Noi confessiamo. Firmato, gli aguzzini dei Gulag

Nkvd-documentCorriere della Sera 23 maggio 2005

Le ammissioni strappate con la tortura, le esecuzioni senza processo, i trasferimenti che portavano solo alla morte. Ecco i rapporti ufficiali e segreti degli agenti sovietici

MOSCA – Come tutte le burocrazie, anche quella sovietica aveva la tendenza maniacale a conservare e catalogare minuziosamente tonnellate di dati e cifre. Compresa buona parte dei documenti sugli arresti, le torture e lo sterminio di milioni di cittadini passati attraverso il tritacarne del Gulag. Ora, grazie a un lavoro minuzioso durato sette anni, gli storici dell’Archivio statale della Federazione russa hanno pubblicato sei volumi sulle repressioni staliniane.

Un’opera realizzata sotto l’egida di un comitato editoriale del quale fanno parte Aleksandr Solgenitsyn e lo storico Robert Conquest. I rapporti ufficiali e anche i racconti di ex agenti della Ceka, dell’Ogpu e dell’Nkvd (predecessori del Kgb), poi a loro volta arrestati, ci forniscono un quadro cinicamente oggettivo di quello che accadeva.

E che, a volte, è ancora più angosciante dei racconti fatti dalle vittime.

Arresti e confessioni – Nei periodi più caldi delle repressioni, vale a dire durante la campagna contro i contadini dei primi anni Trenta e nel Grande Terrore del ’37-’38, Mosca fissava quote precise che ogni distretto doveva rispettare, esattamente come per la produzione industriale o la raccolta del grano. Una risoluzione del Politburo del 1938 stabilisce, ad esempio, che «un numero aggiuntivo di ex kulaki (contadini relativamente benestanti, n.d.r.), criminali ed elementi anti-sovietici vengano repressi». E fornisce cifre precise: 57.200 da arrestare; 48.000 da fucilare.

Come facevano i boss locali a trovare i «colpevoli»? Seguiamo il racconto del prigioniero Yegorov, ex cekista, arrestato nel dicembre del 1938. «A Nyarm il maggiore Popov seppellì varie casse di armi in differenti luoghi. Poi arrestò un gruppo di ex ufficiali bianchi e fece confessare loro l’esistenza di un’organizzazione chiamata Unione generale militare. Gli arrestati rivelarono anche dove avevano nascosto le armi. Le casse sepolte in precedenza vennero “scoperte” in presenza di testimoni provenienti da organizzazioni del partito».

Le vittime confessavano qualsiasi crimine, naturalmente. Uno dei metodi usati è descritto sempre da Yegorov. «Il tenente Ivanov a Novosibirsk faceva rimanere i prigionieri in piedi per diversi giorni, spesso legandoli a casseforti o a porte per evitare che cadessero. Questo fino a che non firmavano la confessione».

Da un rapporto dell’Nkvd del 1939 sappiamo cosa avveniva in Turkmenistan, dove era stato introdotto il sistema del cosiddetto convogliatore di massa: «dozzine di persone allineate con la faccia contro un muro… alcuni per 30 o 40 giorni senza poter dormire. Il capo del quinto dipartimento, Glotov, ubriaco, li colpiva ripetutamente con un cavo d’aereo… Il terzo dipartimento metteva sul convogliatore anche donne con bambini».

Le esecuzioni – Le uniche cifre ufficiali pubblicate sono quelle che furono presentate a Krusciov nel 1954 dal ministro dell’Interno. Solo nel 1937 furono uccise 353.074 persone. Nel 1938, 328.618. Ma milioni furono fatti morire di fame o vennero eliminati fuori dalla contabilità ufficiale. In Urss non sono mai stati adoperati mezzi di sterminio di massa, come le camere a gas dei nazisti.

Per lo più le vittime venivano fucilate. Ma c’erano anche funzionari sadici che applicavano metodi di loro invenzione. In una confessione del 1954, l’ex commissario agli affari interni del Dagestan, Lomonosov, racconta di come strangolava gli arrestati a Khasaviurt nel 1937. «Ai prigionieri dicevamo che dovevano essere trasferiti. Li portavamo in una stanza a firmare delle carte, poi in un’altra dove li facevamo sedere e chiedevamo loro se erano pronti per il viaggio, con tutta la biancheria e il resto. Con mano rapida, il sergente Romanenko gli metteva una corda attorno al collo e li strangolava. L’intera procedura richiedeva 5 minuti a prigioniero». I fortunati, quelli che sopravvivevano agli interrogatori, alle torture, alle esecuzioni immediate e ai trasferimenti, finivano nei lager.

Condanna minima cinque anni, ma quella standard era di dieci. Rinnovabili. Nel 1938 c’erano un milione e 313 mila prigionieri nell’arcipelago Gulag. Nel 1941 il numero salì a un milione e 560 mila. Pur impegnato a combattere i tedeschi, Stalin affinava ulteriormente la sua macchina repressiva.

Utili al regime

I lager sovietici non erano campi di sterminio, anche se i prigionieri morivano come mosche. Dovevano invece essere utili al regime, «estrarre» il più possibile dai nemici di classe imprigionati. La macchina venne messa a punto sempre meglio, anche se in realtà continuava a funzionare malissimo, con sprechi inaccettabili per il regime.

Il 5 giugno del 1932 il lavoratore Verkhoturov, sconvolto per quello che aveva visto nel campo di Tomsk, mandò una lettera (finita regolarmente agli atti) a Molotov, inossidabile collaboratore di Stalin e futuro ministro degli Esteri.

«Viacheslav Mikhailovich, ho visto uomini vecchi e malati, mutilati dal lavoro e dalle malattie, che hanno dato al campo tutta la loro forza, tutta la loro salute… hanno pagato abbondantemente per i loro crimini… alcuni sono paralizzati, mutilati, non hanno nemmeno la forza di trascinarsi alla latrina… ricevono solo una tazza di zuppa senza carne e 400 grammi di pane». Ci fu un’ispezione che, naturalmente, diede ragione all’amministrazione del campo: «tutti i disabili lavorano con passione e ricevono razioni piene… l’assistenza sanitaria è adeguata».

Il rapporto

Più freddo, ma altrettanto inquietante, il rapporto mandato nel 1938 dal procuratore Vishinskij (quello dei grandi processi-farsa) al commissario per la sicurezza Yezhov (poi fucilato). Nei campi dell’Estremo Oriente le condizioni dei prigionieri «sono assolutamente intollerabili». E per un motivo molto concreto: «i prigionieri non sono in grado di lavorare», non rispettano le quote, non contribuiscono ad edificare come dovrebbero la grande patria socialista.

«Alcuni hanno perso qualsiasi sembianza umana, non hanno vestiti e non hanno scarpe. Raccolgono avanzi in terra, mangiano ratti e cani… Nell’infermeria, i prigionieri giacciono nudi su un tavolaccio pigiati come aringhe in una botte. Tubercolotici e sifilitici assieme ai congelati scaricati dai treni di Mosca… E nuovi carichi continuano ad arrivare. La gente è senza vestiti, va per strada a piedi nudi con temperature che vanno da meno venti a meno cinquanta. Per tutto dicembre i campi non hanno ricevuto carne, pesce o grasso e in alcuni la zuppa viene fatta anche senza verdure… Il risultato è che il tasso di utilizzazione dei prigionieri è bassissimo».

La mortalità era invece altissima. In sette nuovi lager forestali, messi in piedi per alleggerire la pressione sui vecchi campi (con l’ondata di arresti in corso), 3.343 prigionieri erano morti nel gennaio del 1938; 3.244 in febbraio e 3.040 in marzo. Ma queste sono solo le cifre ufficiali. Moltissimi morivano per strada e non venivano nemmeno classificati.

In altri casi i dirigenti dei campi non denunciavano il calo del numero dei prigionieri vivi per non vedersi ridurre le razioni.

La strada di ossa

Ma nonostante tutto, l’amministrazione del Gulag è riuscita a utilizzare milioni di uomini e donne transitati per i lager per le grandi opere del regime. La strada della Kolyma, la regione dell’oro e degli altri minerali di cui ha parlato il grande scrittore Shalamov. Ancora oggi a chi la percorre si spiega che il sottofondo è fatto con le ossa dei reclusi. Il canale tra il Mar Bianco e il Mar Baltico, scavato con pala e piccone, d’estate e d’inverno.

Il canale da Mosca al Volga, che richiese anni di lavoro e migliaia di morti. Ma il lavoro forzato non servì solo alle grandi opere, all’edificazione di stabilimenti siderurgici colossali. Anche le dacie di legno che riempiono i boschi attorno a Mosca nei vari villaggi «degli accademici» o «dei generali», una volta inaccessibili per i comuni mortali, sono frutto del lavoro degli schiavi di Stalin.