25 Aprile: una data strumentalizzata. Che non può fondare una nazione

25 aprileIl Domenicale 9 aprile 2005

Come e perché la Resistenza perse i connotati storici e assunse quelli liturgici di un fenomeno che doveva diventare il mito fondatore del nuovo Stato. Il ruolo politico del Partito Comunista e quello moralizzatore di Giustizia e Libertà

di Giuseppe Parlato

Prima di analizzare, per sommi capi e in termini assolutamente sintetici e divulgativi, la questione della Resistenza – dopo sessant’anni, una sorta di “nervo scoperto” della cultura, della politica e della storia del Novecento italiano – analizzandone soprattutto l’aspetto fattuale, senza potere e dovere dimenticare di corredare i fatti di una buona dose di spiegazione circa i motivi, le ragioni che hanno consentito che i medesimi si svolgessero in quei termini, occorre fare una puntualizzazione, insieme semantica e di merito, su alcuni aspetti preliminari alla questione.

Si può partire, nella interpretazione del fenomeno resistenziale, dalla riflessione di Claudio Pavone circa l’esistenza di tre guerre tra il 1943 e il 1945: la guerra patriottica, combattuta dai partigiani per cacciare l’invasore tedesco; la guerra civile che contrappose partigiani e fascisti, e infine la guerra sociale, quella combattuta dalle formazioni comuniste contro il fascismo e contro tutti coloro, anche partigiani, che in qualche modo erano ritenuti elementi reazionari e che in diversa misura avrebbero potuto impedire il radicale rinnovamento della società italiana (1).

La lettura di Pavone è interessante essenzialmente per due motivi. Da un lato è il primo studioso, a sinistra, ad utilizzare il termine di “guerra civile”: è noto infatti che la definizione di guerra civile – con la quale Pisanò titolò i tre volumi di una delle più documentate e interessanti letture da destra della guerra civile (2) – risultava inaccettabile ad una interpretazione militante e mitica del fenomeno resistenziale, in quanto poteva indurre a porre in qualche modo sullo stesso piano, come combattenti e come italiani, sia fascisti che partigiani (3).

Dall’altro perché Pavone fa luce su uno dei tabù più radicati nell’ambito della memorialistica partigiana: le vendette e gli scontri interni alla resistenza, spesso condotti per portare a termine un disegno ideologico di stampo comunista, sul quale altre correnti della resistenza (badogliani, cattolici, ecc.) non potevano essere certamente d’accordo.

Un altro elemento sul quale andrebbe compiuta una riflessione è la consueta e consolidata identità tra antifascismo e Resistenza, termini spesso sovrapposti e confusi. Vi sono, in realtà, elementi comuni e fattori di diversità fra i due momenti dell’opposizione al fascismo.

L’antifascismo è molteplice e sostanzialmente equilibrato nella sua molteplicità; nell’antifascismo forte è la componente prefascista, una componente per lo più moderata, di tradizione liberale e democratica, legata al messaggio risorgimentale, con forti perplessità sugli obiettivi del Partito Comunista; anche nella emigrazione politica a Parigi, all’interno della Concentrazione, i rapporti fra questo antifascismo e il Pci non furono mai idilliaci e soltanto con la guerra di Spagna si verificò un avvicinamento tattico; lo stesso antifascismo democratico imputava al Pci la disinvoltura con la quale intratteneva rapporti con esponenti del fascismo di sinistra attraverso gli “appelli ai fratelli in camicia nera”.

La Resistenza appare immediatamente un fenomeno diverso: è un movimento organizzato, dotato di una forte struttura territoriale, anch’esso composito tra le varie “anime” politiche ma la prevalenza militare, organizzativa, ideologica e infine anche numerica delle Brigate Garibaldi sulle altre formazioni fu sempre e costantemente evidente e decisivo ai fini dell’esito della guerra civile.

Se si possono individuare due elementi comuni – l’assenza, in entrambi, di una comune base ideologica, prevalendo l’elemento “anti” su quello propositivo; il fatto di essere, entrambi, fenomeni di élite, non avendo mai raggiunto, se non dopo il 25 aprile, le dimensioni di massa – un terzo elemento è, a nostro avviso, decisivo per stabilire una non sempre evidente continuità fra antifascismo e Resistenza.

Se coloro che animarono l’antifascismo, sia durante l’avvento del regime di Mussolini, sia negli anni del fuoriuscitismo, erano, lo si è già detto, anagraficamente e culturalmente di formazione prefascista, coloro i quali, invece, parteciparono alla Resistenza erano in buona misura giovani di leva, per sfuggire alla quale si erano rifugiati sulle montagne. Costoro avevano avuto un’educazione sostanzialmente fascista e i più preparati di loro erano passati attraverso i Gruppi universitari fascisti (Guf), attraverso le Scuole di preparazione politica del Pnf o addirittura attraverso i corsi della Scuola di Mistica fascista.

In altri termini, costoro si erano preparati alla politica attraverso le strutture fasciste negli anni successivi alla guerra di Etiopia e avevano percorso, ciascuno, il proprio “lungo viaggio” attraverso il fascismo, viaggio che partiva, generalmente, dalle rive della sinistra fascista per giungere al Pci: ciò che caratterizzava tale trasmigrazione considerata frettolosamente, da parte fascista, frutto di mero opportunismo e di calcolo, fu proprio la comune propensione per la svolta totalitaria che accomunava fascisti di sinistra e comunisti. Nonostante la guerra civile, fu la sinistra fascista – dopo e nonostante Salò – a fornire alla struttura organizzativa e culturale del Pci la maggior parte della classe dirigente (4).

In questa essenziale e non trascurabile trasmutazione genetica dell’antifascismo – da democratico a totalitario, con l’immissione dei giovani ex fascisti – sta una delle chiavi di lettura della evoluzione della storia dell’Italia postbellica, della centralità rivoluzionaria acquisita dalla Resistenza, interpretata sempre più in chiave palingenetica e morale, e, infine, della questione circa la continuità o la discontinuità dello Stato italiano tra fascismo e postfascismo.

Il ruolo della Resistenza

Vi sono alcuni dati che apparvero acquisiti nel cinquantennio repubblicano a proposito del rapporto fra l’antifascismo e la caduta del regime. Significativa, a tale proposito, la funzione determinante, secondo molti storici a cominciare da Paolo Spriano (5), degli scioperi del 1943 per segnare e determinare la fine del regime. I fatti sono noti. A Torino e a Milano, tra il marzo e l’aprile 1943, in molte fabbriche si determinarono interruzioni dal lavoro: un fatto certamente inusuale e clamoroso, perché, come è altrettanto noto, il regime proibiva sia lo sciopero che la serrata.

Pochi comunisti, organizzati in termini elementari ed embrionali, riuscirono a mettere in scacco quel che restava del sistema produttivo fascista e a costringere il regime a concedere quegli aumenti salariali che erano già stati promessi dal regime alla fine del 1942, in occasione del Ventennale della Marcia su Roma. Questo episodio, enfatizzato dalla storiografia di scuola marxista, avrebbe determinato la stessa caduta del regime, trasformando l’adesione allo sciopero in protesta attiva contro la guerra e il fascismo.

In questa ricostruzione tuttavia qualcosa non funziona: intanto gli scioperi non si svolsero soltanto a Torino e a Milano ma si estesero a molte microaziende, da Palermo a Viareggio, dall’Emilia al triangolo industriale (Novara, Vercelli, ecc.). Gli scioperi si verificarono, cioè, anche in zone diverse da quelle dove l’attivismo comunista era operante, mentre in una città dove i nuclei comunisti erano forti, Genova, grazie ad una politica di aumenti salariali operata dalla Ansaldo, l’astensione dal lavoro non si verificò (6).

In realtà, si trattò di scioperi di carattere essenzialmente economico che ebbero una importante valenza politica per almeno tre ragioni: perché mettevano in evidenza la crisi di struttura del regime, incapace di fare fronte allo stillicidio dei bombardamenti delle aziende e alla conseguente insicurezza dei lavoratori; perché furono i primi scioperi da vent’anni, dopo che il regime aveva dimostrato che era possibile realizzare una certa dinamica sociale anche senza il ricorso allo sciopero; perché i nuclei comunisti si inserirono in questa situazione e la sfruttarono alla meglio per dimostrare come un pugno di uomini determinati fosse riuscito a “preparare” la caduta del regime.

Evidentemente non riuscirono a trasformare quell’episodio nella spallata finale al regime agonizzante, perché il crollo del fascismo si verificò tre mesi più tardi e del tutto indipendentemente dalle pressioni popolari, meno che mai riconducibili agli scioperi. Tuttavia, per molti anni, la tesi “ufficiale” di buona parte della storiografia ha messo in stretta relazione le astensioni dal lavoro con la fine del regime, sottacendo – o riducendo di importanza – il ruolo dei militari, del Sovrano e degli ambienti di corte nella caduta di Mussolini.

Si ponevano così le basi, per la storiografia marxista, di un progetto di ricostruzione storica degli eventi finali del regime nel quale non già il Palazzo con i militari e con il Re avevano fatto cadere il Duce, bensì la spinta popolare, la sollevazione della opinione pubblica, la nascita di un antifascismo preresistenziale che in realtà, avendo determinato la caduta del regime, poteva avanzare pretese e legittimazioni nel vedersi affidare il potere dopo la fine della guerra.

La Resistenza, così, non era più un fatto isolato, ma si saldava con l’antifascismo fuoriuscito e con quello che contrastò il fascismo negli anni Venti, acquisendo piena giustificazione storica e morale. Nasceva, con l’episodio degli scioperi, il modello al quale si sarebbe stati abituati nel dopoguerra, di una Resistenza, cioè, liturgica e completamente saldata con la storia precedente, tendenzialmente operaistica.

La necessità di valorizzare oltre misura gli scioperi del 1943 dipendeva anche da un altro fattore: le modalità con cui cadde il fascismo. Nonostante il progressivo scollamento del fronte interno, nonostante l’andamento sempre più disastroso del conflitto, nonostante il distacco sempre più evidente tra il regime e la popolazione, sottoposta a privazioni, a incursioni aeree, a mancanza di lavoro, il regime fascista non cadde su iniziativa popolare ma in seguito a una strategia seguita dagli ambienti militari e dalla corona finalizzata a liquidare Mussolini e fare uscire l’Italia dal conflitto.

Trovato un appiglio costituzionale (il Gran Consiglio), il Re riuscì a fare leva sul sincero atteggiamento costruttivo di Grandi e di altri gerarchi fascisti, i quali volevano un fascismo moderato, conservatore, in grado di lasciarsi presto alle spalle dittatura, stato totalitario e partito unico, per avere soprattutto un fascismo senza Mussolini.

Dopo la seduta del 24-25 luglio 1943, nella quale l’ordine del giorno Grandi – che prevedeva il ripristino delle prerogative statutarie e il ritorno al Re del comando delle forze armate – il Re liquidò Mussolini, facendolo arrestare a Villa Savoia, lo sostituì con Badoglio e gettò, nei 45 giorni, le basi per la capitolazione dell’8 settembre.

In tutto ciò, il popolo, l’insurrezione popolare, lo sdegno di un popolo da vent’anni in catene non ci furono. Ci furono il giorno dopo, quando la folla si riversò nelle strade per manifestare soddisfazione per la fine della dittatura, ma soprattutto certezza che la guerra fosse agli sgoccioli.

La volontà di pace si sommava alla sfiducia nel fascismo: che tuttavia quello del 25 luglio dovesse essere un passaggio costituzionale e non una camuffata insurrezione, era chiaro a Grandi che infatti si preoccupò non poco e capì che tutto era compromesso non appena gli giunsero le notizie delle prime manifestazioni di piazza e dei primi atti di giustizia sommaria nel confronti del fascisti (7).

La stessa scelta a favore della Resistenza da parte di molti giovani è stata ampiamente mitizzata, sia in termini quantitativi che in termini qualitativi. Ai trecentomila, “un popolo alla macchia” come titolava enfaticamente Luigi Longo, dell’aprile 1945, quando non era difficilissimo essere partigiano e ai cinquecentomila “brevettati” partigiani nei mesi successivi la Liberazione, quando era opportuno essere stato partigiano, corrispondevano “soltanto” 30 mila uomini in montagna nel marzo 1944 a far la scelta della clandestinità, quando, negli stessi mesi, erano arruolati nelle forze armate della Rsi 350 mila uomini.

E’ impressionante considerare come in un mese, dal marzo all’aprile, i partigiani aumentino a 44 mila, mentre un mese dopo ancora, i primi di maggio, sono già diventati 82 mila (8). Tale vertiginoso aumento della forza partigiana fu determinato non tanto da un repentino e cospicuo mutar d’orientamento da parte della pubblica opinione, quanto più semplicemente dai bandi della Rsi e cioè da quella leva obbligatoria che Mussolini e Graziani imposero come elemento essenziale per potere configurare la Rsi come uno Stato nazionale a tutti gli effetti, contraddicendo le ipotesi di chi (Pavolini fra tutti, ma anche Borghese) avrebbero preferito puntare su un esercito di volontari, politico o no.

E’ indubbio quindi che l’ingrossamento delle formazioni partigiane dipese, in buona misura, dalla coscrizione obbligatoria imposta da Salò. La tesi della “zona grigia”, formulata da De Felice, attiene anche a questo specifico aspetto: fascisti e partigiani furono due minoranze contrapposte, rispetto ad una popolazione che non voleva più saperne di combattere. Il Bando Graziani si abbattè sulla zona grigia, inducendo molti che non si erano ancora esposti o che non avevano fatto ancora una scelta chiara, a scegliere; e spesso furono proprio i bandi fascisti a determinare indicazioni di ordine etico-politico nella popolazione, soprattutto nei giovani.

In termini qualitativi, va ricordato che la scelta di andare a Salò o in montagna, come lentamente inizia ad essere osservato da molti, dipese dai motivi più vari, non sempre riconducibili a ragioni di carattere politico. Oltre alla storiografia (9), anche nella letteratura di parte resistenziale si trovano accenni alla casualità di molte scelte, partigiane o fasciste.

A tale proposito spesso viene citata solo una battuta di Calvino messa in bocca al partigiano Kim (“basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte”); tuttavia, ben più significativo è il più lungo brano riportato all’inizio del medesimo volume: “Per molti miei coetanei era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblicani diventavano partigiani e viceversa; da una parte e dall’altra si sparavano e si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile” (10).

E, d’altra parte, non poteva essere diversamente se si pensa alla comune matrice politica della generazione della guerra civile – come già si è cercato di dimostrare – e se si pensa alla assoluta assenza di rapporti fra i primi fuorusciti che rientrano nel 1943 per provvedere alla costituzione di focolai di insurrezione e la base popolare, che della presenza di antifascisti operanti intorno e subito dopo il 25 luglio mai si era accorta, salvo i diretti interessati e le loro famiglie, ma non sempre.

L’assenza, poi, nell’Italia settentrionale di strutture in qualche modo collegate col Regno del Sud rendeva particolarmente complessa la scelta tra andare in montagna con i partigiani o aderire ai bandi della Rsi.

Per chi non avesse una personalità politica formata e strutturata o per chi non avesse avuto in casa un evento, un lutto politico che facesse pendere decisamente la scelta verso l’una o l’altra parte, si trattava comunque sempre di una scelta eversiva.

Eversiva la scelta partigiana, per evidenti motivi anche logistici (l’andare in montagna) e per altrettanto evidenti motivi politici: la scelta rivoluzionaria, spesso comunista, la volontà di riedificare un’Italia nuova che rompesse i rapporti non solo col fascismo ma con i conservatori e i moderati di ogni tipo; ma eversiva anche la scelta a favore della Rsi, soprattutto se si pensa che difficilmente la popolazione era in grado di cogliere quelle linee di continuità tra l’Italia fino al 1943 e la Rsi, che oggi molti storici (ma non tutti) tendono a riconoscere.

Eversiva, poi, la scelta per il fascismo repubblicano, nella misura in cui, anche visibilmente, rappresentava una rottura istituzionale con la continuità della storia d’Italia e della sua tradizione monarchica: si pensi, solo per fare qualche esempio significativo, alla sostituzione delle stellette con i gladi e alla dura polemica contro Vittorio Emanuele III e la casa “Savoja” (indicata così per sottolinearne in qualche modo l’origine “straniera”) o, nella versione più offensiva, “Saboia”.

In sostanza, si può dire che l’unica scelta non eversiva, all’interno del movimento di resistenza al fascismo e al nazismo, fu effettivamente costituita dalle centinaia di migliaia di soldati che, sorpresi l’8 settembre dall’armistizio, scelsero di confermare, nonostante tutto, la scelta a favore della istituzione monarchica, in quanto continuità nella tradizione dello Stato: coloro che divennero IMI (Internati militari italiani) operarono, nel biennio della guerra civile, una resistenza della quale poco si è sinora parlato che fu svolta in condizioni di assoluta difficoltà, nei campi di internamento tedesco, e che non è mai stata considerata politicamente corretta perché non sostenuta dall’ideologia che invece caratterizzò la maggior parte degli aderenti al movimento partigiano (11).

Inoltre, forte era la diffidenza della Resistenza (più quella azionista di Giustizia e Libertà, che quella comunista) nei confronti delle strutture del passato, a cominciare dall’esercito: gerarchica e conservatrice, pesantemente collusa col fascismo, istituzionalmente legalitaria, necessariamente apolitica, la struttura militare impediva quella libera espressione delle volontà politiche che GL poneva al centro dell’ “essere partigiano” (12).

Quindi, casualità della scelta, in molti casi. La scelta dell’amico, la situazione territoriale nella quale chi doveva scegliere si veniva a trovare, l’avere assistito a eventi di sangue particolarmente efferati, fecero in molti casi pendere la bilancia verso una o l’altra soluzione.

E ciò smentisce l’idea – che tradizionalmente è stata proposta – di un popolo compatto che non ha dubbi sulle scelte e che condanna, prima moralmente che politicamente, il fascismo per dare alla Resistenza in atto il senso di una rivolta rigeneratrice di tutta una popolazione, tesa a costruire un’Italia nuova, ovviamente comunista.

Sicuramente, poi, la scelta della montagna fu determinata anche dalla forte struttura delle brigate Garibaldi, braccio armato del Pci, le quali meglio e più delle altre formazioni seppero attirare consensi e militanza, mostrando una efficienza, una disciplina e una ferrea metodologia di azione che apparivano le condizioni ottimali – anche per chi, almeno all’inizio, comunista non era – per giungere agli obiettivi che il movimento partigiano si era prefissato.

Perché quindi la storiografia marxista (ma non soltanto questa), per decenni ha accreditato un’immagine diversa, monolitica, eroica, morale della Resistenza? Non soltanto per una necessità di partito: certamente, ebbe un ruolo anche l’orgoglio del Pci di essere non soltanto l’unico partito che seriamente era stato organizzato durante il regime, di essere il primo ad avere impostato un minimo tentativo (anche se fallito) di creare le condizioni per una insurrezione popolare, di essere, infine, il più efficiente soggetto una volta costituite le organizzazioni partigiane; e, ancora, di essere il più lucido progettualmente tra quelle forze politiche che avevano deciso di combattere il fascismo e il nazismo: perché, anche questo va detto, più o meno inconsapevolmente, le forze laiche (“Giustizia e Libertà”, in primo luogo, ma anche i cattolici e soprattutto i “badogliani”) si resero rapidamente conto che l’obiettivo, naturale e ovvio, di vincere la guerra civile poteva diventare in realtà la vittoria del solo Pci.

In altri termini, abbastanza presto si pose il problema della unità delle forze della Resistenza che, reale – anche se con molte eccezioni – nella fase operativa della guerra civile, diventava problematica una volta che si dovesse stabilire chi avrebbe beneficiato politicamente della vittoria.

Tornando alla domanda posta poc’anzi, la risposta va individuata anche e soprattutto dal punto di vista politico: l’immagine coesa, unitaria, monolitica della Resistenza era indispensabile affinché il fenomeno partigiano non si esaurisse nel volgere, breve o lungo che fosse, corso della guerra civile stessa.

Se la Resistenza doveva diventare l’anima del nuovo Stato, se l’antifascismo come valore politico e morale doveva diventare il cemento col quale si poteva costruire la Nuova Italia, se il movimento partigiano non era soltanto sporadico ed occasionale soggetto combattente ma in realtà la nuova aristocrazia sulla quale si doveva basare la nuova classe dirigente nata, appunto, dalla Resistenza, allora la Resistenza doveva a poco a poco perdere i propri connotati storici ed assumere quelli liturgici di un fenomeno che doveva diventare il mito fondante del nuovo Stato (13).

Tre esempi

Vi sono tre episodi, drammatici e spaventosi, che in qualche modo sono diventati – giustamente – simbolici e paradigmatici per la portata umana dell’evento, per la tragicità dello svolgimento e, infine, per le conseguenze politiche che, in misura diversa, ebbero.

L’economia del testo che qui si presenta, impedisce che si proceda a un’analisi dettagliata dei tre avvenimenti: ci si limita a presentarli e a discuterne le conclusioni alle quali la recente storiografia è pervenuta.

Si tratta delle quattro giornate di Napoli (28 settembre – 1° ottobre 1943), dell’attentato di Via Rasella a Roma, che, com’è noto, ebbe come conseguenza le Fosse Ardeatine (23 marzo 1944) e la strage di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto 1944). Se ne potrebbero prendere altri in considerazione, ma questi tre episodi rappresentano bene la costruzione del mito resistenziale, oltre e talvolta “contro” il metodo storico d’indagine.

I tre eventi citati sono stati variamente interpretati dalla storiografia, e su questo torneremo, ma hanno un dato in comune: si tratta di eventi sui quali, sessant’anni dopo, non si è fatta ancora piena luce: contraddizioni, silenzi, difficoltà di reperire fonti. E quando, più sul versante giornalistico che da quello storico accademico, si è tentato, con diversi risultati, di fare ulteriore luce sugli avvenimenti, su tali tentativi è calata una spessa coltre di silenzio, quasi che di alcuni episodi non si possa ancora parlare appieno.

Ovviamente, di questi tre drammatici episodi, resta la versione più o meno ufficiale, che comunque rientra nella logica della liturgizzazione della Resistenza, perché espunge tutti i nodi e tutte le difficoltà interpretative che ogni episodio porta inevitabilmente con sé.

Ovviamente, questa, come già si è detto, non è la sede per una discussione approfondita delle tre questioni: e neppure chi scrive dichiara di consentire con tutto ciò che gli studi recenti su questi tre avvenimenti hanno fatto emergere, sia in termini di racconto storico, sia in termini interpretativi.

Semplicemente, si vuole mettere in evidenza che talune tematiche appaiono coperte da una sorta di riserbo, per comprendere il quale basta fare riferimento, a mio avviso, alle modalità con le quali la Resistenza è stata costruita come mito fondante la nuova società (14). Ovviamente, è inutile andare a cercare le problematiche controverse su questi temi in pubblicazioni a scopo didattico, dove forse sarebbe necessario dare indicazioni non definitive, bensì aperte e criticamente aggiornate.

Sulle giornate napoletane dal 28 settembre al 1° ottobre – giustamente celebrate come ricorrenze nazionali – il libro di Enzo Erra, Napoli 1943. Le quattro giornate che non ci furono, Longanesi, Milano 1993, rappresenta uno studio assai documentato che viene spesso citato, proprio a proposito delle sue parti documentarie, ma ne viene omessa curiosamente la tesi di fondo; la quale si può così sintetizzare: gli scontri a Napoli contro i tedeschi iniziarono il pomeriggio del 28 settembre e si conclusero la sera del 29, perché i tedeschi iniziarono la ritirata già dal 27 e il 28 erano rimasti a Napoli non più di 200 – 300 soldati tedeschi.

Il deflusso continuò tra gli scontri, ma la mattina del 30 i tedeschi avevano già lasciato la città. Per cui, il 30 e il 1° ottobre – le ultime due giornate dell’insurrezione – i napoletani non avevano più da combattere contro i tedeschi, bensì contro i nuclei di fascisti contro i quali si accese una immediata caccia all’uomo.

E’ significativo, aggiunge l’Autore, che nessun alto ufficiale tedesco, americano o inglese abbia mai parlato, nei propri memoriali, dell’avvenimento, quasi che potesse passare inosservato. Ma l’Autore aggiunge che anche i protagonisti non hanno mai avuto molta voglia di parlare dell’accaduto: il numero dei partecipanti è controverso, nelle fugaci testimonianze vi sono allarmanti errori di data, non esiste un diario degli avvenimenti (15).

Secondo Erra, è sintomatico che si siano celebrate le giornate di Napoli della fine settembre, che avrebbero portato alla fuga dei tedeschi già in ritirata, mentre invece si è rimosso, passandolo sotto silenzio, il comportamento dell’esercito italiano che, regolarmente agli ordini dei propri comandanti, tra il 9 e l’11 settembre, tentò di sbarrare la via ai tedeschi che stavano entrando in città dopo la divulgazione della notizia dell’armistizio.

In quel caso, non fu la tanto sospirata “insurrezione popolare” da mettere come suggello ad una Resistenza ipotizzata come momento insurrezionale di popolo, ma fu quell’esercito italiano, regolare e fedele al Re, che pur in assenza di ordini specifici, aveva deciso di impedire l’occupazione della città, reagendo, come il messaggio di Badoglio aveva chiarito, “ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.

Anche se in quella circostanza la partecipazione dei civili all’azione fu pressoché nulla e anche se, con ordini adeguati alla circostanza da parte degli alti comandi, si sarebbe potuto fare di più per impedire ai tedeschi la rapida conquista della città, pure tre giorni di lotta ci furono. I tedeschi non si impadronirono di Napoli senza colpo ferire, come avvenne in molte altre città italiane: per tre giorni i loro sforzi furono contenuti e bloccati. Il presidio di Napoli tenne la posizione e la teneva ancora quando, in tutto il resto d’Italia, la situazione era già abbondantemente compromessa (16).

Del resto, lo stesso Roberto Battaglia, che sulla Resistenza ha scritto un volume ormai classico ma anche abbondantemente superato nelle interpretazioni, afferma che è praticamente impossibile ricostruire le giornate di Napoli nel dettaglio, a causa della estrema frammentarietà delle operazioni, sottolineando per altro l’esiguità del presidio superstite tedesco fin dal primo giorno dell’insurrezione (17).

Consegnato alla leggenda, ma non ancora alla storia, l’episodio napoletano fu immediatamente considerato come il primo esempio di quello che poi accadde in altre parti d’Italia, sintomo e segno di un popolo che, dopo vent’anni di dittatura, solleva la testa e insorge contro l’odiato nemico. Funzionale, quindi, alla ricostruzione politica che se ne fece, secondo la quale il fascismo non era stato battuto essenzialmente dalle armi straniere ma dal popolo italiano (18).

Il secondo episodio, sul quale non tanto la storia, quanto il cinema e i tribunali, si sono soffermati a lungo, è quello di Via Rasella a Roma. I fatti, in parte, sono noti: il 23 marzo 1944, XXV anniversario della fondazione a Milano dei fasci di combattimento, una delle feste “storiche” del fascismo, una carica di esplosivo viene collocata in un carretto per l’immondizia, lasciata in via Rasella, nel centro di Roma, e fatta esplodere nell’imminenza del passaggio, per quella via, di una colonna del Battaglione Bozen, formato da soldati italiani altoatesini, richiamati alle armi, al comando di ufficiali tedeschi.

Muoiono 42 persone, di cui una trentina soldati e gli altri civili romani che casualmente si trovavano nei pressi della deflagrazione. 105 sono i feriti, alcuni dei quali moriranno, tempo dopo, per le ferite riportate. L’azione partigiana risultò essere un “ripiego” rispetto al progetto originario, che era quello di “ricordare” la ricorrenza fascista mettendo una bomba davanti all’uscita del cinema Adriano, in Piazza Cavour, dove si celebrava un comizio in ricordo dell’evento.

Tale ipotesi fu quindi scartata a causa dell’imponente servizio d’ordine e pertanto si decise per un’azione dimostrativa che avrebbe provocato un’immediata reazione tedesca.

Lo scopo politico di tale azione era evidente: creare un clima di guerra civile e provocare la prevedibile rappresaglia. In effetti, nonostante che fin dal 18 ottobre 1943, con l’uccisione del primo fascista nella capitale, la resistenza avesse tentato di creare un clima di tensione, la città era rimasta sostanzialmente estranea alla violenza che invece caratterizzava altre città del nord: anzi, proprio queste sporadiche azioni di guerra civile contro il singolo fascista finivano col danneggiare lo stesso movimento partigiano perché suscitavano nei romani soprattutto un senso di fastidio.

Il Cln romano, ad esempio, diviso e incerto, non riusciva a prendere l’iniziativa politica nella città (19). In questo quadro, va poi tenuto presente il ruolo assolutamente minoritario del Pci. Il vario panorama della Resistenza romana presentava la componente monarchico-badogliana come la più forte politicamente, poi veniva quella azionista e infine quella legata al gruppo di Bandiera Rossa, un gruppo fortemente contrario all’egemonia del Pci a sinistra e molto ben strutturato sul territorio.

L’azione ideata da Amendola ed eseguita dalla Capponi e da Bencivenga aveva quindi lo scopo di alzare il livello della tensione a Roma e, contemporaneamente, qualificare il Pci come una delle forze determinanti della Resistenza romana; indubbiamente lo scopo fu ampiamente raggiunto. Tuttavia, su questa azione, che fu il preludio alla orrenda strage delle Fosse Ardeatine, molte cose sono, dopo quasi sessant’anni, ancora stranamente oscure.

Intanto quante e chi furono le vittime civili dell’azione partigiana; il numero esatto e i nomi dei partecipanti dei Gap all’azione; il vero ruolo di Giorgio Amendola; come morì l’uomo di Pietro Secchia, Tito Rezza, il cui nome è stato cancellato dall’albo d’oro della Resistenza. Inoltre, secondo alcune ipotesi, non si sono mai chiarite le collusioni tra la sinistra – soprattutto i socialisti – e gli ambienti della questura romana durante la Rsi (in particolare con il vicequestore Carretta, oggetto del linciaggio a liberazione di Roma avvenuta, e con la famigerata banda Koch, specializzata nella cattura degli azionisti) (20).

Oltre a ciò risulterebbe interessante sapere qual è stato il ruolo del gruppo di Bandiera Rossa in tutta la vicenda; non è molto chiaro se vi fu connivenza o fu invece una sorta di trappola. Sta di fatto che il gruppo estremista romano pagò il prezzo più alto alle Fosse Ardeatine, in quanto ben 68 dei 335 massacrati nelle cave appartenevano a Bandiera Rossa, mentre 52 appartenevano al Partito d’Azione e 30 al Centro militare clandestino di orientamento monarchico (21).

E’ indubbio che la rappresaglia tedesca mutò radicalmente il volto della Resistenza romana. Il Pci non soltanto si liberò di una pericolosa forza alla propria sinistra, che avrebbe potuto condizionarlo, ma si liberò contemporaneamente sia della forte componente azionista che ambiva a diventare il perno dell’antifascismo romano – con un forte legame col Risorgimento e sicuramente in posizione nettamente antimarxista – sia di quella badogliana, che aveva in Cordero di Montezemolo (anch’egli caduto alle Fosse Ardeatine) il personaggio più rilevante in assoluto, in grado di mantenere i rapporti con il Regno del Sud e soprattutto in grado di provvedere al coordinamento delle forze della resistenza a Roma non già sotto il controllo del Pci, bensì sotto quello del governo italiano.

E’ significativo che, dopo quasi sessant’anni dagli avvenimenti, un evento così rilevante come la strage di via Rasella abbia ancora una serie così evidente di problemi, di dubbi e di contraddizioni. Ed è ancora più significativo che tali questioni non vengano che raramente affrontate in termini storici ma semplicemente sollevate da giornalisti che realizzano inchieste, più o meno esatte dal punto di vista della ricostruzione storica, e successivamente cadano nel silenzio.

Il terzo ed ultimo caso è quello dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema. Anche in questo episodio emerge la ottusa e sanguinaria follia di chi volle e realizzò la rappresaglia verso una popolazione inerme; ma, anche in questo caso, soltanto una ricostruzione puntuale realizzata a 54 anni dagli avvenimenti, spiega in maniera dettagliata le modalità dell’evento, indicando altresì i veri colpevoli (22). Ma, oltre a ciò, il lavoro di Paoletti dà una serie di informazioni inedite, che spostano i termini del giudizio che precedentemente si era costruito sulla strage e rendono, anche in questo caso, più complessa e articolata la verità.

In primo luogo l’Autore smentisce il primo caposaldo dalla interpretazione ufficiale della strage: la volontà tedesca di effettuare realmente terra bruciata attorno alla zona di Sant’Anna. Secondo Paoletti, i tedeschi non erano preparati per una strage di dimensioni enormi quale quella effettivamente realizzata, ma piuttosto di effettuare un ridispiegamento di forze nelle retrovie; e la conferma a ciò sarebbe data dal tipo di unità impiegate nell’azione e soprattutto nel tipo di armamento e di equipaggiamento, assolutamente inadatto per un’azione così complessa (23).

In secondo luogo, Paoletti mette in rilievo il ruolo del movimento partigiano locale, il quale avrebbe coperto i manifesti con i quali i tedeschi invitavano la popolazione ad evacuare la zona con altri manifesti che incitavano la popolazione a restare nelle proprie case certi della difesa che ad essi avrebbero dato i partigiani stessi (24).

Il massacro sarebbe avvenuto a causa di un accidentale colpo di fucile sparato da un civile e non per un piano programmato da Reder. La documentazione che Paoletti porta a conforto della propria tesi (che, tra l’altro, fu la prima ipotesi presa in considerazione “a caldo”, poi abbandonata per ragioni di carattere essenzialmente politico) è vasta e puntuale (25).

E la conclusione è netta: “Allo scenario accreditato da tutti gli storici, per il quale l’eccidio è il risultato di un piano terroristico programmato dai vertici militari germanici ed eseguito dal maggiore Walter Reder, ne dobbiamo sostituire un altro, dove è il fato a segnare la sorte degli abitanti del villaggio di Sant’Anna e delle sue borgate” (26).

Anche il – purtroppo marginale – conteggio dei morti a Sant’Anna pone dei problemi: la cifra di 560, ufficialmente proposta e universalmente acquisita, è in realtà difficilmente accettabile. Paoletti propone, invece, un nuovo conteggio delle vittime, sulla base di un raffronto fra i cadaveri e i nomi: 362 a Sant’Anna, 8 a Capezzano, 6 a La Mulina e 13 a Valdicastello (27). Infine l’Autore propone anche i nomi dei veri responsabili dell’eccidio, due ufficiali che, a causa della piega presa dalle inchieste, sono riusciti a sfuggire alla giustizia e sono morti tranquillamente nel proprio letto (28).

La tesi prevalente ed ufficiale è stata quindi quella di scaricare su Reder l’intera responsabilità della vicenda; è chiaro che Paoletti non intende sminuire la responsabilità tedesca nella strage: la strage ci fu e fu spaventosa. Tuttavia, ciò che interessa ai fini del nostro discorso è che “da quel lontano 1945 sulla rappresaglia decisa a caldo è calato uno strano, inquietante silenzio.

Secondo la verità costruita dagli organi di informazione e ripresa dalle autorità comunali e dall’opinione pubblica toscana e italiana c’era un solo colpevole, così sfuggente da essere scampato anche dalla giustizia militare. Riproporre la tesi del ferimento del soldato tedesco come scintilla per l’esplosione della rappresaglia è un fastidioso incomodo per la teoria di moda, quella di un Reder esecutore di ordini studiati a tavolino” (29).

Con questi tre esempi di storia controversa non si vuole gettare fango sulla Resistenza, ma semplicemente ricordare quanti sono i casi nei quali la ricerca storica è carente. E’ evidente che uno Stato appena nato voglia legittimarsi agli occhi degli intellettuali e dei partiti e quindi si ponga in termini molto ideologizzati: e non voglia approfondire talune tematiche che, se risolte e scoperte, potrebbero gettare nuova luce e trasformare le ipotesi in elementi veritieri. Tuttavia, l’impressione è che dopo diversi decenni, tali preoccupazioni dovrebbero lasciare il posto ad una più serena e scientifica metodologia di approccio a momenti tra i più spaventosi che l’Italia abbia vissuto.

Quale Resistenza?

La lettura azionista della Resistenza ha comprensibili responsabilità sulla sua “liturgizzazione”. E ciò perché, mentre il Pci inizia già dalla fine del 1945 ad “aprire” ai fascisti, compresi quelli che erano andati a Salò, e, in particolare, ai sindacalisti fascisti, allo scopo evidente di costituire una forte classe dirigente con quegli elementi che l’avevano rappresentata nel ventennio precedente, “Giustizia e Libertà” ha l’incarico di difendere il messaggio più profondo della Resistenza.

Per fare questo è disposta a rischiare anche la emarginazione politica, tanto è forte il messaggio, morale prima che politico, che essa vuole dare per la nuova Italia. Ciò era già evidente nell’autunno del 1944, quando Giorgio Agosti scriveva a Livio Bianco una lunga lettera, nella quale, tra l’altro, evidenziava le priorità strategiche del momento: “Lo scopo della impostazione politica della nostra guerra partigiana è la liquidazione, prima che del nazismo e dello stesso fascismo, di tutto quello sporco ammasso di interessi reazionari che sappiamo. I quali interessi cercano oggi disperatamente appigli in campo conservatore angloamericano e certo ne troveranno. A noi restano due cose: 1) creare il maggior numero possibile di fatti compiuti (liquidazione spietata di fascisti e di collaborazionisti, e liquidazione radicale di istituzioni e di posizioni); 2) non disarmare nell’immancabile fraterno abbraccio democratico della vittoria, ma tenere pronti gli animi e gli uomini e le armi. Questa è la grande carta che non avevamo il 26 luglio: sono questi dodici mesi di guerra partigiana, sono i nostri caduti, sono i contadini, gli operai, gli studenti che si sono affratellati e maturati nella lotta armata e in città e sui monti, sono le armi che abbiamo così stentatamente raccolte e così affettuosamente difeso e così strenuamente impiegate. Queste armi non dobbiamo lasciarcele togliere domani in nome di nessun immortale principio, né di destra né di sinistra: e non dobbiamo lasciare arrugginire quell’arma anche più forte che è la coscienza della forza popolare nata nella lotta partigiana” (30).

Una difesa, dunque, che partiva dalla netta distinzione tra bene e male che era propria dell’insegnamento gobettiano e che animò tutta l’esperienza del Partito d’Azione. Fascismo e nazismo come male assoluto, come fine dell’umanità; quindi necessità che dalla lotta che gli azionisti avevano portato contro le due facce del male assoluto (comincia qui a diffondersi la categoria del “nazifascismo”) potesse emergere un’Italia nuova, completamente slegata da quei compromessi di potere che avevano dato implicitamente o esplicitamente vita al regime: la scelta tra conservazione e rivoluzione era morale prima che politica ed era anche inevitabile (31).

Non a caso, proprio dalla parte politica che rivendicava la maggiore limpidezza nella lotta antifascista, emergevano i punti cardine dell’azione futura, che ci paiono fondamentali per comprendere l’evoluzione mitica e liturgica del fenomeno resistenziale.

In primo luogo, emerge l’importanza della storia, quindi della conservazione della documentazione della Resistenza, affinché le forze reazionarie non potessero modificare ciò che era avvenuto: la storia, quindi, come momento fondamentale e pedagogico per la costruzione politica, affinché la Resistenza fosse inserita stabilmente nella storia d’Italia.

Una storia che deve diventare tutt’uno con l’etica e con l’impegno morale assunto dal movimento partigiano nella trasformazione della società italiana; una storia, infine, che deve porsi in piena sintonia con la “coscienza civile” e che prepari quelle trasformazioni radicali necessarie alla nuova società italiana per chiudere i conti con il passato, dal Risorgimento dei compromessi al fascismo: una sorta di anno zero della politica e della storia italiane.

In secondo luogo, occorreva che la storia del movimento partigiano chiarisse bene che esso non era nato dalla casualità ma un forte impegno civile: “L’8 settembre avvenne proprio così: i soldati, cioè i partigiani uscivano da ogni parte, perché qualcuno aveva battuto col piede la terra: ma non era stato un sovrano, re o principe che fosse, bensì una forza più alta e maestosa, quella che si chiama la coscienza civile (…) quella essenziale virtù insomma che, magari sotterranea e invisibile per lungo volgere di anni, erompe nei momenti decisivi e spinge un popolo a non mancare nell’ora del dovere storico” (32).

In terzo luogo era indispensabile che nella ricostruzione storica della Resistenza emergesse chiara la frattura e non la continuità tra l’Italia fascista e l’Italia democratica. Una frattura, sancita dalla guerra civile, non solo nelle istituzioni e negli uomini, ma soprattutto “nelle teste”, nella mentalità, nell’animo, nel modo di intendere la politica e la società; la nuova unità antifascista di ceti diversi, realizzatasi nei mesi della Resistenza, stava a significare che la lotta contro la reazione e contro tedeschi e fascisti aveva creato qualcosa di diverso rispetto al passato: era, in sostanza, una variante della tesi di Gentile secondo la quale il fascismo prosegue, ampliandolo ed inverandolo, il Risorgimento, permettendo la partecipazione al processo unitario di tutte le classi della società e così facendo realizza una “rivoluzione”.

Tale tesi viene applicata, con segno diverso, al postfascismo. Il problema, gobettiano e vociano, della rigenerazione morale della nazione, passa ora attraverso il mito dell’unità antifascista, l’unico in grado di unificare interessi e realtà sociali diverse; in questo modo, tuttavia, non solo unifica il paese in nome di valori diversi dal passato, ma soprattutto tende ad una riforma radicale della società. In questo senso l’azionismo mostrava volontà etica, desiderio di organicità nella società e soprattutto finalità pedagogiche di derivazione illuministico-giacobina.

Tuttavia, sarà proprio la categoria del totalitarismo, intesa come chiave interpretativa del dilemma tra democrazia e regimi totalitari, ad essere espunta dal panorama azionista (e di conseguenza dal panorama complessivo delle forze che alla Resistenza si richiamano) proprio perché, accettandola, si sarebbero messi da una stessa parte nazismo, fascismo e comunismo, mentre dall’altra parte sarebbero rimaste le forze antitotalitarie liberali, cattoliche e socialiste.

Poiché nei confronti del fascismo e del nazismo il giudizio morale e politico è, per gli azionisti, assai più severo che non quello nei confronti del comunismo, come conseguenza, si avrà necessariamente la creazione della categoria del “nazifascismo” come simbolo e mito del male nella storia. Come ricordava Norberto Bobbio alcuni anni or sono, nell’ambito di una polemica con De Felice che coinvolse anche alcuni aspetti della Resistenza, pur essendo gli azionisti ideologicamente lontani dal comunismo, non sarebbero mai diventati “anticomunisti” per non confondere la loro posizione nettamente democratica con quella di chi, con il pretesto dell’anticomunismo, avrebbe sostenuto tesi reazionarie o neofasciste (33).

Infine, come quarto punto sul quale si andava formando la memoria e la gestione della Resistenza (e anche la sua eredità), emergeva il rifiuto del pregiudizio anticomunista. In un clima pervaso dallo scontro comunismo – anticomunismo, l’azionismo sceglieva, pur non accettando la logica e la metodologia del Pci, di non avere nemici a sinistra e di fare della Resistenza il punto di incontro di diverse culture senza discriminare l’apporto della componente comunista. Questa linea, che non sarà propria di tutto l’azionismo, condizionerà tuttavia l’immagine della Resistenza, nella quale il peso organizzativo e numerico del partito comunista finiva col diventare determinante (34).

In questo complesso e articolato quadro di riferimento, la Resistenza “doveva” necessariamente perdere progressivamente le proprie caratteristiche storiche per assumere, in maniera sempre più rilevante, aspetti mitici e liturgici. Doveva apparire un “blocco” e quindi doveva nascondere la portata e l’ampiezza delle divisioni interne; doveva apparire sempre “morale” e positiva e quindi diventava necessario sorvolare sugli “incidenti di percorso”, e cioè su quella violenza gratuita e feroce che, come in tutti i movimenti rivoluzionari, non è stata assente neppure dalle file del movimento partigiano; doveva apparire infine un progetto politico compiuto, in grado di redimere l’Italia dopo secoli di reazione e di “trasformismo” immorale e conservatore.

Se poi questo progetto politico fallì con la fine del governo Parri, e ancora di più fallì con la fine del Partito d’Azione come forza autonoma, allora occorreva rifarsi alla “Resistenza tradita”, al mito negativo in grado però di diventare la coscienza critica per l’Italia successiva, pronto ad essere agitato ogni volta che appariva imminente un “rigurgito neofascista”, reale o immaginario che fosse.

Se questo è l’uso della Resistenza del quale ha avuto bisogno la politica italiana (e ne ha avuto bisogno), è chiaro che non è certamente alla Resistenza come fatto storico che si guarda, bensì alla Resistenza come apologia e come mito. Come ha affermato, ormai parecchi anni fa, Sergio Cotta in un volume che allora fece scalpore per le tesi tutt’altro che politicamente corrette, applicare alla Resistenza il modello del Cln, il quale cessa di essere un fatto storico per diventare un mito, significa far diventare anche la Resistenza un “mito”: “In questa linea – aggiungeva Cotta – è inevitabile che si assolutizzi un’immagine ideale, o piuttosto ideologica, della Resistenza, foggiata sulla base delle proprie istanze politiche ‘attuali’. Che se ne respingano o disconoscano aspetti non concordanti con tali istanze. Che, infine, la si presenti come ‘mancata’ o, meglio ancora, come ‘tradita’. Ciò significa cadere nell’errore (dal punto di vista storico), da cui metteva in guardia Garosci, di ‘vedere prefigurata nella Resistenza la futura società italiana’ e, aggiungo io, già risolti in essa i problemi della società in sviluppo. Fermo restando il suo valore di ‘archetipo’, la Resistenza si sottrae allora al ‘mito dell’origine’, finalizzato a legittimare l’ordine esistente per sua diretta filiazione da essa, ma per cadere nell’ambito del ‘mito dell’innovamento’, finalizzato a legittimare la rivoluzione, o, almeno, il mutamento radicale dell’ordine vigente, considerato frutto del ‘tradimento’. Ben diversi sono dunque il significato e l’indirizzo politici di questi due tipi di miti, ma ai fini storiografici il risultato è il medesimo. Entrambi ci offrono un’immagine della Resistenza come modello socio-politico e ideologico perfetto che non consente verace opera storiografica” (35).

E questo è dunque il punto: la possibilità di poter fare, di potere costruire la storia della Resistenza senza obiettivi estranei alla ricerca storiografica che possano inficiare l’attendibilità delle interpretazioni. Fare la storia della Resistenza significa affrontare intanto il problema della “unicità” della lotta armata.

Cotta, non a caso, ha molto insistito sulle Resistenze: da quella che si svolse nel Nord Italia, a quella che si svolse nel Regno del Sud, all’interno delle strutture statuali e militari istituzionali, a quella che si svolse nei Balcani da parte di reparti dell’esercito che, dopo l’8 settembre, prendono le armi contro i Tedeschi, a quella, infine, che si svolse nei campi di concentramento degli Internati Militari Italiani, che rifiutarono le lusinghe di aderire alla Rsi per potere tornare a casa e decisero di restare nei campi di prigionia per mantenere fede ad un giuramento (36).

Pertanto la Resistenza è molteplice territorialmente parlando, così come è molteplice dal punto di vista ideologico: tale molteplicità diventa difficilmente spendibile allorquando si tende a porre la Resistenza come mito fondante il nuovo Stato, appunto perché si tratta di una sorta di “coalizione” strutturata, in alcuni territori, al solo fine della vittoria contro i fascisti e i tedeschi.

Come ha rilevato Rusconi, proprio il dopoguerra ha posto in crisi il mito della unicità della Resistenza, allorché i vincoli di appartenenza partitici hanno inevitabilmente avuto il sopravvento rispetto al momento combattente, dove, anche se non in termini assoluti, l’elemento unificante era dato dalla lotta in corso. “Per uscire da questo impasse – sempre secondo Rusconi – inizia più o meno inconsciamente in molti (azionisti, soprattutto) un processo di depoliticizzazione o trasfigurazione etico-culturale del movimento resistenziale.

La Resistenza diventa un evento carico di vissuto morale contrapposto alla politica”(37).

Infine, fare la storia della Resistenza significa anche non avere pudori nell’affrontare pagine imbarazzanti, come oggi si incomincia a fare, sulle violenze operate dal movimento partigiano durante, ma soprattutto dopo la conclusione del conflitto.

Non esistono praticamente notizie certe sul numero degli assassinati (fascisti e non) dopo il 25 aprile, così come non si è fatta luce su molti episodi che hanno scandito i mesi successivi la Liberazione (38); sembra quasi che trattare tali argomenti significhi immediatamente mettere in discussione i valori portanti della Resistenza: atteggiamento tipico di “leso mito”, mentre invece sarebbe tempo, passati quasi sessant’anni, di restituire la Resistenza ai canoni della storia e al rigore scientifico, sempre che si intenda la storia non come un giudice, bensì come un modo per comprendere i fatti del passato.

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