Spunti di apologetica – A proposito di confusione

statalismoda “Una voce grida…!“, n.7 giugno 1998

di Alessandra Nucci

Nell’enciclica “Centesimus Annus”, Giovanni Paolo II aveva evidenziato la somiglianza fra lo statalismo di sinistra e il modello propugnato dalla “società del benessere”. La società che si basa sul libero mercato, scriveva il Papa, “se nega autonoma esistenza e valore alla morale, al diritto, alla cultura e alla religione, converge con (il marxismo) nel ridurre totalmente l’uomo alla sfera dell’economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali.” (C.A. 19.)

Pubblicata nel centenario della Rerum Novarum, appena due anni dopo il crollo del muro di Berlino, la lettera apostolica si inserì in un contesto che era ancora di generale sollievo per la fine del pericolo sovietico e della guerra fredda, per cui fu facile leggere l’ammonimento come rivolto esclusivamente al sistema capitalistico che apparentemente non aveva più rivali.

Da allora gli avvenimenti hanno chiarito invece che il marxismo non è scomparso insieme al regime di Mosca, ma ha soltanto mutato aspetto, facendo professione di fede nel libero mercato e confidando che il controllo dell’economia da parte dello Stato avrebbe potuto portare al medesimo risultato, oltretutto con meno difficoltà, del possesso da parte dello Stato dei mezzi di produzione.

La questione non è soltanto economica e politica, ma coinvolge anche l’etica e si riversa sulla morale. Capitalismo e marxismo infatti oggi non solo coesistono ma, depurati di idealità e ideologia, convergono in tutto il mondo, considerando l’uomo niente di più di un soggetto economico le cui idee devono diventare il più possibile omogenee per rendere i suoi comportamenti e i suoi spostamenti il più possibile prevedibili e pianificabili.

In Cina insieme alla struttura statale comunista prospera oggi il vangelo consumistico. Pubblicità e programmi televisivi sono dello stesso tenore di quelli occidentali, con la sola differenza che i protagonisti di varietà, telefilm e notiziari hanno i capelli neri e gli occhi a mandorla. E se Marx si era sbagliato nel prevedere l’evoluzione dei meccanismi economici, ciò non è valso a togliere il comando indiscusso al Partito comunista cinese. La vigile burocrazia statale (che coincide con il partito, a cui non a caso possono accedere solo i “meritevoli”), vigila infatti per continuare ad assicurare il controllo minuzioso del paese, pur incentivando l’iniziativa privata.

Tutti infatti continuano in qualche modo ad operare all’interno di rapporti collettivistici, di dipendenza o interdipendenza, chiese comprese, come testimonia il caso della Chiesa cattolica “ufficiale”, riconosciuta dal governo di Pechino, che si distingue dalla Chiesa cattolica sostanzialmente clandestina che si ostina invece a voler dipendere dal Vaticano.

Che sia possibile unire il peggio dei due sistemi, il materialismo di un libero mercato giudicato buono in quanto tale, con il materialismo ateo della cultura collettivista, lo si constata anche in Occidente dove convergono “sul terreno esclusivamente materialista e privo di valori spirituali”.

Gli avvenimenti del 1989 hanno fugato la paura del comunismo e reso più sbiadite le distinzioni fra cristianesimo e marxismo da una parte, e fra capitalismo e marxismo dall’altra. E’ un passaparola ormai comune infatti quello che distingue fra gli errori nell’applicazione pratica del socialismo reale, confinata nella mente dei più allo stalinismo, e la bontà invece sostanzialmente intatta delle teorie di Karl Marx, in quanto tendevano alla giustizia sociale.

Ma questo atteggiamento glissa sulla concezione dell’uomo – considerato specie evoluta, senza anima, totalmente dipendente dalle sorti dell’economia – che soggiace al determinismo marxista, e si incrocia con il dogma di matrice liberale che domina sostanzialmente incontrastato la cultura etico-politica dei nostri tempi: il concetto cioè che sia giusto valutare e condurre con criteri puramente economici ogni cosa, dagli ospedali, ai tribunali, alle scuole.

In Italia ad esempio questa mutata visione etica delle cose del mondo, che fa coincidere bene e male non con dei principi assoluti ma con i numeri di risultati economicamente “imparziali”, si riscontra e si va rafforzando in ogni ambito formale e concreto della struttura statale.

Anche il linguaggio rispecchia e ribadisce questa mutata sensibilità. La sanità non si divide più in “Usl” ma in “Ausl”, ovvero Aziende Usl; i presidi non vanno incentivati ad essere dei bravi educatori ma piuttosto dei bravi manager; i giudici non meritano stima per la saggezza delle loro sentenze ma per il numero di processi che riescono a sbrigare; la “produttività” di una scuola e di un ateneo non si giudicano per la qualità dell’insegnamento ma in base a complicati calcoli intorno alla quantità di “risorse” impiegate (ivi compresi i docenti, le “risorse umane”); Parlamento e Ministeri sfornano tantissime leggi, circolari e regolamenti e siamo tenuti ad apprezzarli per la loro quantità a prescindere dal loro tenore incisività. E via dicendo.

Non che l’integrazione liberista-statalista sia nata oggi. La sgradevole novità però è che ciò si accompagna alla progressiva disgregazione etica della società. Nella cultura moderna “vero” è stato sostituito da “oggettivo”, cioè sottratto alla “arbitrarietà” del singolo e quindi “impersonale”. Sempre meno abituato a parlare in termini di ordine, autorità, onestà e rettitudine, declassati a rango di riprovevole “retorica”, sempre più accerchiato da immagini e letture che mettono l’accento sulla libera istintualità e il “sano” e logico egoismo dell’individuo, l’uomo finisce oggi per sentirsi più garantito dagli organismi impersonali che dalle persone.

Finisce cioè per trovare naturale che si faccia riferimento allo Stato come autorità assoluta, come se esso non derivasse il suo potere totalmente dagli stessi cittadini e a quei cittadini non dovesse rendere conto. Ci si rifugia nell’astrazione “Stato”, che nella mentalità corrente si sostituisce sempre di più alla legge come fonte di autorità, per cercarvi quei dettami assoluti e oggettivi che la cultura relativistica ha in gran parte spazzato via. E ci si sottomette allo Stato non per convinzione ma per realismo, con la rassegnazione acritica, cioè, con cui si accoglie un male necessario.

Non è l’atteggiamento dei fanatici cultori della mistica totalitaria, ma nemmeno quello dei popoli che vivono in democrazia. E’ l’atteggiamento invero dei popoli assoggettati ad un ordine imposto, non importa se con la forza o con altre tecniche di controllo culturale e sociale. In questa situazione di secolarizzazione pervasiva e accerchiante, in cui le cose più varie contribuiscono a ribadire modi di pensare uniformanti e sempre più lontani dai principi cattolici, la Chiesa chiama i fedeli laici a diffondere la reale cultura cristiana.

Il moderno totalitarismo non nasce infatti dall’uso delle armi ma dal dominio del pensiero (CA,44) attraverso l’egemonia culturale che può attecchire soltanto là dove si è fatta piazza pulita dei cardini che sostenevano il senso comune primigenio. Per questo i cattolici devono ripartire dalla lotta alla confusione di base, alla cultura che idealizza la comunicazione e relativizza il messaggio, la cultura che usa il concetto di “privacy” per diffondere la diffidenza, la cultura che demonizza termini come tradizione e ironizza su parole come martire, la cultura che ci rassicura che ogni cosa verrà “normata”- dalla dimensione delle scuole alle associazioni di volontariato, la cultura che definisce giustizia sociale il dare a ciascuno in parti uguali anziché il dare a ciascuno il suo, la cultura che esalta la libertà di trasgressione ma delimita la libertà di educazione, la cultura che sbandiera “tolleranza” mentre non tollera l’evangelizzazione, sminuita e bollata come “proselitismo”, la cultura che idealizza l’innovazione in quanto tale e che esalta la multiculturalità per negare la matrice cristiana dell’occidente.

Si verifica così il paradosso che la cultura attuale, che pretende di liberare l’uomo da qualunque “repressione” o auto-condizionamento, non è destinata affatto a creare una società più libera. Al contrario, dice Giovanni Paolo II: “una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia.” (CA,46) un totalitarismo che si impone con la “negazione della verità in senso oggettivo.”

La libertà vera, che sta alla base della trascendente dignità della persona, deve essere dunque anche libertà da “mode e movimenti di opinione” e dal condizionamento di assunti dati per acquisiti, primo e universale fra i quali il pensiero relativo. “Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere,” ammonisce la Centesimus Annus, e niente tratterrà le persone dall’utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispongono “per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro.”