Bomba continua

bombardamento Tratto da L’Italia Settimanale (L’inserto)

Agosto ’43: l’Italia è sotto le bombe dei “liberatori” anglo-americani. I bombardamenti alleati, che prima servivano a far crollare il Fascismo, ora servono a spingere Badoglio all’armistizio. E mentre gli italiani muoiono a migliaia, un gruppo di antifascisti, spinti da La Malfa e dal Partito d’Azione, chiedono altre bombe sulle nostre città. Nella speranza di una insurrezione che non verrà

di Aldo A.Mola

Il buffo (o meglio, il tragico) è che per ammettere di essersene prese tante, spesso senza ragione, gli italiani hanno atteso l’autorizzazione di storici anglo-americani. Adesso che loro lo scrivono anche in Italia, si può sussurrare che i “liberatori” ci andarono davvero pesanti con i bombardamenti, qui da noi, come poi fecero e fanno quando “arrivano i nostri”.

Incredibilmente poi le affermazioni di quegli storici sorprendono gli italiani, benché Genova, Napoli e molte alte città abbiano ancora i segni di quelle vicende e altrove, come a Udine e in cento altre località le macerie della guerra sono appena mascherate dal maquillage della ricostruzione. Sembra proprio che prima di aprir l’ombrello si attenda che sia lo “zio Sam” a dirci che piove. Ma tant’è.

La falsa “scoperta” dell’inutile barbarie dei bombardamenti anglo-americani e il dibattito che ne sta sorgendo è uno dei frutti del mezzo secolo di asservimento intellettuale, orchestrato per rendere meno consapevole quello nei fatti. Tutto nasce dall’equivoco originario. Quando a fine agosto Badoglio completò quello che definì «un ricamo» (cioè il pasticcio dell’armistizio e delle sue drammatiche conseguenze) a Roma più d’uno s’illuse che fra Italia e anglo-americani si fosse ormai pari e patta.

Ma così non era. Incombevano due macigni, l’uno più grave dell’altro e se ne avvertirono presto le conseguenze con la ripresa dei bombardamenti sull’Italia centro-settentrionale, molto più rovinosi e sanguinosi di quelli del 1942 e della prima parte del ’43. Il primo era l’omologazione dell’Urss ad alleato a pieno titolo delle “democrazie”. La decisione assunta a Londra e Washington, nel corso del ’42, di includere senza riserve l’Unione Sovietica tra le Nazioni Unite si tradusse nell’implicito avallo del regime stalinista.

L’Urss metteva il territorio e gli uomini, gli anglo-americani massicci aiuti in risorse e mezzi bellici (decisivi per la riscossa dell’Armata Rossa dall’autunno ’42) e Stalin si trovava ad aver mano libera all’interno dell’impero per il resto della guerra e per il dopo. Proprio in quell’ottica gli inglesi, che conoscevano il loro pollo, cercarono di spostare il più a oriente possibile l linea di sicurezza dell’influenza “occidentale”, trattando la percentuale di controllo su Stati e popoli, quasi fossero appezzamenti di terreno. A questo erano meno interessati gli statunitensi, impegnati nel Pacifico e nell’Atlantico più che nel Mediterraneo.

A impedire che l’armistizio risolvesse da sé tutti gli imbrogli accumulati dall’Italia negli ultimi vent’anni v’era inoltre la decisione irrevocabile d’imporle la resa incondizionata assunta dai tre Grandi alla conferenza di Casablanca. Da quel momento un vero mutamento di rapporti tra le cosiddette Nazioni Unite e gli Stati via via vinti (tra i quali in primis, l’Italia) sarebbe stato possibile solo se fossero cambiati quelli tra Urss, Usa e Regno Unito.

Il che non accadde, perché sino all’ultimo gli occidentali ritennero indispensabile il concorso bellico dell’Urss, tanto da lasciarle carta libera nell’Europa Orientale, con le drammatiche conseguenze escritte da Jurgen Thorwald in La grande fuga (tradotta in Italia sin dal 1964, ma presto sepolta), una ricostruzione senza fronzoli delle nefandezze perpetrate dall’Armata Rossa.

Che le prospettive non fossero allegre il governo di Roma l’ebbe chiaro sin dall’agosto 1943, quando raccomandava al prefetto di Milano di adoprarsi per fa capire a chi già pretendeva, a guerra aperta, di riprendere gli scioperi generali, che il “martello alleato est grosso e incudine tedesca est dura”.

Attratto dallo spiraglio abilmente lasciato intravedere dalla Dichiarazione di Quebec (secondo cui «la misura nella quale le misure saranno modificate in favore dell’Italia dipenderà dall’entità dell’apporto dato dal Governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra»), il governo di Roma si cullò nella rovinosa illusione che l’Italia potesse davvero essere accolta come alleata nella guerra in corso, benché quella stessa Dichiarazione si aprisse con un equivoco: «Le condizioni dell’armistizio non contemplano l’assistenza attiva dell’Italia nel combattere i tedeschi».

La resa incondizionata sottoscritta, fra una parte consistente di italiani iniziò la gara a ingraziarsi il vincitore, in barba agli interessi generali permanenti e alla ingenua speranza che gli anglo-americano fossero disposti a tenere in gran conto il concorso di reparti militai accolti in linea malvolentieri e con l’imposizione di continue quanto stolte mortificazioni. Alla radice di tale atteggiamento v’era l’immutata scelta anglo-americana di considerare comunque l’Italia quale “nemico”, anche dopo la dichiarazione di “cobelligeranza” contro la Germania a metà ottobre ’43.

I Documenti diplomatici italiani relativi al periodo 9 settembre 1943-11 dicembre 1944, appena pubblicati, confermano che Washington giudicava l’Italia alla stregua di una terra di occupazione nel cui governo dovevano trovar posto i portavoce dei piani “alleati” o comunque personaggi, come il sedicente conte Sforza, ispirati da astio accanito nei confronti del Re e pronti a consumare la loro “vendetta” sulla pelle del popolo italiano.

Sul quale gli anglo-americani ebbero quindi buon gioco a imperversare con bombardamenti non rispondenti ai fini dell’immediata avanzata lungo la penisola, bensì in certo modo alternativi proprio all’iniziativa di spostare rapidamente il fronte verso nord, giacché, – come tutti sanno – loro intento era, all’opposto, trattenere il maggior numero possibile di divisioni tedesche al di qua delle Alpi, lontano dai futuri e decisivi teatri bellici: il “secondo fronte” aperto con lo sbarco in Normandia del giugno ’44, poi seguito in agosto da quello in Provenza, con amara delusione dei partigiani italiani, convinti che venisse scelta la Liguria e già pronti (come prova una documentazione copiosissima quanto sconcertante) a spartirsi tutto il potere, con quasi un anno di anticipo sullo “sfascio” dell’aprile ’45.

Studiosi non prevenuti di storia militare, come Raimondo Nuraghi o Massimo Mazzetti sino ai generali Bovio e Bertinaria, già capi dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito hanno da tempo dimostrato che la condotta degli anglo-americani nei confronti del “vinto”, se da un canto rispose allo scopo di eliminare definitivamente l’Italia dal novero delle grandi (o aspiranti tali) potenze, ignorò del tutto il dopoguerra. Perciò l’Italia non fu messa nelle condizioni di fronteggiare gli impegni che il governo (di Brindisi, di Salerno e infine di Roma) intendeva accollarsi. E ciò per una ragione molto semplice: a differenza di quanto Badoglio e Bonomi credevano, gli “Alleati” non intendevano affatto riconoscerla tra le Nazioni Unite.

Benché per decenni sia stato retoricamente ripetuto che la “guerra di liberazione” pagò il “biglietto di ritorno” fra le democrazie, come esosamente preteso da Churchill (che, oltre alla disfatta, volle che gli italiani, come gladiatori al circo, si esibissero in una sanguinosa guerra civile). All’inizio del 1945 la situazione era quella sintetizzata dal Maresciallo messe, che non esitò a bollare la cobelligeranza come un equivoco, e a deplorare il “circolo vizioso stabilitosi fin dall’inizio fra la ferrea realtà espressa nelle clausole armistiziali e le nebulose speranze derivate dalla indefinita formula della cobelligeranza”.

Di sicuro si sa che nella primavera avanzata del ’45 la Military Mision Italian Army scrisse nero su bianco che pretendeva la direzione delle Forze Armate italiane e solo dopo vibrate proteste si contentò di imporre il suo “controllo”. La stessa Mmia obbligò poi il Regno ad allestire un “esercito di transizione” che a malapena bastava ad assicurare l’ordine pubblico, con conseguenze pratiche facilmente immaginabili: discredito per il governo dinnanzi all’opinione pubblica, mortificazione permanente delle Forze Armate, svilimento della monarchia.

Il Trattato di pace del 10 febbraio ’47 non fece che ratificare un risultato a dir poco deludente anche per i più ottimisti (De Gasperi compreso). D’altronde, se avesse accettato di riconoscere al Regno un ruolo di effettivo compartecipe alla vittoria sulla Germania, gli anglo-americani si sarebbero trovati nella condizione non solo di impedire qualsiasi mutilazione del territorio nazionale (invece “sforbiciato” da Tito e De Goulle a est e a ovest), di non procedere al completo smantellamento delle colonie, né all’imposizione di servitù militari e limitazioni economiche giudicate «anacronistiche e ingiuste» persino da Sforza ma, soprattutto, avrebbero dovuto rendere conto della disinvoltura con la quale per venti mesi avevano martellato il territorio dell’aspirante alleato con bombardamenti tanto rovinosi e sanguinosi quanto in larga misura superflui sotto il profilo militare.

Ma la dirigenza politico-militare italiota (come già si vide dal congresso del Cln a Bari, ove persino un uomo non privo di comprendonio, come Croce, si scagliò irresponsabilmente contro il Re) anziché impegnarsi nella salvaguardia degli interessi nazionali si accanì nella spartizione della misera torta sopravvissuta a cinque anni di guerra, di cui due di lotta civile e di duplice occupazione militare straniera, il cui versante anglo-americano rimane ancora da mettere pienamente in luce.

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Un agosto terribile

Nei mesi precedenti la caduta del fascismo gli anglo-americani effettuarono pesanti bombardamenti su città della Sicilia, della Sardegna, e via salendo fino a Genova e Torino, causando centinaia di morti tra la popolazione civile. Anche dopo l’avvento di Badoglio continuò il martellamento, senza speciali obiettivi militari bensì con scopi di puro e semplice terrorismo.

Colpita il 27 luglio 1943 (10 morti e 10 feriti), Napoli fu nuovamente bombardata il 2 agosto (altri 10 morti e 63 feriti) e il 5 agosto (210 morti e 464 feriti). Lo stesso giorno toccò a Messina (già ripetutamente colpita), che contò 18 morti e 52 feriti. L’indomani fu la volta di Milano (101 morti e 267 feriti), Torino (17 morti e 48 feriti), Genova (11 morti e 37 feriti) e Terni (304 morti e 503 feriti): una vera carneficina. Il 13 agosto la furia alleata si abbatté per la seconda volta su Roma: 355 morti. Lo stesso giorno l’inferno si scatenò su Trecate (presso Novara) e ripetutamente su Milano, che in tre giorni lamentò 193 morti e 169 feriti.

I “liberatori” tornarono poi a pestare sul Mezzogiorno: Regio, il 17 agosto con 15 morti; Paola, il 21, con 70 morti e 203 feriti; ancora Napoli, il 24, con 123 morti e 67 feriti, e Taranto, il 26 con 60 morti e 150 feriti. Fu poi la volta di Sulmona, il 27, con 30 morti e 100 feriti, e di Pescara, che registrò 40 morti e 800 feriti. Un macello.

Questi bombardamenti non colpirono quasi mai istallazioni militari né bersagli “strategici” bensì abitazioni civili, quartieri popolari (come a Torre Annunziata, il 30 agosto, con 31 morti e 19 feriti) o treni passeggeri (come presso Potenza, il 25 agosto). Vale a conferma l’alto numero di morti rispetto ai feriti: effetto della mancanza di difese e di quelle elementari norme di sicurezza che generalmente tutelano le istallazioni militari.

I bombardamenti puntavano dichiaratamente a far insorgere la popolazione, esasperandola, e a causare i maggiori danni possibili alla società civile per renderne più lenta la riorganizzazione quando un giorno (ma più tardi possibile, nella logica dei “liberatori”) fosse tornata la pace. Contrariamente a quanto speravano, i bombardamenti non suscitarono affatto la rivolta generale.

Manifestazioni esplosero infatti in coincidenza e subito dopo la caduta del fascismo e fecero contare, per l’azione repressiva drasticamente ordinata dal governo Badoglio, 11 morti, 42 feriti e 338 arresti il 27; 43 morti, 144 feriti e 413 arresti il 28, 12 morti, 38 feriti e 160 arresti il 29. Dopodiché, visto che il governo faceva sul serio, le manifestazioni si attenuarono, sicché fra il 30 luglio e l’8 settembre 1943 in tutto e per tutto si lamentarono solo 16 morti, 55 feriti e poco più di 300 arrestati.

La repressione delle dimostrazioni popolari e dichiaratamente antifasciste, tendenti ad ottenere l’immediata cessazione della guerra a qualsiasi condizione, costarono nell’insieme 83 morti, 516 feriti e 2059 arrestati, meno di uno dei tanti bombardamenti dei “liberatori”. Nell’insieme il governo Badoglio mostrò di avere in pugno il controllo dell’ordine pubblico: per violazione del coprifuoco si contarono infatti appena 10 morti, 20 feriti e 227 arresti, mente i fascisti uccisi perché tali furono 9, 20 i feriti e 114 gli arrestati.

Venne poi la “guerra inutile”, cioè venti mesi che causarono complessivamente almeno 64 mila morti: un numero di vittime enormemente superiore a quello causato dai nazifascismi. Una realtà, questa, che non può essere cancellata dai massacri delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto e da altre analoghe pagine orribili.

Con una differenza: che la repressione nazifascista non aveva la pretesa di “liberare” nessuno, bensì essa s’inquadrava nella difesa a oltranza del Reich, mentre gli anglo-americani esigevano anche la gratitudine delle loro vittime. E se non proprio la gratitudine per decenni ne hanno ottenuto almeno il silenzio. A cinquant’anni dai fatti è però arrivato il momento di guardare in faccia la realtà

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Com’erano razzisti quei “liberatori”!

L’esercito Usa che venne a “liberare” l’Italia in nome dei principi della libertà, dell’uguaglianza e della democrazia, predicava bene e razzolava male. Tra le truppe di Roosevelt vigeva la più dura segregazione razziale: docce, mense, mezzi di trasporto, spacci, campi di addestramento, cinegiornali, uffici postali, locali di soggiorno e perfino tavoli da ping pong erano distinti tra neri e bianchi.

Una realtà sorprendente documentata da un film-documentario di un’ora e mezzo. Si tratta di Liberators: fighting on two fronts in World War II (Liberatori: combattendo su due fronti nella seconda guerra mondiale) girato da due registi americaniWilliam Miles e Nina Rosemblum e presentato all’ultimo FiolmFest di Berlino lo scorso febbraio.

Per gli autori i “liberatori” chiamati a combattere su due fronti sono ovviamene i soldati di colore dell’esercito Usa, impegnati a liberare se stessi. Una guerra che non vinsero nel 1945: il pregiudizio razziale condizionò anche l’impiego bellico dei neri Usa, addetti preferibilmente a lavori pesanti con vanghe e picconi piuttosto che alla prima linea, perché giudicati di riflessi più lenti, poco combattivi e meno abili con le armi.

Esclusi per lungo tempo da Marina e Aviazione i soldati di colore furono in buona parte adibiti alla sorveglianza dei prigionieri e, al contempo, sistematicamente esclusi dai documenti cinematografici e fotografici dell’epoca: «Venivamo messi da parte – ha raccontato un reduce – perché sciupavamo l’immagine»  F. An

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IL TERRORE VENIVA DAL CIELO

Gli uomini del Partito d’Azione vollero un supplemento di bombe per l’Italia. E gli alleati li accontentarono

di Fabio Andriola

C’è poco da dire: agli americani le bombe piacciono. Tanto. Durante la seconda guerra mondiale solo sull’Europa ne hanno lasciate cadere qualcosa come un milione e 412 559 tonnellate. Neanche in Vietnam (ma bisogna dire che il territorio nemico in questo caso era decisamente ridotto) si sono impegnati tanto: la celebre operazione “Rolling Thunder”, che per tre anni portò morte e distruzione nel Vietnam del Nord, significò lo sganciamento di 860.000 tonnellate di bombe in 300.000 incursioni.

Qualcuno si è preso la briga di fare un calcoletto: una bomba da 250 chilogrammi ogni 30 secondi. I morti furono 52 mila solo tra i civili. Più o meno la stessa cifra delle vittime dei bombardamenti tedeschi sulla Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale; più o meno la stessa cifra delle vittime di un solo bombardamento anglo-americano su Amburgo la notte tra il 27 e il 28 luglio 1943.

Anche per una semplice operazione di polizia internazionale come quella relativa all’arresto del dittatore panamense, Manuel Noriega, nel dicembre ’89, gli Usa hanno fatto l cose in grande: per le prime 14 ore di attacco sono cadute su Managua, la capitale del piccolo stato centro-americano, quasi 500 bombe, a ritmo di una ogni due minuti. Alla fine, per catturare un avventuriero che per anni era stato sul libro paga della Cia, gli Usa di Gorge Bush distrussero interi quartieri senza badare troppo alla mira causando la morte di oltre tremila civili.

Una specie di prova generale in vista ella guerra del Golfo, 14 mesi più tardi: sotto le bombe alleate, in quell’occasione, morirono decine di migliaia di iracheni. Mancano cifre ufficiali, ma le stime parlano di un totale di quasi 200 mila morti tra civili e militari, vittime di oltre 100 mila missioni aeree. Di queste settimane sono le vicende somale e in lista di attesa, c’è ora la ex-Yugoslavia.

Una delle lezioni che si dovevano trarre dalla guerra aerea combattuta nel secondo conflitto mondiale è che i bombardamenti “convenzionali” si rivelarono molto più devastanti dei bombardamenti atomici: la bomba atomica dell’agosto 1945 su Hiroshima causò 71.379 morti. Ma il bombardamento, sempre americano, su Tokyo del 10 marzo dello stesso anno (duemila tonnellate di bombe) causò 130 mila morti e 300 mila ustionati.

Peggio ancora era andata a Dresda un mese prima: in quell’occasione americani e inglesi insieme bombardarono la “Firenze del nord” per 14 ore nonostante l’assenza di un qualsiasi obiettivo militare: alla fine le vittime furono circa 200 mila. Dati sui quali dovrebbero riflettere quanti giustificano la ferocia alleata con l’osservazione che il primo bombardamento si centri abiti fu operato dai tedeschi (dopo la prova generale di Guernica) su Coventry il 14 novembre 1940.

Quel bombardamento (530 tonnellate di bombe) “giustificato” da alcuni impianti industriali, causò “solo” 380 morti. Una inezia rispetto a quello che si sarebbe scatenato di li a poco. Durante la seconda guerra mondiale morirono sotto i bombardamenti aerei almeno due milioni di civili: oltre un milione di giapponesi e non meno di 500 mila tedeschi. Per quanto riguarda l’Italia mancano dati completi: le cifre sono sicuramente inferiori ma non per questo trascurabili.

In linea generale bisogna poi fissare un punto fisso: la guerra dei bombardamenti non fu scatenata dai tedeschi ma, si può dire, nacque quasi per sbaglio. A più riprese Hitler, fino all’estate del ’40, escluse espressamente “attacchi terroristici” sui centri abitati: si dovevano «evitare – disse – di infliggere gravi danni alla popolazione civile». Una decisione presa non per ragioni umanitarie ma perché ancora il dittatore tedesco sperava di convincere gli inglesi alla pace.

La riserva di Hitler comunque venne meno il 7 settembre 1940 quando venne ordinato il primo bombardamento su Londra in risposta al raid inglese su Berlino del giorno precedente mentre omai la battagli di’Inghilterra volgeva al termine. Con cifre e date si potrebbe andare avanti per pagine e pagine. Ma ora che sono caduti i muri ideologici è giusto che i problemi storici vengano posti senza ipocrite distinzioni tra Bene e Male. La vita di un civile inglese vale quella di un civile tedesco o italiano. E stabilire chi ha cominciato per primo non può servire a giustificare gli eccessi successivi

Recentemente a più parti si sono levate voci critiche sulla condotta alleata della guerra, a terra come in cielo. Ad esempio l’inglese Eric Morris, in un libro che ha fatto molto discutere (La Guerra inutile – la campagna d’Italia 1943-45 – Longanesi – pp. 558 lire 42.mila) ha messo sul banco degli imputati i comandanti alleati e ha fatto un calcolo triste e ciìnico come tutti i calcoli che riguardano i morti. Ma non per questo privo di una intima verità: l’avanzata alleata, ha rivelato Morris, causò non meno di 64 mila morti civili in Italia, per lo più vittime di bombardamenti su centri abitati.

Di contro l’occupazione tedesca ha comportato l’uccisione di circa 10 mila italiani. A questi ne vanno aggiunti altri 9 mila costretti a recarsi in Germania a lavorare. Quindi tra il ’43 e il ’45 per ogni italiano deceduto a causa delle violenze naziste ne morirono 6 per i bombardamenti dei liberatori anglo-americani. Ma si può fare un «differenza morale tra l’uccisione accidentale e quella deliberata di civili» si chiedeva tempo fa il quotidiano inglese The Indipendent durante le polemiche seguite nel maggio ’92 alla decisione di erigere un monumento a sir Richard Harris, detto “il macellaio”, il famigerato comandante del Bomber Command inglese nella II guerra mondiale, il maggiore teorico dei bombardamenti a tappeto su obiettivi civili.

Si potrebbe aggiungere anche un’altra domanda: le vittime dei bombardamenti su centri abitati lontani da obiettivi militari vanno considerate “accidentali” o “deliberate”? e ancora: una “guerra ideologica” come lo fu il secondo conflitto mondiale può giustificare lo sterminio, pianificato a tavolino, di centinaia di migliaia di persone inermi, le cui case spesso distavano centinaia di chilometri dal fronte e da un qualsiasi obiettivo miliare?

E infine: un bombardamento a tappeto su obiettivi civili nel ’42, quando ancora l’equilibrio tra Asse e alleati era totale, può essere messo sullo stesso piano di un bombardamento ancor più distruttivo operato negli anni successivi quando ormai la guerra era decisa?

I bombardamenti alleati sull’Italia in particolare ebbero chiaramente una valenza politica: se le bombe prima del 25 luglio vennero giustificate con la necessità di accelerare la crisi del regime Fascista,. Quelle tra il 25 luglio e l’8 settembre, furono motivate con la necessità di spingere il governo Badoglio a firmare la resa.

Curiosamente però i bombardamenti proseguirono anche durante la fase finale delle trattative: tra il 18 agosto e il 2 settembre gli alleai attuarono oltre 4.500 missioni sul nostro Paese, caricando oltre settemila tonnellate di bombe. Di quelle settemila tonnellate circa 2.500 finirono sulla sola Milano nelle tre devastanti incursioni del 7, 13 e 15 agosto. Bombardamenti inutilmente feroci, dietro in quali si può scorgere, purtroppo, anche lo zampino di alcuni italiani.

Come ha scritto alcuni anni fa Franco Bandini nel suo Vita e morte segreta di Mussolini (Mondatori 1978) il 2 agosto durante una riunione della Concentrazione antifascista, l’embrione di quello che sarebbe diventato il CLN, in casa Gallarati Scotti a Milano si decise di invitare gli anglo-americani a bombardare le principali città italiane per favorire quella insurrezione popolare che era mancata dopo il 25 luglio, quando gli italiani si erano limitati a festeggiare la presunta fine della guerra.

A quella riunione partecipò anche Ugo La Malfa, da poco rientrato dalla Svizzera per prendere la guida del Partito d’Azione: «La Malfa – ha scritto Bandini – si fermò soltanto un paio di giorni a Milano, ma gli bastarono per fare tracollare la bilancia integralista».

L’invito degli impazienti antifascisti italiani venne velocemente comunicato al capo della Special Force inglese in Svizzera, John Mc Caffery: «Le incursioni dell’agosto 1943 – ha ricordato ancora Bandini – avvennero con un numero di apparecchi doppio e persino triplo, e con carichi di bombe che nell’incursione del 12-13 su Milano raggiunsero, con 504 apparecchi, le 1.250 tonnellate di bombe (…).

Il secondo fatto notevole è che – a differenza dei precedenti bombardamenti – questi ebbero come obiettivo deliberato i centri cittadini. Furono cioè, e chiaramente, bombardamenti “politici”, e vennero interrotti quando il risultato politico che si proponevano fu raggiunto».

Diverso, ma non meno inquietante, il parere di Giorgio Bonacina, forse il massimo esperto italiano in guerra aerea, il quale, nel 1983 ha pubblicato un documento inglese dal quale risulta che, fin dall’aprile 1943, gli anglo-americani pensavano a seppellire la pianura Padana sotto 45 mila tonnellate di bombe: «Ciò dimostra – conclude Bonacina – una volta per tutte che i grandi bombardamenti dell’agosto non furono eseguiti per premere psicologicamente sul governo Badoglio e indurlo alla resa. Sarebbero stati compiuti comunque. Naturalmente l’armistizio dell’8 settembre evitò il peggio».

Non è forse giunta l’ora di guardare al nostro passato con altri occhi, magari cominciando a riordinare i dati sui bombardamenti sull’Italia, e subito dopo cominciare a chiamare i “liberatori” con il loro vero nome?

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Gli angeli della morte su Roma

Per Roma la guerra finì il 6 giugno ’44 con l’entrata in città delle truppe Usa. I romani li accolsero festosamente anche se, nei mesi precedenti, gli alleati avevano, oltre a migliaia di mitragliamenti indiscriminati, bombardato la Città eterna 52 volte, uccidendo circa 8 mila persone e ferendone altre 30 mila. Incalcolabili le distruzioni a monumenti, edifici pubblici, trasporti e di case civili. Nove mesi di dura occupazione tedesca erano riusciti a far dimenticare tutto questo.

Subito dopo il primo bombardamento della capitale, il 19 luglio 1943, una mano ignota aveva scritto su un muro della via Casilina: «Meio l’americani su la capoccia che Mussolini tra li coioni». Una scritta (indice di un meccanismo psicologico curioso) che faceva il paio con quella apparsa, qualche mese prima a Milano quando, dopo il bombardamento del 24 ottobre 1942, un milanese sfogò la propria ira su un muro: «Duce porco assassino».

Comunque le si voglia giudicare quelle scritte rappresentavano la prova provata che gli alleati, con la loro strategia dei bombardamenti sui centri abitati, avevano raggiunto il loro duplice scopo. Colpire obiettivi strategici ma soprattutto fiaccare la resistenza della popolazione e minare le basi del fascismo.

Stessi obiettivi all’origine del bombardamento su Roma di cui ora Cesare De Simone, 57 anni, giornalista, cronista di nera al Corriere della Sera e un passato di redattore all’Unità, ha rievocato minuziosamente retroscena e circostanze. De Simone ha impiegato alcuni anni per scrivere il suo Venti angeli sopra Roma (Mursia, pp.357, lire 30 mila). Un libro costruito sapientemente, pieno zeppo di testimonianze inedite, curiose a tratti, sempre interessanti e spesso storicamente rilevanti.

Nel gergo degli aviatori americani “un angelo” corrispondeva ad una altezza di mille piedi: a ventimila piedi (cioè a “venti angeli”) la povera contraerea italiana non avrebbe mai potuto impensierire gli incursori nemici. Nemici che, secondo De Simone, «trattarono eccezionalmente bene Roma. Basta fare il paragone con le altre città italiane bombardate».

Il bombardamento del 19 luglio fu preceduto da lanci di volantini invitanti la popolazione a lasciare la città e, almeno in un primo tempo, si cercò di attuare un “bombardamento chirurgico”. Ma, ricorda De Simon, solo i primi aerei furono dotati di precisi sistemi di puntamento.

Alle ondate successive venne dato l’ordine, volutamente generico, di mirare sui fumi elle pime esplosioni. La rosa di fumo si allargava via, via e così le bombe caddero sul quartiere S. Lorenzo, sulla città universitaria, sugli ospedali, sul cimitero del Verano, sull’antica basilica di san Lorenzo fuori le mura.

«Ovviamente – riconosce De Simone – erano state messe in conto un po’ di distruzioni e un po’ di morti». Questo spiega l’impiego anche di bombe a scoppio ritardato. Le distruzioni furono ingenti, i morti non meno di 3 mila, circa 10 mila i feriti.

Morti, feriti e distruzioni la cui responsabilità, secondo De Simone, ricade esclusivamente sul fascismo. Un convincimento che l’autore ha voluto inserire nella dedica, una delle poche note stonate in un lavoro per altri versi pregevole: «La linea portante del mio libro è che la colpa della distruzione di Roma, dei morti, dei feriti e delle devastazioni, è del nazifascismo che ha scatenato la guerra di aggressione. Ecco perché ho voluto dedicare il mio libro sia alle vittime italiane che agli aviatori americani morti nel cielo del Lazio per riportare in Italia la democrazia»

F.An