Lamentiamo spesso che i nostri alunni non hanno impeto, non hanno ideali per i quali impegnarsi. Sono figli della noia. E allora perché, per una volta che si verifica il contrario, lo si vuole stroncare sul nascere? Si ha forse paura del risvolto comunitario di questo ideale, della sua ricaduta sociale? Chi conosce la storia, e tutti noi in quanto adulti  e laureati dovremmo conoscerla, sa che il fatto religioso, e in particolare quello cattolico, si pone per sua natura come un fatto sociale e comunitario. Ma questo, per chi almeno è leale con la storia, è un contributo alla convivenza, non una minaccia.

E in democrazia è fatta salva la libertà di tutti e la libertà di tutti va difesa. Anche quella dei cattolici.

Silvia Colombo, Giusi Caronni (docenti del “Paolo Frisi” di Milano) 8 marzo 2006

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Corriere della Sera 10 marzo 2006

Giustizia e reciprocità

di Ernesto Galli della Loggia

Si possono muovere almeno tre ordini di obiezioni all’importante discorso tenuto ieri dal cardinal Raffaele Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, sui rapporti con il mondo islamico. Un discorso, vogliamo dirlo subito, ispirato a un discutibile irenismo e le cui proposte, se accolte, provocherebbero certo più danni e problemi che benefici. Ma ciò non vuole dire che non si tratti di un discorso importante dal momento che di sicuro esso riflette posizioni largamente diffuse sia nel mondo cattolico sia, con declinazioni in parte diverse, in quello laico. Il primo ordine di obiezioni riguarda la stessa premessa storico-causale, per così dire, della posizione espressa dal cardinale: «Solo il dialogo e la libertà religiosa – egli ha affermato – possono evitare il fondamentalismo: sia quello politico-laico che quello religioso».

Dunque la ragione per cui ci troviamo di fronte all’ondata fondamentalista attuale starebbe in null’altro che nel fatto che vi è stato finora troppo poco dialogo e troppo poca libertà religiosa. Se ce ne saranno di più, eviteremo il fondamentalismo. Il minimo che può dirsi, mi pare, è che si tratti di un’analisi approssimativa fondata più sull’ideologia che sui fatti. Davvero c’era una scarsa libertà religiosa nell’Inghilterra in cui sono cresciuti i giovani fondamentalisti (con passaporto britannico) che poi avrebbero fatto saltare in aria la metropolitana e i bus di Londra nel luglio scorso? Davvero è a causa della nota chiusura al dialogo delle chiese cristiane olandesi, e della conseguente soffocante cappa di conformismo religioso, che alcuni giovani islamici di quel Paese si sono sentiti in dovere di ammazzare Pim Fortuyn e Theo Van Gogh?

Il secondo ordine di obiezioni riguarda le modalità del rapporto con l’islam. «Se attendiamo la reciprocità nei Paesi rispettivi dove ci sono cristiani – ha sostenuto il cardinale secondo l’agenzia Ansa – allora ci dovremmo mettere sullo stesso piano di quelli che negano questa possibilità». Insomma, niente reciprocità: gli islamici a casa loro facciano pure dei cristiani ciò che gli piace, noi non faremo dipendere in nulla il nostro comportamento da loro. Ora è certissimo che mai e poi mai l’intolleranza altrui potrebbe giustificare la nostra, ma da qui a teorizzare l’irrilevanza della reciprocità, come mi sembra faccia il cardinale Martino, ce ne corre.

Specialmente se si pensa che egli sovrintende a un organo della Chiesa che si intitola, oltre che alla pace, alla giustizia. Ma la giustizia – la giustizia umana, non quella di Dio – non ha forse qualcosa a che fare con la reciprocità? Si può definire giusta una situazione che preveda una stabile disparità di trattamento? E una pace fondata sulla prepotenza e la persecuzione degli uni e la tolleranza e la remissività degli altri, merita davvero il nome di pace o non piuttosto qualche altro nome? La migliore risposta, come sempre, la dà il senso comune.

Vengo infine alla terza e più impegnativa affermazione di Martino. «Se in una scuola ci sono cento bambini di religione musulmana – ha detto – non vedo perché non si possa insegnare la loro religione. Questo è il rispetto dell’essere umano, e il rispetto non deve essere selezionato». Apparentemente non fa una grinza, ma i principi sono principi e devono essere applicati perché tali: allora bisognerà dire che non solo cento bambini ma dieci, cinque, un bambino di religione musulmana ha il diritto anch’esso a un apposito insegnamento di religione nell’orario scolastico.

Ma quanti insegnanti saranno necessari? E poi naturalmente nessuno vorrà negare che non solo i bambini islamici hanno diritto a un insegnamento religioso ma anche quelli di religione buddhista, di religione confuciana, zoroastriana, anche i bambini figli di Testimoni di Geova o magari degli adepti a Scientology. Perché no? E se no, qual è il criterio di esclusione – beninteso, in armonia con i principi di tolleranza e di dialogo religioso, nonché con il principio di uguaglianza – che lo Stato italiano potrebbe nel caso adottare?

Naturalmente non spero certo che il presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace vorrà rispondere a qualcuna delle domande sopra riportate. Se mai lo facesse sarebbe certo una meritoria rottura di quella tradizione delle gerarchie cattoliche che spesso si mostrano alquanto noncuranti degli aspetti pratici delle questioni che affrontano, accampando il motivo che di questi aspetti deve occuparsi la politica, cioè i laici.

Ma a parte ciò, e per concludere, mi sembra che le parole del cardinale Martino configurino su un insieme di questioni importantissime una posizione nettamente antitetica a quella ormai più volte delineata, e con forza, da Benedetto XVI. Si può dire anzi che quelle parole costituiscono in filigrana un vero e proprio manifesto antiratzingeriano: e anche come tali, dunque, esse si segnalano alla nostra attenzione. Se però dietro di esse ci sia solo uno stato d’animo o un pensiero personali, o se invece esse nascondono scontentezze più ampie e profonde, almeno al nostro sguardo e almeno a oggi è impossibile capire.