La frustata del cardinale

via_CrucisPubblicato su Il Foglio del 25 marzo 2005

Ratzinger, il neopaganesimo e una Chiesa incosciente di se stessa

Pubblichiamo il testo integrale delle meditazioni scritte dal cardi­nale Joseph Ratzinger, prefetto del­la Congregazione della Dottrina della fede, per la Via Crucis che si terrà questa sera al Colosseo e che, assente Giovanni Paolo II, sarà guidata dal cardinale Camillo Ruini, suo vicario per Roma e pre­sidente della Conferenza episcopa­le italiana.

Il Giudice del mondo, che un giorno ritornerà a giudicare tutti noi, sta lì, annientato, disonorato e inerme da­vanti al giudice terreno. Pilato non è un mostro di malvagità. Sa che questo condannato è innocente; cerca il mo­do di liberarlo. Ma il suo cuore è divi­so. E alla fine fa prevalere sul diritto la sua posizione, se stesso. Anche gli uomini che urlano e chiedono la mor­te di Gesù non sono dei mostri di mal­vagità.

Molti di loro, il giorno di Pen­tecoste, si sentiranno “trafiggere il cuore” (At 2, 37), quando Pietro dirà loro: “Gesù di Nazareth – uomo accre­ditato da Dio presso di voi – … voi l’a­vete inchiodato sulla croce per mano di empi…” (At 2,22s). Ma in quel mo­mento subiscono l’influenza della fol­la. Urlano perché urlano gli altri e co­me urlano gli altri. E così, la giustizia viene calpestata per vigliaccheria, per pusillanimità, per paura del diktat della mentalità dominante. La sottile voce della coscienza viene soffocata dalle urla della folla. L’indecisione, il rispetto umano conferiscono forza al male.

Gesù, condannato come sedicente re, viene deriso, ma proprio nella de­risione emerge crudelmente la verità. Quante volte le insegne del potere portate dai potenti di questo mondo sono un insulto alla verità, alla giusti­zia e alla dignità dell’uomo! Quante volte i loro rituali e le loro grandi pa­role, in verità, non sono altro che pom­pose menzogne, una caricatura del compito a cui sono tenuti per il loro ufficio, quello di mettersi a servizio del bene. Gesù, colui che viene deriso e che porta la corona della sofferenza, è proprio per questo il vero re. Il suo scettro è giustizia (cfr. Sal 45, 7).

Il prezzo della giustizia è sofferenza in questo mondo: lui, il vero re, non re­gna tramite la violenza, ma tramite l’a­more che soffre per noi e con noi. Egli porta la croce su di sé, la nostra croce, il peso dell’essere uomini, il peso del mondo. E’ così che egli ci precede e ci mostra come trovare la via per la vita vera.

L’uomo è caduto e cade sempre di nuovo: quante volte egli diventa la ca­ricatura di se stesso, non più immagi­ne di Dio, ma qualcosa che mette in ri­dicolo il Creatore. Colui che, scenden­do da Gerusalemme a Gerico, incappò nei briganti che lo spogliarono la­sciandolo mezzo morto, sanguinante al bordo della strada, non è forse l’im­magine per eccellenza dell’uomo?

La caduta di Gesù sotto la croce non è soltanto la caduta dell’uomo Gesù già sfinito dalla flagellazione. Qui emerge qualcosa di più profondo, come Paolo dice nella lettera ai Filippesi: “Pur es­sendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assu­mendo la condizione di servo e dive­nendo simile agli uomini… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 6­8).

Nella caduta di Gesù sotto il peso della croce appare l’intero suo per­corso: il suo volontario abbassamento, per sollevarci dal nostro orgoglio. E nello stesso tempo emerge la natura del nostro orgoglio: la superbia con cui vogliamo emanciparci da Dio non essendo nient’altro che noi stessi, con cui crediamo di non aver bisogno del­l’amore eterno, ma vogliamo dar for­ma alla nostra vita da soli. In questa ribellione contro la verità, in questo tentativo di essere noi stessi dio, di es­sere creatori e giudici di noi stessi, precipitiamo e finiamo per autodi­struggerci.

L’abbassamento di Gesù è il superamento della nostra superbia: con il suo abbassamento ci fa rialzare. Lasciamo che ci rialzi. Spogliamoci della nostra autosufficienza, della no­stra errata smania di autonomia e im­pariamo invece da lui, da colui che si è abbassato, a trovare la nostra vera grandezza, abbassandoci e volgendoci a Dio e ai fratelli calpestati.

Sulla Via crucis di Gesù c’è anche Maria, sua Madre. Durante la sua vita pubblica dovette farsi da parte, per la­sciare spazio alla nascita della nuova famiglia di Gesù, la famiglia dei suoi discepoli. Dovette anche sentire que­ste parole: “Chi è mia madre e chi so­no i miei fratelli?… Chiunque fa la vo­lontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e ma­dre” (Mt 12,48-50).

Adesso si vede che ella, non soltanto nel corpo, ma nel cuore, è la Madre di Gesù. Ancora pri­ma di averlo concepito nel corpo, gra­zie alla sua obbedienza, lo aveva con­cepito nel cuore: Le fu detto: “Ecco concepirai un figlio… Sarà grande… il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre” (Le 1, 31s). Ma poco dopo aveva sentito dalla bocca del vecchio Simeone un’altra parola: “E anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Le 2, 35).

Così si sarà ricordata delle parole pronunciate dai profeti, parole come queste: “Maltrattato, si lasciò umilia­re e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello” Gs 53,7). Ora tutto questo diventa realtà. Nel suo cuore avrà sempre custodito la pa­rola che l’angelo le aveva detto quan­do tutto cominciò: “Non temere, Ma­ria” (Le 1, 30).

I discepoli sono fuggiti, ella non fugge. Ella sta lì, con il corag­gio della madre, con la fedeltà della madre, con la bontà della madre, e con la sua fede, che resiste nell’oscu­rità: “E beata colei che ha creduto” (Le 1, 45). “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Le 18, 8). Sì, in questo mo­mento egli lo sa: troverà la fede. Que­sta, in quell’ora, è la sua grande con­solazione.

Simone di Cirene torna dal lavoro, è sulla strada di casa quando s’imbat­te in quel triste corteo di condannati ­per lui, forse, uno spettacolo abituale. I soldati usano del loro diritto di coer­cizione e mettono la croce addosso a lui, robusto uomo di campagna. Quale fastidio deve aver provato nel trovarsi improvvisamente coinvolto nel desti­no di quei condannati! Fa quello che deve fare, certo con molta riluttanza.

L’evangelista Marco però, assieme a lui, nomina anche i suoi figli, che evi­dentemente erano conosciuti come cristiani, come membri di quella co­munità (Mc 15,21). Dall’incontro invo­lontario è scaturita la fede. Accompa­gnando Gesù e condividendo il peso della croce, il Cireneo ha capito che era una grazia poter camminare as­sieme a questo Crocifisso e assisterlo. Il mistero di Gesù sofferente e muto gli ha toccato il cuore.

Gesù, il cui amore divino solo poteva e può redi­mere l’umanità intera, vuole che con­dividiamo la sua croce per completa­re quello che ancora manca ai suoi patimenti (Col 1, 24). Ogni volta che con bontà ci facciamo incontro a qual­cuno che soffre, qualcuno che è per­seguitato e inerme„ condividendo la sua sofferenza, aiutiamo a portare la croce stessa di Gesù. E così otteniamo salvezza e noi stessi possiamo contri­buire alla salvezza del mondo.

“Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 27, 8-9). Veronica – Berenice, secondo la tradi­zione greca – incarna questo anelito che accomuna tutti gli uomini pii del­l’Antico Testamento, l’anelito di tutti gli uomini credenti a vedere il volto di Dio. Sulla Via crucis di Gesù, comun­que, ella, all’inizio, non rende altro che un servizio di bontà femminile: of­fre un sudario a Gesù.

Non si fa né contagiare dalla brutalità dei soldati, né immobilizzare dalla paura dei di­scepoli. E’ l’immagine della donna buona, che, nel turbamento e nell’o­scurità dei cuori, mantiene il coraggio della bontà, non permette che il suo cuore si ottenebri. “Beati i puri di cuo­re, perché vedranno Dio” (Mt 5,8).

Al­l’inizio Veronica vede soltanto un vol­to maltrattato e segnato dal dolore. Ma l’atto d’amore imprime nel suo cuore la vera immagine di Gesù: nel Volto umano, pieno di sangue e di ferite, el­la vede il Volto di Dio e della sua bontà, che ci segue anche nel più profondo dolore. Soltanto con il cuore possiamo vedere Gesù. Soltanto l’a­more ci rende capaci di vedere e ci rende puri. Soltanto l’amore ci fa ri­conoscere Dio che è l’amore stesso.

La tradizione della triplice caduta di Gesù e del peso della croce richia­ma la caduta di Adamo – il nostro es­sere umani caduti – e il mistero della partecipazione di Gesù alla nostra ca­duta. Nella storia, la caduta dell’uomo assume forme sempre nuove. Nella sua prima lettera, san Giovanni parla di una triplice caduta dell’uomo: la concupiscenza della carne, la concu­piscenza degli occhi e la superbia del­la vita.

E’ così che egli, sullo sfondo dei vizi del suo tempo, con tutti i suoi eccessi e perversioni, interpreta la ca­duta dell’uomo e dell’umanità. Ma possiamo pensare, nella storia più re­cente, anche a come la cristianità, stancatasi della fede, abbia abbando­nato il Signore: le grandi ideologie, co­me la banalizzazione dell’uomo che non crede più a nulla e si lascia sem­plicemente andare, hanno costruito un nuovo paganesimo, un paganesimo peggiore, che volendo accantonare de­finitivamente Dio, è finito per sbaraz­zarsi dell’uomo.

L’uomo giace così nel­la polvere. Il Signore porta questo pe­so e cade e cade, per poter venire a noi; egli ci guarda perché in noi il cuore si risvegli; cade per rialzarci.

Sentire Gesù, mentre rimprovera le donne di Gerusalemme che lo seguo­no e piangono su di lui, ci fa riflettere. Come intenderlo? Non è forse un rim­provero rivolto ad una pietà pura­mente sentimentale, che non diventa conversione e fede vissuta? Non serve compiangere a parole, e sentimental­mente, le sofferenze di questo mondo, mentre la nostra vita continua come sempre. Per questo il Signore ci av­verte del pericolo in cui noi stessi sia­mo.

Ci mostra la serietà del peccato e la serietà del giudizio. Non siamo for­se, nonostante tutte le nostre parole di sgomento di fronte al male e alle sof­ferenze degli innocenti, troppo inclini a banalizzare il mistero del male?

Dell’immagine di Dio e di Gesù, alla fine, non ammettiamo forse soltanto l’aspetto dolce e amorevole, mentre abbiamo tranquillamente cancellato l’aspetto del giudizio? Come potrà Dio fare un dramma della nostra debolez­za? – pensiamo. Siamo pur sempre so­lo degli uomini! Ma guardando alle sofferenze del Figlio vediamo tutta la serietà del peccato, vediamo come debba essere espiato fino alla fine per poter essere superato.

Il male non può continuare a essere banalizzato di fronte all’immagine del Signore che soffre. Anche a noi egli dice: Non piangete su di me, piangete su voi stessi… perché se trattano così il le­gno verde, che avverrà del legno sec­co?

Che cosa può dirci la terza caduta di Gesù sotto il peso della croce? For­se ci fa pensare alla caduta dell’uomo in generale, all’allontanamento di molti da Cristo, alla deriva verso un secolarismo senza Dio. Ma non dob­biamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chie­sa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra!

Quante volte cele­briamo soltanto noi stessi senza nean­che renderci conto di lui! Quante vol­te la sua Parola viene distorta e abu­sata! Quanta poca fede c’è in tante teo­rie, quante parole vuote! Quanta spor­cizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovreb­bero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosuf­ficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dal­le nostre cadute!

Tutto ciò è presente nella sua passione. Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison – Signore, salvaci (cfr. Mt 8,25).

Gesù viene spogliato delle sue vesti. Il vestito conferisce all’uomo la sua posizione sociale; gli dà il suo posto nella società, lo fa essere qualcuno. Essere spogliato in pubblico significa che Gesù non è più nessuno, non è nient’altro che un emarginato, di­sprezzato da tutti. Il momento della spoliazione ci ricorda anche la cac­ciata dal paradiso: lo splendore di Dio è venuto meno nell’uomo, che ora si trova lì, nudo ed esposto, denudato, e si vergogna.

Gesù, in questo modo, as­sume ancora una volta la situazione dell’uomo caduto. Il Gesù spogliato ci ricorda il fatto che tutti noi abbiamo perso la “prima veste”, e cioè lo splen­dore di Dio. Sotto la croce i soldati ti­rano a sorte per dividersi i suoi mise­ri averi, le sue vesti. Gli evangelisti lo raccontano con parole tratte dal Sal­mo 22,19 e ci dicono così quel che Ge­sù dirà ai discepoli di Emmaus: tutto è accaduto “secondo le Scritture”.

Qui niente è pura coincidenza, tutto quel che accade è racchiuso nella Parola di Dio e sostenuto dal suo divino dise­gno. Il Signore sperimenta tutti gli sta­di e i gradi della perdizione degli uo­mini, e ognuno di questi gradi è, in tut­ta la sua amarezza, un passo della re­denzione: è proprio così che egli ri­porta a casa la pecorella smarrita.

Ri­cordiamoci anche che Giovanni dice che l’oggetto del sorteggio era la tuni­ca di Gesù, “tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo” (Gv 19,23). Possiamo considerarlo un accenno alla veste del sommo sacerdote, la quale era “tessuta da un unico filo”, senza cuci­ture (FI J a 111 161). Costui, il Crocifis­so, è infatti il vero sommo sacerdote.

Gesù è inchiodato sulla croce. La Sindone di Torino ci permette di ave­re un’idea dell’incredibile crudeltà di questa procedura. Gesù non beve la bevanda anestetizzante offertagli: co­scientemente prende su di sé tutto il dolore della crocifissione.

Tutto il suo corpo è martoriato; le parole del Sal­mo si sono avverate: “Ma io sono ver­me, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo” (Sal 22,7). “Co­me uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato… Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Is 53, 3s).

Fermiamoci davanti a questa immagi­ne di dolore, davanti al Figlio di Dio sofferente. Guardiamo a lui nei mo­menti della presunzione e del godi­mento, in modo da imparare a rispet­tare i limiti e a vedere la superficialità di tutti i beni puramente materiali. Guardiamo a lui nei momenti di cala­mità ed angustia, per riconoscere che proprio così siamo vicini a Dio. Cer­chiamo di riconoscere il suo volto in coloro che tenderemmo a disprezzare.

Dinanzi al Signore condannato, che non volle usare il suo potere per scen­dere dalla croce, ma piuttosto sop­portò la sofferenza della croce fino al­la fine, può affiorare un altro pensiero ancora. Ignazio di Antiochia, incatena­to egli stesso per la sua fede nel Si­gnore, elogiò i cristiani di Smirne per la loro fede incrollabile: dice che era­no, per così dire, inchiodati con la car­ne e il sangue alla croce del Signore Gesù Cristo (1, 1). Lasciamoci inchio­dare a lui, non cedendo a nessuna ten­tazione di staccarci e di cedere alle beffe che vorrebbero indurci a farlo.

Sopra la croce di Gesù – nelle due lingue del mondo di allora, il greco e il latino, e nella lingua del popolo eletto, l’ebraico – c’è scritto chi è: il Re dei Giudei, il Figlio promesso di Davi­de. Pilato, il giudice ingiusto, è diven­tato profeta suo malgrado. Davanti al­l’opinione pubblica mondiale viene proclamata la regalità di Gesù. Gesù stesso non aveva accettato il titolo di Messia, in quanto avrebbe richiamato un’idea sbagliata, umana, di potere e di salvezza.

Ma adesso il titolo può stare scritto lì pubblicamente sopra il Crocifisso. Egli così è davvero il re del mondo. Adesso è davvero “innalzato”. Nella sua discesa egli è salito. Ora ha radicalmente adempiuto al mandato dell’amore, ha compiuto l’offerta di se stesso, e proprio così egli ora è la ma­nifestazione del vero Dio, di quel Dio che è l’amore.

Ora sappiamo chi è Dio. Ora sappiamo com’è la vera regalità. Gesù prega il Salmo 22, che comincia con le parole: “Dio mio, Dio mio, per­ché mi hai abbandonato?” (Sal 22,2). Assume in sé l’intero Israele sofferen­te, l’intera umanità sofferente, il dramma dell’oscurità di Dio, e fa sì che Dio si manifesti proprio laddove sembra essere definitivamente scon­fitto e assente. La croce di Gesù è un avvenimento cosmico.

Il mondo si oscura, quando il Figlio di Dio subisce la morte. La terra trema. E presso la croce ha inizio la Chiesa dei pagani. Il centurione romano riconosce, capisce che Gesù è il Figlio di Dio. Dalla cro­ce egli trionfa, sempre di nuovo.

Gesù è morto, il suo cuore viene tra­fitto dalla lancia del soldato romano e ne escono sangue e acqua: misteriosa immagine del fiume dei sacramenti, del Battesimo e dell’Eucaristia, dai quali, in forza del cuore trafitto del Si­gnore, rinasce, sempre di nuovo, la Chiesa. A lui non vengono spezzate le gambe, come agli altri due crocifissi; così egli si manifesta come il vero agnello pasquale, al quale nessun os­so deve essere spezzato (cfr. Es 12,46).

E ora che tutto è stato sopportato, si vede che egli, nonostante. tutto il tur­bamento dei cuori, nonostante il pote­re dell’odio e della vigliaccheria, non è rimasto solo. I fedeli ci sono. Sotto la croce c’erano Maria, sua Madre, la so­rella di sua Madre, Maria, Maria di Màgdala e il discepolo che egli amava. Ora arriva anche un uomo ricco, Giu­seppe d’Arimatea: il ricco trova come passare per la cruna di un ago, perché Dio gliene dona la grazia.

Seppellisce Gesù nella sua tomba ancora intatta, in un giardino: dove viene sepolto Ge­sù il cimitero si trasforma in giardino, nel giardino dal quale era stato cac­ciato Adamo quando si era staccato dalla pienezza della vita, dal suo Crea­tore. Il sepolcro nel giardino ci fa sa­pere che il dominio della morte sta per finire.

E arriva anche un membro del sinedrio, Nicodemo, al quale Gesù aveva annunciato il mistero della ri­nascita da acqua e da Spirito. Anche nel sinedrio, che aveva deciso la sua morte, c’è qualcuno che crede, che co­nosce e riconosce Gesù dopo che è morto.

Sopra l’ora del grande lutto, del grande ottenebramento e della di­sperazione, sta misteriosamente la lu­ce della speranza. Il Dio nascosto ri­mane comunque il Dio vivente e vici­no. Il Signore morto rimane comun­que il Signore e nostro Salvatore, an­che nella notte della morte. La Chiesa di Gesù Cristo, la sua nuova famiglia, comincia a formarsi.

Gesù, disonorato e oltraggiato, vie­ne deposto, con tutti gli onori, in un sepolcro nuovo. Nicodemo porta una mistura di mirra e di aloe di cento lib­bre destinata a emanare un prezioso profumo. Ora, nell’offerta del Figlio, si rivela, come già nell’unzione di Betà­nia, una smisuratezza che ci ricorda l’amore generoso di Dio, la “sovrab­bondanza” del suo amore. Dio fa ge­nerosamente offerta di se stesso.

Se la misura di Dio è la sovrabbondanza, anche per noi niente dovrebbe essere troppo per Dio. E’ quel che Gesù stes­so ci ha insegnato nel discorso della montagna (Mt 5,20). Ma bisogna ricor­dare anche le parole di san Paolo su Dio, che “diffonde per mezzo nostro il profumo della conoscenza di Cristo nel mondo intero. Noi siamo infatti… il profumo di Cristo” (2 Cor 2, 14s).

Nella putrefazione delle ideologie, la nostra fede dovrebbe essere di nuovo il profumo che riporta sulle tracce della vita. Nel momento della deposi­zione comincia a realizzarsi la parola di Gesù: “In verità, in verità, vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

Gesù è il chicco di grano che muore. Dal chicco di grano morto comincia la grande moltiplicazione del pane che dura fino alla fine del mondo: egli è il pane di vita capace di sfamare in mi­sura sovrabbondante l’umanità intera e di donarle il nutrimento vitale: il Verbo eterno di Dio, che è diventato carne e anche pane, per noi, attraver­so la croce e la risurrezione. Sopra la sepoltura di Gesù risplende il mistero dell’Eucaristia.

Joseph Ratzinger