La fine del 25 Aprile

partigianiserie di articoli tratti da: Il Domenicale

Sessant’anni di liturgia resistenziale e di mistica antifascista non sono bastati a fare di questa data il simbolo dell’identità italiana, che forse vale la pena di fondare altrove

di Angelo Crespi

La questione è spinosa e va affrontata con cautela. Due circostanze concomitanti inducono però a provarci. Primo: nei giorni scorsi, con qualche polemica per via dei ritardi, sono stati approvati i fondi per i festeggiamenti del sessantesimo anniversario della Liberazione.

Secondo: al Senato è fermo un disegno legge (proposto da An) con cui si vorrebbe concedere lo status di militari belligeranti ai soldati della Repubblica sociale italiana, di fatto equiparandoli ai combattenti partigiani. È ovvio che entrambe le circostanze riguardino, prima facie, il problema dell’identità italiana e della memoria condivisa. E, in maniera meno immediata, alla persistenza di una egemonia culturale in Italia di origine comunista.

In un articolo di trent’anni fa (Il Giornale, 21 ottobre 1975), Renato Mieli, con rara chiarezza, prendendo spunto dalle osservazioni di Augusto Del Noce, aveva già svelato in modo compiuto dove stava il problema e perché la questione Resistenza/antifascismo attenesse sostanzialmente al fenomeno dell’egemonia culturale.

Poiché la rivoluzione marxista programmata dopo la guerra tardava a venire (e fallirà anche col Sessantotto e il terrorismo), l’attenzione del Pci si spostò sul “periodo di transizione”, cioè su come creare le condizioni per l’avvento del sistema socialista in una società matura occidentale. Per questo motivo si scartò Lenin e si adottò Gramsci come maître à penser.

Gramsci e Togliatti

E perché proprio Gramsci? Comprendendo l’importanza del consenso di massa come fattore decisivo nelle trasformazioni rivoluzionarie possibili in Occidente, Gramsci aveva partorito il concetto di egemonia culturale, nel doppio senso di dominazione sui nemici, con mezzi coercitivi, e direzione dei seguaci, con mezzi persuasivi. Concetto che sarà poi alla base della politica di Togliatti e Berlinguer.

In sostanza gli intellettuali, una volta cooptati, spezzando il blocco della borghesia e costituendo un nuovo blocco col proletariato, avrebbero conquistato la società civile, fornendo quel consenso delle masse imprescindibile per la futura rivoluzione. Il Partito comunista – secondo la tesi di Augusto Del Noce – applicando alla perfezione il pensiero di Gramsci, si appropriò dunque degli strumenti di formazione del consenso (scuole, case editrici, mezzi di comunicazione di massa), cioè degli intellettuali non come individui, ma come operatori culturali inseriti attivamente nell’organismo sociale.

E qui si arriva al punto decisivo che varrebbe la pena fare oggetto di serio dibattito in tema di egemonia culturale. Ovvero: come furono convinti dal Pci gli intellettuali? Non certo facendo leva sulla dottrina marxista che suscitava infinite complicazioni e separazioni. Bensì in nome di un valore etico come l’antifascismo, staccato dal contesto storico e innalzato a simbolo di bene assoluto, e per questo indiscutibile a priori. La mistica antifascista sarebbe quindi nata funzionale a un progetto di presa del potere da parte del Pci, e non come valore unificante del popolo italiano.

Orbene, tenuto conto di questa interpretazione, dopo sessant’anni è giusto fare alcune riflessioni.

Il tentativo della storiografia comunista e azionista di appropriarsi della Resistenza è iniziato presto e presto ha raggiunto l’obiettivo. Già nel 1954, paradossalmente sul bimestrale dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, Piero Pieri evidenziava gli intenti di quella Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, pubblicata da Einaudi l’anno prima, che avrebbe avuto grande influenza all’interno e all’esterno del Pci: una lettura che interpretava l’insurrezione nazionale della classe operaia come «folgorante punto di arrivo» della lotta di liberazione e avverarsi del Risorgimento.

In pratica, per motivi politici ed egemonici, si consolidava quella endiade antifascismo/Resistenza oggi così difficile da districare. Come bene sintetizza Giuseppe Parlato (Breve Corso di Storia patria, Cidas e Leonardo Facco editore, 2004) la Resistenza doveva diventare l’anima del nuovo Stato, e l’antifascismo, come valore politico e morale, doveva diventare il cemento con il quale costruire la Nuova Italia. Da qui, come ovvia conseguenza, l’invenzione (soprattutto dalla storiografia azionista) di quella liturgia della Resistenza e di quella mistica antifascista che assurgeranno poi a mito fondante della Prima Repubblica.

Giustizia e libertà

Ma come si arrivò alla liturgizzazione della Resistenza? Per rispondere prendiamo ancora spunto dal saggio di Parlato, per sottolineare che se da un lato fu il Pci nel dopoguerra a giocare la carta Resistenza in un continuo tira e molla, includendo ed escludendo via via i potenziali alleati (si veda a questo proposito lo studio di Ugo Finetti, La Resistenza cancellata, Ares 2003), dall’altro lato spettò a Giustizia e Libertà incaricarsi di difenderne il messaggio più profondo in chiave morale, soprattutto enfatizzando la netta distinzione tra bene assoluto (la Resistenza) e male assoluto (il “nazifascismo”).

E per far questo si adottarono diverse strategie: 1) un uso strumentale e pedagogico della storia che prevedeva la gestione monopolistica della documentazione del periodo resistenziale; 2) un’enfatizzazione dell’impegno civile come base fondante del movimento partigiano; 3) un’enfatizzazione della frattura tra l’Italia fascista e quella democratica, con l’idea appunto che la Resistenza fosse l’indiscutibile inverarsi del Risorgimento e il fascismo solo una parentesi nella nostra storia; 4) il rifiuto del pregiudizio anticomunista, cioè in sostanza la cancellazione della categoria del totalitarismo come chiave interpretativa del dilemma tra democrazia e regimi totalitari, perché altrimenti si sarebbe dovuto equiparare “nazifascismo” e comunismo.

Espulsi dalla storia

Questi dunque i quattro vizi che condurranno in seguito a una visione storica non includente e quindi non identitaria né condivisa da tutto il popolo italiano.

Brevemente le distorsioni più vistose: avere in sostanza espulso dalla storia patria, senza appello, tutti quanti aderirono al fascismo, fin negli anni più bui della Repubblica sociale; dover minimizzare il consenso di massa che il fascismo ebbe; dover sottacere l’acquiescenza al regime fascista di molti intellettuali e uomini politici che poi saranno le colonne portanti del nuovo corso; aver espulso dalla storia della Liberazione tutti quei fenomeni resistenziali non allineati con la volgata azionista/marxista e cioè l’apporto delle formazioni cattoliche, liberali, socialiste e monarchiche, nonché la prima resistenza dell’esercito regio (per esempio a Cefalonia) o dei militari internati nei lager.

E poi a cascata: dover inventare una Resistenza di massa che non ci fu, o meglio se ci fu mobilitazione ampia a sostegno della Resistenza fu, in primis, quella del popolo cattolico contadino del Nord che mantenne le formazioni militari e pagò il prezzo delle ritorsioni, ma i cui meriti si fatica ancora a riconoscere; minimizzare le velleità rivoluzionarie in chiave internazionale che ebbe Togliatti, pronto a immolare porzioni d’Italia sull’altare della palingenesi comunista; nascondere per quarant’anni le vendette partigiane dopo il 25 aprile, proseguite fino al 1948, che costarono la vita ad almeno 15mila persone.

E poi, in cerchi sempre più ampi: negare i crimini del comunismo, quelli vicini come le foibe e quelli lontani come le purghe staliniste; considerare il “nazifascismo” appunto come il male assoluto, mentre il comunismo come una grande e buona idea, seppur macchiata (però solo in modo contingente) da una perversa applicazione storica; ipotizzare una divisione netta tra bene e male, negando quella zona grigia che invece è tipica dell’uomo in generale e si ritrova anche in quegli uomini che, usciti dal fascismo, si adoperarono per ricostruire l’Italia; mantenere il pregiudizio che esista una élite (militare, politica, giudiziaria) democratica a cui un supremo destino ha assegnato il compito di condurre il popolo.

E infine: perpetrare l’idea che solo quanti incarnano il mito della Resistenza possano essere annoverati tra i democratici, mentre gli altri debbano essere considerati fascisti tout court; aver voluto costruire una nazione su un valore in negativo, appunto l’antifascismo, e quindi essere stati costretti a tener in vita per sessant’anni il fascismo, o peggio a inventarsi una categoria ontologica ed eterna come l’“ur-fascismo” per tenere in vita il suo contrario. Tutto ciò con la perversa idea che ancora oggi non si possa realizzare una vera alternanza, perché da un lato stanno i democratici e dall’altro i distruttori della democrazia.

Un’altra data

La riduzione della Resistenza a sineddoche della più ampia rivoluzione marxista (con tutti i vizi sopra esposti) e l’utilizzo dell’antifascismo come strumento per instaurare un’egemonia utile alla rivoluzione contrastano ovviamente con l’idea che il 25 Aprile possa essere celebrazione fondante dell’identità nazionale.

Nonostante gli sforzi e i soldi impegnati per oltre mezzo secolo, tesi alla ricostruzione forzata di una artificiosa memoria comune secondo le procedure che abbiamo fin qui accennato, la data resta fonte di forti divisioni. Non certo per revanchismo della destra. Al contrario, perché è stata fin da principio piegata a interessi di parte.

Prendere coscienza di ciò sarebbe un primo passo.

Il secondo, scandaloso ma coerente, sarebbe non sostenere con soldi pubblici “i centri di produzione del consenso”. Poiché l’antifascismo è assurto a dogma fondativo della patria per il disegno egemonico comunista (e ancora oggi in questo senso se ne fa uso), tanto vale inaridire le fonti da cui scaturisce questa distorsione interpretativa che è – si badi – di tipo politico e non storico. Sul piano storico negli ultimi tempi un sano revisionismo da entrambe le parti ha invece prodotto effetti positivi.

Terzo, varrebbe la pena di sforzarsi a trovare per il futuro una ricorrenza meno conflittuale del 25 Aprile. Compito difficile, considerata la storia del nostro paese, ma indispensabile per non radicare all’infinito inutili divisioni. D’altronde, ha ricordato Andrea Ungari sull’ultimo numero di Nuova Storia Contemporanea, l’identità italiana esiste a dispetto del fascismo, di due guerre mondiali, di un disastroso armistizio, di una guerra civile durata due anni. E pure a dispetto della mistica antifascista.

Esiste, c’è, significa che si fonda su valori ulteriori o non sempre coincidenti con quelli fin qui maneggiati dalla sinistra comunista e postcomunista.