Robespierre e Lenin i gemelli del Terrore

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 16 ottobre 2002
Robespierre_Lenin

Pubblichiamo un brano dell’introduzione di Francois Furet alla raccolta di saggi «Le due rivoluzioni» (prefazione all’edizione italiana di Marina Valensise), che esce venerdì dalla Utet e raccoglie alcuni testi dello storico francese scritti fra il 1980 e il 1997.

di Francois Furet

La mia impressione è che un francese colto della fine del XX secolo sia meno attrezzato per dare un senso allo spettacolo del mondo di quanto potesse esserlo il suo omologo del XIX secolo. E anche peggio forse: è probabile, infatti, che quest’ultimo sarebbe stato intellettualmente meno sprovveduto di fronte al mondo in cui noi viviamo oggi. Cento o centocinquanta anni dopo.

Per illustrare questa tesi, proporrò l’esempio della sinistra intellettuale francese di fronte ai due grandi capisaldi che dominano la sua formazione e la sua storia nel XIX e nel XX secolo, e cioè la Rivoluzione francese e la Rivoluzione sovietica. Se una parte importante di questa sinistra ha impiegato tanto tempo e ha così sofferto, per accettare che la Rivoluzione sovietica sia così rapidamente degenerata in un regime totalitario, negatore delle libertà elementari del cittadino, ciò è successo in funzione di un certo numero di convinzioni intellettuali che non è difficile individuare.

Al centro dell’edificio, c’è la Rivoluzione sovietica, erede di una tradizione francese, fondatrice appunto di quella che si chiama la gauche, e dunque segnata da un marchio d’identità ma anche di estrema valorizzazione.

La rivoluzione presenta inoltre un preciso fondamento, oggetto di cure e attenzioni particolari, e cioè il marxismo-leninismo: e, in base a questo, è accreditata come una liberazione dell’uomo rispetto allo sfruttamento capitalista, ma contemporaneamente è priva delle obbligazioni giuridiche caratteristiche della democrazia, dal momento che si suppone che l’emancipazione economica comporti di per se stessa l’esercizio finalmente sovrano dei diritti politici da parte dell’intermediario della dittatura del proletariato. Poiché l’uguaglianza «reale» succede all’uguaglianza «formale» e le libertà «reali» saranno sostituite alle libertà «formali» della democrazia borghese.

Questo schema, di cui si trovano i principali elementi nelle polemiche di Lenin, prima contro i menscevichi e poi contro Kautsky, trova spazio facilmente all’interno di una tradizione politica e intellettuale francese, che è quella del giacobinismo. Infatti, nonostante si differenzi per la sua pretesa scientifica, ha in comune con la tradizione giacobina l’idea che lo Stato rivoluzionario sia anche il garante dell’uguaglianza e dunque della libertà.

D’altro canto, lo schema leninista presenta, rispetto all’ideologia giacobina, la superiorità di costituire, almeno in apparenza, una teoria deduttiva, chiusa su se stessa e impermeabile alla stessa prova dell’esperienza. L’Unione Sovietica del marxismo-leninismo è infatti un incastro di concetti attraverso il quale il Gulag finisce per non essere nemmeno concepibile; e di conseguenza, è come se esso non esistesse.

D’altronde, il sistema dispone, contro le sorprese della storia, delle valvole di sicurezza. Anzitutto la negazione pura e semplice. Poi, quando questa negazione non è più sostenibile, in ragione della dimensione dell’avvenimento «deviante», ecco l’attenuazione, una concessione che può sempre essere ritirata quando arrivano giorni favorevoli all’affossamento dei fatti rivelati. Infine, se l’esistenza di un fenomeno contrario rispetto all’interpretazione canonica cessa di essere negata per una ragione o per l’altra, come nel caso di Aleksandr Solzenicyn, per i campi di concentramento sovietici, l’ultima via d’uscita è la «spiegazione da parte di una figura esterna rispetto al sistema»

In seguito, quando la dimensione e la natura del mondo concentrazionario sovietico hanno squalificato la spiegazione da parte di un «esterno», a partire dalla metà degli anni Cinquanta, le persone preposte alla difesa dell’ideologia hanno fornito delle soluzioni di soccorso «revisioniste», ma della stessa natura della tesi ortodossa del buon vecchio tempo andato, in quanto destinate a discolpare il regime nella sua stessa essenza.

Uno dei ritrovati più interessanti di questi tentativi di giustificazione è stato il «culto della personalità» come spiegazione del Terrore di massa: concetto preso al di fuori del corpo della dottrina marxista, capace. dunque di non offrire alcun appiglio alle critiche fondate sul commento dei testi, e senza un legame logico, d’altronde, con la stessa questione da risolvere, e anzi in grado di ottenere maggior valore proprio da questa estraneità, poiché il fine è in fondo quello di scongiurare un pericolo e non di spiegare un fatto.

Il Gulag non risultava così legato né alla dittatura politica del partito comunista, né alla collettivizzazione dei mezzi di produzione: era una deviazione, e cioè una disgrazia aleatoria senza uno specifico rapporto con il sistema. L’ultimo «esterno», chiamato in aiuto quando i predecessori non bastavano più ad assicurare una prevenzione efficace, è la storia stessa.

Le circostanze invocate possono in effetti essere anteriori al fenomeno di cui occorre rendere conto, e contribuire a modellarlo con il peso che continua a esercitare il passato sul presente. La «barbarie» dell’Impero russo nel 1917 spiega così la ferocia della repressione staliniana. Ora, tutta quest’attività di razionalizzazione e di difesa, di volta in volta molto sofisticata e completamente sterile, che occupa una gran parte della nostra vita intellettuale, non fa che riprodurre i dibattiti del XIX secolo intorno alla Rivoluzione francese e in particolare sul periodo del Terrore. Riflettere sul Terrore è stato, per i repubblicani, successivamente ai primi anni del XIX secolo, un’ossessione politica e filosofica opposta alla tradizione conservatrice o contro-rivoluzionaria.

I liberali, e soprattutto gli uomini del 1830,ne hanno fatto una deviazione dalla marcia trionfale iniziata dalla Francia nel 1789. I democratici e i socialisti l’ hanno invece assolto in nome delle circostanze e della salvezza della patria, riprendendo come propri gli stessi termini utilizzati dai protagonisti dell’anno II. Ma ciò che stupisce, nel rileggere le grandi discussioni storiche del XIX secolo a proposito della Rivoluzione francese, e nel confrontarli con quelli che riguardano la Rivoluzione russa nel XX secolo, è quanto il dibattito abbia perduto oggi della sua ricchezza filosofica e concettuale.

Gli uomini del XIX secolo usavano e abusavano, essi stessi, della spiegazione-giustificazione offerta dalle «circostanze», e non ci sarebbe poi niente di grave nel mostrare la parentela che esiste da questo punto di vista tra una parte della tradizione della sinistra di fronte alla Rivoluzione francese e la tradizione comunista di fronte a quella sovietica. Nel genere di quella che si potrebbe definire come l’apologia incondizionata o l’arringa vergognosa, Georges Cogniot o Jean Ellenstein non hanno inventato nulla: questi ultimi si trovano ben presto arruolati, nel XIX secolo, nel campo della storiografia giacobina del Terrore.

Ma la grande differenza rispetto a oggi sta nel fatto che quella storiografia non regna affatto incontrastata tra gli intellettuali repubblicani; il punto è infatti che essa finisce per scontrarsi soprattutto con una questione posta chiaramente, ben prima che lo stesso Tocqueville ne faccia il nucleo centrale del suo libro più celebre e cioè: qual è il legame che unisce la Rivoluzione francese e l’instaurazione (o la restaurazione) di un regime politico dispotico? E una domanda che gli intellettuali francesi hanno riesumato tardivamente, e un po’ istericamente, negli anni recenti.