Appunti storiografici sulla Resistenza

25_aprileIl Domenicale 16 aprile 2005

Memoria rossa, memoria nera, memoria grigia. Come e perché non si è riusciti a crearne invece una condivisa. Italiana. Vera.

Sembrerebbe questo l’anno definitivo del 25 Aprile. Sessant’anni di distanza sono un tempo giusto perché i fatti appaiano sufficientemente lontani, ma in grado ancora di riverberarsi sul presente. Non è un caso che oggi prevalgano sulle narrazioni storiche, le analisi storiografiche: segno che se pochi dubbi ancora sussistono sugli accadimenti, molti fraintendimenti esistono ancora sull’interpretazione che ne è stata data.

La nostra provocazione di abolire il 25 Aprile come data simbolo dell’identità italiana (il Domenicale, n.14, 2 aprile) è stata raccolta e ribaltata nella solita gibigiana mediatica fatta di rilanci, deduzioni, esasperazioni politiche. D’altronde un bel libro di Filippo Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi (Laterza), ben si prestava al gioco di scovare quanti e quali padri potesse annoverare una proposta revisionistica di tale portata. Spesso padri nobili, spesso padri politicamente scorrettissimi.

Eppure, come già detto, due elementi prevalgono: la distanza nel tempo e il perdurare degli effetti meno positivi. In sostanza, oggi è possibile indagare in modo critico sulle fondamenta della “prima repubblica” perché non si è animati da particolari revanchismi né reduci fisici di una delle due fazioni al tempo in lotta, e allo stesso tempo avere a cuore il bene di questa “seconda repubblica” che non riesce a emanciparsi dai vizi del passato.

All’avverarsi dell’alternanza politica, infatti, non è seguita l’auspicabile fine dell’egemonia culturale che anzi mina le basi del nuovo sistema bipolare, impedendo che i due contendenti vengano percepiti come ugualmente legittimi: nella Sinistra perdurando il vezzo di una supremazia democratica, sulla Destra il marchio infamante del fascismo.

È ovvia per chiunque – anche per i frequentatori meno attenti della storia, che vedono nella proposta di abolire il 25 Aprile la solita boutade da irridere con ironia – la portata e le cause di questo scompenso culturale: di fatto, proprio nella lettura marxista e azionista della Resistenza si fonda il pregiudizio più deleterio della politica attuale.

Sostituire il 25 Aprile con una data meno conflittuale, non sarebbe dunque un pericoloso atto antidemocratico, bensì una grande lezione democratica che alla fine gioverebbe anche a tutti quei partiti per i quali l’antifascismo è l’unica fede.

Come venne già espresso negli ultimi anni con lungimiranza, per esempio dal presidente del Senato Marcello Pera, una nazione non può fondarsi su valori negativi. Anche solo come deduzione paradossale, è chiaro che cercare le proprie radici esclusivamente nell’antifascismo comporta il mantenere in vita surrettiziamente ed eternamente il fascismo o il pericolo che esso torni.

Con il limite che una parte degl’italiani, non fascisti ma neppure di sinistra, venga esclusa dal dibattito culturale, benché (altro lato paradossale da tenere in considerazione) sia preponderante e spesso decisiva negli appuntamenti elettorali.

Storiografia e revisionismi

La questione Resistenza/antifascismo è molto complessa e complessi gli sviluppi storiografici che ne discendono. Oggi, come si diceva, prevalgono quest’ultimi sugli studi storici. Di fatto l’attenzione si è spostata dagli eventi a come negli ultimi sessant’anni gli storici e la politica hanno sedimentato visioni contrapposte, partendo da quei medesimi eventi. Lo dimostrano brillantemente alcuni studi recenti.

Anzitutto il già citato Focardi che, nonostante una mole ingente di documenti e di citazioni, cade però in un controsenso: dà, cioè, troppo credito allo “sforzo propagandistico” – come egli stesso lo definisce – delle forze antifasciste all’indomani dell’8 settembre 1943.

Uno sforzo di propaganda che i partigiani misero in atto con l’esigenza di controbattere la propaganda della Repubblica Sociale Italiana, di mobilitare la popolazione contro la Germania, di ottenere qualcosa di più dagli Alleati che non il solo riconoscimento della cobelligeranza e di evitare una pace punitiva.

Un progetto funzionale, quindi, alla liberazione: lecito, ma pur sempre di propaganda «condensata in luoghi comuni interpretativi relativo alla trascorsa esperienza del fascismo, all’alleanza italo-tedesca» in cui proditoriamente il Duce aveva condotto gl’italiani.

Se dunque è interessante seguire lo sviluppo della crisi del fronte antifascista a partire dal 1948, e gli alti e bassi della “narrazione egemonica” della Sinistra sulla Resistenza, il volume appare più debole e ideologicamente troppo sbilanciato, specie quando si tratta di affrontare gli ultimi anni in cui, a detta di Focardi, un pericoloso revisionismo «sfida la memoria pubblica» costruita appunto sui dogmi del citato sforzo di propaganda partigiana. Qui le tesi di Focardi sembrano mosse da un’ideologia “reazionaria” per cui ogni tentativo di smitizzare la lotta partigiana, quand’anche persegua la verità storica, appare proditorio.

Da leggere con attenzione è anche il volume di Alberto Cavaglion, La resistenza spiegata a mia figlia (L’ancora del Mediterraneo), che Einaudi ha rifiutato di pubblicare, c’è chi dice – anche se l’autore (ricordiamo: storico dell’Istituto piemontese della resistenza) non conferma – perché troppo severo con la Sinistra. Censura o no (ma non sarebbe la prima volta nella storia dello Struzzo), il libello è certamente urticante per il pensiero politicamente corretto, seppur non per questo motivo definibile di destra.

Tutt’altro. Cavaglion da sinistra, anzi nel nome della Sinistra più pura, critica l’impalcatura retorica costruita sulla memoria resistenziale e cerca nel racconto smitizzante la chiave di una nuova lettura con cui dare senso a tutte le vite perse e spiegare tutti quei piccoli grandi atti compiuti da antieroi che condussero per bande una propria guerra personale.

Il primo punto è che, contrariamente a quanto solitamente afferma la volgata, per Cavaglion il fascismo non fu una parentesi nella storia italiana, ma una malattia costituzionale che ottenne un consenso notevole: gl’italiani che si lasciarono ingannare dall’incantatore Benito Mussolini furono tanti, e la Resistenza nacque tardi e solo dopo che i danni di questa “ipnosi” collettiva erano già incalcolabili.

Secondo, il fascismo cadde per mano dei propri stessi gerarchi e senza tale manovra interna non ci sarebbe stata neppure la Resistenza. Terzo, la Resistenza si servì della violenza in un contesto di guerra globale, mentre i successivi tentativi di portarla a termine come “rivoluzione tradita” (per esempio il terrorismo rosso degli anni Settanta) agirono senza attenuanti.

Quarto, la Resistenza come il Risorgimento è, nel bene e nel male, un fenomeno d’élite: come tale non poteva quindi pretendere di ottenere di più. Le separazioni al proprio interno non fecero che perpetuare le divisioni storiche da sempre presenti nella politica italiana.

Il concetto più criticato da Cavaglion è però quello di “zona grigia”, il limbo dove appunto si stemperano le colpe di fascisti e antifascisti, e in cui anche un integerrimo difensore della Resistenza come Giorgio Bocca tentò di far sprofondare il proprio passato antisemita.

Anoressia e bulimia

Parte dallo stesso colore, ma con finalità differenti l’analisi di Roberto Chiarini offerta in 25 aprile. La competizione politica sulla memoria (Marsilio), studio dedicato alla cosiddetta “memoria grigia”, vale a dire alla memoria della “maggioranza passiva” degl’italiani nei confronti della Resistenza.

In pratica, secondo Chiarini, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, nel campo della Resistenza si sono scontrate tre memorie: quella “rossa”, quella “nera” e appunto quella “grigia”. Le prime due attive, antitetiche e strutturalmente minoritarie, la terza passiva, impolitica, maggioritaria e comunque fondamentale nel determinare il corso politico del Dopoguerra.

Questa sorta di stabile e inconciliabile tripolarità della memoria della Seconda guerra mondiale si fonda su alcuni elementi: il conflitto fascismo/antifascismo, prolungatosi come frattura politica e istituzionale ben oltre la fine della guerra civile; l’impossibilità per la memoria attivamente antifascista di diventare memoria largamente condivisa soprattutto perché incapace di dialogare con quella parte del Paese che, nel bene o nel male, ha condiviso, appoggiato, il regime fascista o ne è stata, consensualmente, succube; specularmente, l’inesorabile (e giusta) damnatio per la memoria attivamente fascista o neofascista.

Risultato? L’importanza capitale della “memoria grigia” (che è orientata per definizione verso destra, proprio perché non condivide nessuna pulsione giacobina, nessun valore della Sinistra e sulla quale forse si sarebbe potuto costruire una memoria condivisa ) e allo stesso tempo la sua discriminazione da parte della storiografia di sinistra nel nome dell’equazione Sinistra=antifascismo e Destra= fascismo: onde per cui non esiste nulla al di fuori dell’antifascismo che non sia fascismo.

In questo senso, l’antifascismo attivo quando piega i valori della Resistenza e ne fa un uso strumentale e politico, quando insiste sull’apologia e il martirologio, quando distorce la storia (per esempio negando l’apporto fondamentale degli Alleati nella guerra di liberazione), quando insiste sull’elitismo, si preclude ogni possibilità di proporsi come cultura condivisa e brucia in radice la speranza dei partiti del patto antifascista di dare alla causa della nuova democrazia il consenso delle masse.

Alla fine, secondo Chiarini, i mali della “prima repubblica” derivano proprio da questa dicotomia tra memoria grigia non portata alla politica e memoria rossa iperpoliticizzata. La prima, anoressica, «ha reso la risorta democrazia carente di difese immunitarie nei confronti delle minacce eversive. Ha comportato per la Repubblica il rischio di renderla portatrice sana del virus autoritario».

La seconda, bulimica, l’ha viceversa «sottoposta a continuo stress da allarme autoritario, costringendola ad un arroccamento che l’ha spinta a vedere sempre e solo fantasmi di un risorgente fascismo, anche quando i pericoli erano di altra natura[…] nonché fornire una spunta, seppure involontaria, alla riproduzione di un ghetto dove gli sconfitti difendevano coi denti la loro identità».

  • Filippo Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2005, pp.364, €20,00
  • Alberto Cavaglion, La resistenza spiegata a mia figlia, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2005, pp.118, €9,0
  • Roberto Chiarini, 25 aprile. La competizione politica sulla memoria, Marsilio, Venezia 2005, pp.120, €9,00