Un tesoro di fede e di bellezza. La cattedrale di Pisa nei suoi 950 anni

Pisa_cattedraletrascrizione della conferenza “Un tesoro di fede e di bellezza” organizzata dal Centro culturale San Ranieri e da Alleanza Cattolica e tenuta presso la Sala del Carmine, a Pisa il 17 ottobre 2014

relatrice:

professoressa

Maria Luisa Ceccarelli Lemut

 Desidero ringraziare l’amico Andrea Bartelloni che mi ha invitato a parlare questo pomeriggio della nostra cattedrale che in quest’anno 2014 celebra i 950 anni dalla posa della prima pietra.

1. La cattedrale di Pisa nelle sue vicende costruttive

La cattedrale è la sede del vescovo e prende il nome dalla presenza della cattedra episcopale, è la chiesa matrice della diocesi: da essa dipendeva non solo la città e il suo suburbio ma un largo tratto di campagna circostante, dal mare a Putignano a San Giuliano Terme, territorio che nel XIII secolo assunse la denominazione di piviere della cattedrale, i cui abitanti appunto vi ricevevano il battesimo. Ricordiamo per inciso che in questo ambito e nel resto della diocesi di Pisa le parrocchie ottennero il fonte battesimale soltanto all’inizio del secolo scorso per volere dell’arcivescvo cardinale Pietro Maffi.

Alla cattedrale, officiata dai canonici, spettavano nel Medioevo il battesimo, l’estrema unzione e la sepoltura, la benedizione delle palme e dei ceri e l’annuncio della resurrezione il sabato santo, allorché nessuno poteva cantar messa o far suonare le campane prima che venissero fatte rintoccare presso il duomo («donec apud maiorem pulsentur ecclesiam»).

Quella che fu fondata nel lontano 1064 non fu certo la prima cattedrale della città, ma almeno la terza. Pisa era sede di un vescovo già nel 313 e da una prima domus ecclesiae, ossia da un edificio del tutto simile a quelli d’abitazione, in cui si celebravano le liturgie cristiane, si passò come in altre città dopo la pace costantinia dalla fine del IV secolo o nel corso del V alla costruzione di una vera e propria chiesa, che però nel naufragio della documentazione tardo antica e alto medievale è attestata dalle fonti storiche solo nel 748 con il titolo di Santa Maria, da ritenere originario.

A questo proposito è bene riaffermare che Emilio Tolaini ha fatto da tempo giustizia di una pretesa intitolazione a Santa Reparata, mai attestata, una delle tante leggende metropolitane sviluppatesi a partire dal XIV secolo. Dobbiamo invece osservare ccome, dopo la proclamazione nel Concilio del Efeso del 431 di Maria come Theotokos, madre di Dio, si moltiplicarono in Occidente gli edifici di culto a lei dedicati: il primo fu Santa Maria Maggiore a Roma, eretta dal papa Sisto III (432-440). E quindi anche a Pisa, caratterizzata da un forte legame con la Chiesa romana, possiamo immaginare tale dedicazione nella seconda metà del V secolo.

Le informazioni provenienti dalla ricerca archeologica mostrano tra la fine del V e l’inizio del VI secolo l’impianto di una necropoli di dimensioni tali da essere necessariamente collegata ad un edificio di culto particolarmente importante, la cattedrale paleocristiana appunto, del cui impianto però manca ad oggi qualsiasi traccia. L’unica struttura che potrebbe riferirsi al primo assetto dell’area episcopale è l’edificio ottagonale sepolto entro il perimetro del Campo Santo Monumentale, riportato alla luce da scavi del 1936 e interpretato come il primo battistero, databile all’inizio del VI secolo.

In tal caso, la prima chiesa episcopale era certamente collocata vicino al battistero, che poteva trovarsi davanti o dietro o a fianco di essa, e ad ogni modo non lontano dall’attuale. Questa posizione ci sembra oggi periferica rispetto alla città odierna, ma così non appare se consideriamo l’assetto antico di Pisa e le modalità della sua cristianizzazione nel III secolo.

In età romana la città si estendeva tra due fiumi, l’Arno a Sud e l’Auser a Nord, ma gravitava soprattuto su quest’ultimo, che scorreva all’incirca nell’attuale via contessa Matilde e sfociava in Arno a valle dell’odierna Cittadella. E fu in questo corso d’acqua che si sviluppò il porto urbano antico, venuto alla luce nel 1998 nella zona della Stazione di Pisa San Rossore e frequentato per dieci secoli, dal V a.C. al V d.C., a soli cinquecento metri in linea d’aria dalla piazza del Duomo, proiettando in tal modo lo spazio della futura cattedrale nel cuore dei collegamenti tra la terraferma e il mare.

Recenti studi storici hanno infatti posto l’accento sul ruolo fondamentale delle relazioni marittime nella cristianizzazione della città, adombrato peraltro dalle sue più antiche tradizioni agiografiche relative al presunto sbarco di san Pietro alle foci dell’Arno presso l’attuale San Piero a Grado e al martirio di Torpè nel medesimo luogo, che rivelano lo stretto rapporto tra la cristianizzazione del nostro territorio e l’attività missionaria della Chiesa romana e sottolineano l’importanza delle comunicazioni mediterranee nella diffusione del Cristianesimo.

Il rilievo della prospettiva marittima è confermato dalle ultime campagne di scavo nella piazza del Duomo (2003-2009), che hanno portato alla luce un quartiere residenziale di lusso rimasto in uso per un lungo arco di tempo, dal I secolo a.C. fino al V d.C.: su quelle domus romane potrebbe essersi impiantata la prima chiesa episcopale pisana, secondo il più classico degli schemi della domus ecclesiae, fin tanto che tra il V e il VI secolo radicali interventi di ristrutturazione non attribuirono all’area la sua definitiva identità cultuale.

Gli scavi 2003-2009 hanno però rivelato i resti del progetto edilizio di una nuova cattedrale, iniziato e in parte terminato solo nella porzione absidale, attribuita dagli archeologi al X secolo, posta tra la facciata odierna e il Campo Santo monumentale. Questa ‘seconda cattedrale’ ha rappresentato una vera sorpresa, anche per la brevità della sua vita, ben presto sostituita da un edificio molto più ricco e imponente, l’attuale, vero specchio della ricchezza e del prestigio di una città ormai affermata tra le maggiori potenze del Mediterraneo.

A questo proposito possiamo citare una tradizione raccolta da Ranieri Tempesti nel 1812, che indicherebbe nel 25 marzo il giorno della fondazione, suffragata da una pretesa iscrizione incisa sulla prima pietra di fondazione: «Col favore di Dio Ottimo Massimo, sotto gli auspici della gloriosissima Regina dei Cieli e Signora di Pisa, al tempo di Alessandro secondo, pontefice romano, e di re Enrico quarto imperatore augusto, io Guido umile vescovo, insieme con T. console pisano, ed alla presenza di tutta la cittadinanza, gettai le nuove fondamenta di questa chiesa da dedicare in onore della Madre di Dio, con questa lapide posta ad oriente, nel giorno 25 marzo, al principio del nuovo anno 1064, secondo lo stile pisano», iscrizione che manifesta con estrema chiarezza la sua natura di falso di età moderna, un’epoca ricca di tali falsificazioni.

Sappiamo però che sia il battistero sia il campanile furono iniziati nel mese di agosto, cioè in una nella stagione asciutta quando era più agevole scavare le fosse per gettare le fondamenta, e che la cattedrale è dedicata a Santa Maria Assunta, la cui ricorrenza cade il 15 agosto.

Con l’inizio del secondo millennio si manifestò in tutta la sua forza l’ampliarsi dell’orizzonte marittimo e il salto di qualità compiuto dai Pisani verso una politica più aggressiva e intraprendente attraverso i successi sul mare esaltati dalle epigrafi in versi apposte sulla facciata della cattedrale. Una grande lastra di marmo lunense nella prima arcata cieca di sinistra registra, in eleganti distici elegiaci, le spedizioni della prima metà del secolo XI – nel 1005 a Reggio Calabria, nel 1015-1016 in Sardegna (con i Genovesi) e nel 1034 a Bona, l’odierna Annaba in Algeria – e tutto l’orgoglio della città traspare nei versi posti in apertura dall’anonimo autore, un colto canonico del duomo), che in traduzione suonano così:

Chi s’impegna a lodarti secondo il tuo merito, o Pisa,
si affanna a sottrarre alla tua lode ciò che le spetta.
Alle tue lodi, o illustre città, basta quella tua lode,
che nessuno è in grado di riferire di te secondo il tuo merito.
Il successo non dubbio delle imprese e anzi propizio
ti ha procurato una posizione di eccellenza davanti a tutte le località:
poiché così grande risplendi che chi tenta di narrare di te,
oppresso dalla materia, verrà subito meno.
Per tacere il resto, chi potrà degnamente riferire gli eventi
che ti accaddero nel tempo passato?

Nella successiva arcata cieca, a sinistra della porta maggiore, i versi della monumentale iscrizione ricordano la fondazione dell’edificio nel 1064 e celebrano in toni epici l’incursione della flotta pisana nel porto di Palermo, instaurando tra i due avvenimenti un legame profondo.

Le imprese marittime costituirono il grande sforzo collettivo dei cives Pisani, forgiarono la comunità cittadina e le impressero il loro marchio. Ad esse parteciparono tutti, «maiores, medii pariterque minores» – come recita l’epigrafe della fondazione –, mostrando un’unità d’intenti, suscitata e promossa dal mare, espressa materialmente nella costruzione di una nuova e splendida cattedrale, su cui non a caso furono apposte le epigrafi celebrative di quelle imprese: le iscrizioni cioè facevano parte integrante dello stesso disegno progettuale e insieme con quello furono ideate.

  1. La cattedrale di Pisa nel suo significato religioso

Passiamo ora ad esaminare il significato più propriamente religioso della cattedrale, avendo come guida gli appunti presi della bella conferenza fatta dal nostro arcivescovo Giovanni Paolo Benotto il 9 aprile scorso, Nascita di una Catterdale. Beata città di Gerusalemme costruita in cielo di pietre vive, in apertura del ciclo Scrigno di fede ed arte. Percorsi alla scoperta della cattedrale.

Se la professione di fede si configura sempre come un fatto personale, nella visione cristiana non è mai tuttavia un atto meramente individuale ma comunitario, per cui l’espressione dell’adorazione e della lode a Dio ha bisogno di spazi e di luoghi ove sia possibile riunirsi ed innalzare insieme al Signore l’azione di grazie. Il rendimento di grazie a Dio da parte della Chiesa non è mai un atto segreto o vissuto nel nascondimento, ma un’azione corale, condivisa e comunitaria, con un suo preciso svolgimento, che esige spazi nei quali la comunità possa riunirsi, esprimersi, muoversi, pregare, cantare e ciascuno possa vivere il proprio ministero, mostrando così la pluriforme ricchezza che appartiene alla Chiesa come dono dall’alto. Gli edifici di culto rispondono così alle esigenze della comunità, manifestando artisticamente e socialmente l’adorazione del popolo credente nei confronti di Dio.

Questi due aspetti sono presenti nell’esperienza della Chiesa come lo erano nel popolo d’Israele. In Israele la costruzione del tempio rispose non ad un progetto di uomini religiosi ma ad una precisa ed esplicita volontà di Dio, che ne aveva indicato le forme e le misure, così come il culto stesso è da Lui stabilito e insegnato e affidato a Mosè, ad Aronne e ai Leviti. Non si rende culto a Dio secondo modelli umani, ma secondo le indicazioni stesse del Signore, poiché ciò che riguarda Dio non può essere circoscritto dal tempo e dallo spazio: anche se si colloca necessariamente nel tempo e nello spazio, tuttavia va oltre, perché in qualche modo partecipa dell’infinito stesso di Dio.

Questa partecipazione alla trascendenza di Dio era messa in evidenza dalla presenza della Nube, che insieme nascondeva e svelava la presenza di Dio sia nella Tenda del Convegno, che accompagnava Israele nel suo cammino verso la Terra promessa, sia nel Tempio di Gerusalemme al momento della sua inaugurazione da parte di Salomone.

La casa di Dio era dunque il ‘segno’ della presenza del Signore in mezzo al suo popolo, un luogo simbolico che manifestava la volontà di Dio di intrattenersi con i figli degli uomini, chiamati a diventare suoi figli, e insieme il segno dell’identità nazionale d’Israele come popolo del Signore e della benedizione offerta dal Signore al suo popolo. Aspetto religioso e aspetto sociale erano inestricabilmente legati: ogni distruzione del tempio di Gerusalemme comportò non solo la cessazione del culto, ma anche il venir meno dell’identità nazionale, fino alla successiva ricostruzione.

Un profondo mutamento si realizza con la venuta del Cristo, allorché il tempio di Gerusalemme non è più il segno per eccellenza della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, bensì lo è Cristo stesso nella sua umanità, il Verbo incarnato, il Dio con noi, l’Emmanuele.

Pietro, davanti al Sinedrio che lo sta interrogando, introduce significativamente il tema della pietra da costruzione, poi ripreso nella sua prima lettera: «Questo Gesù è la pietra che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun’altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4, 11-12).

È in questa prospettiva che va letto il ‘mistero’ del tempio cristiano. In ogni edificio ‘dedicato’ a Dio confluisce una pluralità di significati. Il nome stesso di ‘chiesa’ fa comprendere che il luogo di culto cristiano non è in nessun modo una replica degli antichi templi pagani e nemmeno del tempio di Israele, bensì, forse, una qualche reminiscenza del luogo di culto festivo ebraico nelle sinagoghe con l’ascolto della Parola di Dio. L’edificio chiesa non è altro che la ‘materializzazione’ di quella Chiesa formata da pietre vive che in Cristo, pietra angolare, ha il suo vivo fondamento, Chiesa di persone credenti, più che chiesa di pietra, articolata intorno al Cristo ed espressa nei doni, nei carismi e nei ministeri affidati ad ogni membro del popolo di Dio.

Questa Chiesa non si limita alla dimensione terrena, ma si completa e si definisce per sempre nella partecipazione alla gloria della città celeste, la santa Gerusalemme del cielo. L’edificio acquista il suo carattere sacro dal momento della dedicazione al Signore, allorché la costruzione, casa della comunità credente eretta tra le abitazioni degli uomini, diventa casa di Dio, dedicata esclusivamente a Lui e al suo culto ed insieme casa della comunità dei fedeli, ove, se da una parte vi confluisce la vita del popolo cristiano che dall’incontro con il Signore nell’ascolto della sua Parola e nella celebrazione dei Sacramenti sviluppa la capacità nuova di animare cristianamente il mondo, dal’altra è spazio abitato soprannaturalmente, ianua coeli, porta del cielo, atrio della città dei santi nel cielo.

A questo proposito sono oltremodo significativi gl’inni della liturgia delle ore nell’ufficiatura della Dedicazione della Chiesa, che pongono in rilievo il legame tra la terra e il cielo: ciò che sulla terra viviamo nella fede spalanca l’ingresso nella pienezza dei cieli. E questo in un certo senso possiamo sperimentare nella nostra cattedrale. Noi siamo abituati ad entrarvi alla spicciolata: ognuno proviene dalla sua realtà di vita, dalle sue occupazioni, con le sue fatiche e i suoi problemi, portando la propria umanità, le proprie attese e i propri desideri. Qui si raccoglie in preghiera, riflette, medita, guarda ed ascolta, celebra l’Eucaristia con gli altri membri del popolo di Dio. Entrare alla spicciolata, individualmente, già in qualche modo falsa la possibilità di comprendere il senso e del significato di questo edificio e di ciò che in esso siamo chiamati a vivere.

L’ingresso in cattedrale dovrebbe avvenire in un vero e proprio contesto liturgico, come nella Veglia della Notte di Pasqua, che comincia sul sagrato con la benedizione del fuoco con cui si accende il cero pasquale, simbolo di Cristo risorto, luce del mondo. Anticamente il fuoco nuovo scoccava da una pietra focaia – come ancora si fa a Firenze –, aspetto che richiamava la miracolosa accensione del fuoco nel Santo Sepolcro di Gerusalemme. Con l’unica luce del cero pasquale clero e fedeli entravano in cattedrale con il triplice richiamo a Cristo lux mundi, e la fiamma si propagava, e si propaga tutt’ora, alla candela di ciascun fedele, fino rischiarare l’intero edificio, la cui abside presenta proprio il Pantocratore con il libro su cui è scritto «Ego sum lux mundi».

Si procede così dalle tenebre alla luce, una luce non solo materiale, ma spirituale, che illumina sì le architetture, vero anticipo della città celeste, ma attraverso la Parola proclamata illumina soprannaturalmente il cuore di ciascuno, ove il seme fecondo della Parola di Dio intende attecchire per portare frutti di vita eterna. Solo in un contesto come questo si comprende il significato dell’immagine di Pietro che chiama i cristiani «pietre vive» edificate su Cristo, pietra d’angolo, fondamento che tutto regge nella fede.

E se nella selva delle colonne il popolo di Dio prega, si muove processionalmente, canta, ascolta, attraverso la ricchezza dei segni liturgici può intravedere il mistero della città celeste, che si affaccia a guardare quaggiù, partecipando alla gioia dei credenti pellegrini verso l’eternità. Verso l’assemblea riunita guarda, il Pantocratore insieme con Maria e con l’evangelista Giovanni, e certamente dalle pareti di questo nostro tempio guardavano al popolo riunito angeli e santi che noi possiamo solo immaginare.

Possiamo cogliere un esempio mirabile dell’unità e dell’incontro tra la Chiesa terrena e la Chiesa celeste nella basilica di San Piero a Grado. Nella navata centrale sopra le colonne è raffigurata la successione apostolica dei papi da Pietro fino a Bonifacio VIII, pontefice al tempo in cui la basilica fu affrescata: mancano però circa una metà dei pontefici, che verosimilmente erano affrescati sulle pareti delle navate laterali. Sopra si distendono in trenta riquadri le storie dei santi Pietro e Paolo e episodi connessi con Costantino e papa Silvestro, storie di una salvezza sempre in atto.

E in alto, quasi come corona per la sposa preparata per lo Sposo divino, una successione di angeli si affaccia dalle finestre del cielo, quasi a ricordare a tutti che non abbiamo qui sulla terra una dimora definitiva, perché la nostra patria è nei cieli, dai quali dovrà venire alla fine dei tempi il Cristo giudice glorioso. Chiesa celeste e chiesa terrena non sono distanti tra loro e tanto meno contrapposte: sono l’unica Chiesa, la sposa bella del Cristo che quaggiù è pellegrinante, ma che ha la sua pienezza d’amore con il suo Sposo nella gioia eterna del cielo.

Concludendo, possiamo dire che la cattedrale, cuore religioso di Pisa e del territorio diocesano, sede del culto tributato alla speciale Patrona celeste titolare del vescovato, nell’immaginario collettivo ha per secoli rappresentato l’intera civitas e ne ha custodito la memoria storica di potenza mediterranea: con le epigrafi che celebravano le principali imprese marinare incastonate in facciata ad accogliere chi giungeva da Nord per la via Aurelia, sui fianchi pezzi di reimpiego provenienti da monumenti di età romana per sottolineare la grandezza di Pisa come «altera Roma», e tutto il paramento ornato riccamente di elementi decorativi.

Sul culmine del tetto al di sopra dell’abside, infine, il magnifico grifone bronzeo di fabbricazione islamica ora nel Museo dell’Opera (al suo posto è una copia) – proveniente dalla Spagna e con ogni probabilità giunto a Pisa col bottino della spedizione balearica (1113-1115) – si stagliava con la sua carica di significati simbolici, segno di regalità ma soprattutto allusione, nella doppia natura di aquila e di leone, alla duplice natura umana e divina di Cristo, che giustifica l’ubicazione sopra la zona più sacra dell’edificio.

All’esterno e all’interno, poi, il tempo ha trasformato la cattedrale in scrigno prezioso, arricchita di mirabili sculture, pitture e mosaici, oreficerie, a testimonianza della fede della città e del grande respiro culturale che – nel cantiere della piazza, completato l’impianto dell’intero complesso monumentale – dava vita alle sperimentazioni fondate sui modelli della classicità e intrise di suggestioni provenienti da Bisanzio, dal mondo arabo, dall’Europa, ponendo le basi della lingua figurativa degli italiani.

Grazie