Paesi arabi. In molti casi la democrazia è solo di facciata

democrazia_islamArticolo pubblicato su Avvenire del 30 maggio 2003

«La democrazia nel mondo arabo? È solo una moda, una parola d’ordine che bisogna evocare per poter rimanere in sella».

di Camille Eid

«La democrazia nel mondo arabo? È solo una moda, una parola d’ordine che bisogna evocare per poter rimanere in sella. Da una parte, i leader rabboniscono i rispettivi popoli con false promesse di riforme politiche, dall’altra accontentano gli occidentali con un’adesione solo formale ai loro valori». Amine Kammourieh, editorialista del quotidiano libanese an-Nahar, non nasconde la sua diffidenza.

Eppure il re del Marocco ha dato prova di apertura democratica rompendo con il passato…

Solo in parte. Mohammed Vl ha scarcerato un oppositore per nominarlo primo ministro. Ma quanto potere effettivo ha questo premier? Nessuno. La fragilità di questa democrazia si è vista dopo gli attentati di Casablanca quando il re ha paventato il ritorno alla repressione invece di rafforzare le libertà pubbliche, vera barriera contro l’integralismo. Insomma: la sicurézza viene prima della democrazia e l’opposizione deve solo rappresentare l’altra faccia de potere.

Nello Yemen, ad esempio, esiste una vera opposizione.

Sì, quella degli islamici del partito al-Islah. Finché bisognava arginare il partito socialista, questi islamici facevano parte della coalizione al governo. Ma ora che sono diventati nocivi all’immagine del Paese in Occidente, se ne cercano altri. Il presidente yemenita Saleh è volato di recente negli Emirati arabi per invitare i leader Socialisti in esilio a fare ritorno in patria. Un improvviso sussulto di democrazia? Niente affatto. Saleh sa, infatti, che per poter parlare di democrazia, ha bisogno di un’ opposizione, ma solo di una che assecondi il suo gioco. Il paradosso sta anche nel fatto che negli Emirati non esiste un’opposizione locale. Ogni Paese tollera solo gli oppositori altrui: i sudanesi in Egitto, gli egiziani in Libia, i libici in Tunisia, e così via.

Introdurre la democrazia significa per molti Paesi favorire la vittoria degli islamici. Come uscire da questo dilemma?

La democrazia è come la libertà. Si concede senza calcoli di sorta. Se, in un primo periodo, arriveranno gli islamici, non importa. L’islam non potrà dare una risposta a tutti i problemi economici e sociali. Ma fino a quando non dimostrerà il suo limite continuerà a illudere molta gente. Ecco il modello iraniano: il radicalismo ha portato, alla fine, a un presidente come Khatami. Anche l’esperienza algerina insegna. Il prezzo pagato per impedire la vittoria degli islamici si calcola in decine di migliaia di morti.

È lecito a questo punto parlare di “esportazione della democrazia” come intende fare Bush in Iraq?

La congiuntura esterna a volte aiuta a cambiare una situazione inamovibile. Ma la democrazia è il risultato di un processo interno portato avanti dai partiti e dalla società civile e non può essere catapultata. La democrazia prevista per l’Iraq significa poi dare piena libertà alle diverse etnie e confessioni religiose e questo non è un bene. Ogni gruppo farà infatti a gara con gli altri per allargare la propria fetta di potere. Invece di riconoscersi in un’unica nazione, gli iracheni si sentiranno anzitutto membri di una determinata comunità che li tutela dalle altre, magari con l’aiuto di un Paese estero.

Un punto dl vista molto scettico.

Sì. E sarò scettico fino a quando vedrò i nostri leader considerare i propri figli gli unici idonei a succedere loro. Ora hanno anche capito il gioco: l’Occidente sollecita la nascita di Ong o di associazioni di difesa dei diritti dell’uomo? Allora ne creano a decine. Ora vuole la democrazia? Si inventa ad hoc. Ma la democrazia non è un coniglio che si tira fuori dal cappello di un prestigiatore.